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Braccio di ferro sui sussidi dannosi

C’è uno scontro in atto all’interno della maggioranza in Parlamento sulle royalties che dovrebbero pagare i padroni del petrolio, Eni in primis. Il “lodo Collina” e le osservazioni del Wwf.

Per capire cosa realmente sarebbe successo dopo che autorevoli esponenti del governo Conte II avevano dichiarato nelle scorse settimane di voler aggredire, finalmente, la questione dei sussidi ambientalmente dannosi (SAD) abbiamo atteso di leggere il disegno di legge (Ddl) di Bilancio 2020-2022, ora all’esame del Senato. Eravamo ovviamente molto interessati in primis a vedere se il ministro dell’Economia e delle Finanze, Roberto Gualtieri, patron di quella che un tempo chiamavamo la Finanziaria, che sull’argomento si era esposto, avrebbe introdotto nella manovra disposizioni coerenti con il Green Deal annunciato dal governo.

Data la risicatissima capacità di manovra del governo, limitato dalle clausole di salvaguardia che hanno bloccato 23 miliardi di euro per la sterilizzazione dell’IVA, pensavamo che potesse essere un’occasione da non perdere, cominciare ad attingere da un “tesoretto” piuttosto consistente di risorse recuperabili, dell’ammontare complessivo di 19,8 miliardi di euro, di cui ben 16,8 a sostegno dei combustibili fossili.

E invece eccoci a fare i conti con la difesa dello status quo, delle rendite di posizione. Infatti con l’articolo 94 del Ddl di Bilancio le esenzioni dal pagamento delle aliquote per l’estrazione degli idrocarburi liquidi e gassosi, vengono grottescamente solo non applicate per il triennio 2020-2022, invece che semplicemente abrogate, cancellando – come si leggeva nelle bozze del disegno di legge che erano circolate prima dell’approdo in Senato – i commi 3, 6, 6-bis e 7 dell’art. 19 del decreto legislativo n.625/1996, che le hanno istituite.

Un favore all’ENI, che detiene una posizione di semi monopolio nel settore, quello della sospensione temporanea. Perché dopo tre anni tutto tornerà come prima e di nuovo non pagherà nulla chi ha una concessione che si mantenga sotto la soglia delle 20.000 tonnellate di petrolio e dei 23 milioni di metri cubi di gas estratti a terra e delle 50.000 tonnellate di petrolio e degli 80 milioni di metri cubi di gas estratti a mare. Questo privilegio dei signori del petrolio, che si doveva definitivamente superare, si è tradotto sinora in un danno, oltre  che alle casse dello Stato, alle comunità locali e all’ambiente, perché il pagamento delle royalties serve proprio a compensare l’impatto economico, sociale e ambientale dell’attività estrattiva.

Una sottrazione di risorse che, leggendo le valutazioni contenute a pag. 306 della Relazione introduttivi allo stesso Ddl di Bilancio (AS n. 1586), è valutabile in 40 milioni di euro l’anno, che tra il 2020 e il 2022 entreranno nelle casse dello Stato, ma dopo no! E non si capisce veramente il perché, a meno che l’autore della norma non sia il cappellaio matto di Alice nel Paese delle meraviglie.

Si è scelta, quindi, la strada di un indifendibile palliativo, ha sottolineato il WWF nelle sue osservazioni inviate al Senato, in contraddizione con la tanta proclamata decarbonizzazione. Infatti la franchigia è di fatto un sussidio indiretto ambientalmente dannoso a sostegno dei combustibili fossili, che sono tra i maggiori responsabili dei cambiamenti climatici, come ricordato nel Catalogo sui Sussidi redatto nel luglio 2018 dal ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (ai sensi dell’art. 68 della legge n. 221/2015).

A pagina 196 del Catalogo si legge: “La prima delle agevolazioni citate (la franchigia, ndr) costituisce senza dubbio un sussidio. Fra laltro, i limiti di franchigia dal pagamento delle royalties sono stati fissati a livelli molto elevati che, nella grande maggioranza dei casi, superano i livelli di produzione annua effettiva dei giacimenti, determinando quindi una quasi generalizzata esenzione dal pagamento delle royalties dovute. Questo regime fornisce un grosso incentivo economico ai titolari delle concessioni, la cui motivazione andrebbe corroborata con studi di comparazione dei costi rispetto allimportazione dallestero. Dal punto di vista ambientale, il regime nazionale delle royalties altera la concorrenza rispetto alluso di fonti energetiche più pulite e favorisce lestrazione e la successiva combustione di petrolio e gas naturale, con relativi rischi per gli ecosistemi marini e terrestri ed emissioni in atmosfera.”

Ma c’è chi all’interno della maggioranza di governo non ha il senso della misura e vuole strafare: si tratta del senatore del PD Stefano Collina, professione ingegnere e consulente, di Faenza (Ravenna). Il Ravennate è il vero polo delle estrazioni petrolifere offshore in Italia e l’autorevole esponente democratico che, ironia della sorte, è anche vicepresidente della XII Commissione Igiene e Sanità del Senato, decide di presentare un emendamento aggiuntivo pro-petrolieri teso principalmente a rendere nulla anche la stessa timida sospensione triennale voluta dal governo, stabilendo che comunque le esenzioni si continuino ad applicare anche dal 2020 al 2022 quando ci sia una produzione annua inferiore o pari a 10 milioni di mtri cubi i gas e 20.000 tonnellate di olio in terraferma e con una produzione inferiore o pari a 30 milioni i metri cubi di gas e 20.000 tonnellate di olio i mare.

Siamo agli “sconti” per i Lorsignori del petrolio. Meno male che a cercare di bilanciare la timida mossa del governo e il lodo Collina c’è l’autorevole pattuglia di LEU nel Gruppo misto di Palazzo Madama (De Petris, Errani, la Forgia, Grasso) che ripropone l’abrogazione tout court delle disposizioni che introducono le royalties. E vedremo chi l’avrà vinta tra le varie anime della maggioranza.

Sul fronte dell’autotrasporto si fa qualcosina in più, sperando che il governo difenda la sua norma: all’art. 76 del Ddl di Bilancio dall’1 marzo 2020 si escludono i veicoli di classe Euro 3 dal beneficio fiscale della riduzione dell’accisa sul gasolio per l’autotrazione utilizzato in alcune tipologie di automezzi per il trasporto merci e passeggeri e dall’1 gennaio 2021 anche i veicoli di classe euro 4 (mentre quelli di classe Euro 1 ed Euro 2 erano stati già esclusi dalle Leggi di Stabilità del 2015 e del 2016). Ma se si passa alla lettura della Tabelle 2 (stato di previsione del ministero dell’Economia e delle Finanze) e della Tabella 10 (stato di previsione del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti) del Ddl di Bilancio anche quest’anno troviamo 1,8 miliardi di euro nel solo 2020 complessivamente a sostegno del settore dell’autotrasporto; 1,467 miliardi destinati proprio a contenere l’aumento delle accise del gasolio.

E’ chiaro che – data l’estrema frammentarietà del settore nel nostro Paese (sono ben 87mila le aziende di autotrasporto attive oggi in Italia) e le piccole dimensioni delle imprese (sono 27mila i cosiddetti padroncini con 1 solo camion e  35mila le aziende che hanno da 2 a 5 autoveicoli) –  non si può pensare ad una transizione ecologica dall’oggi al domani. Nello stesso tempo convogliare le risorse esistenti in un fondo finalizzato alla conversione low carbon della flotta e all’intermodalità non sarebbe male. Saremmo sulla buona strada, per restare metaforicamente in argomento.