Dal numero 8 del “laboratorio politico” fuoricollana.it, uno dei contributi dedicato al recente libro di Lucio Caracciolo “La pace è finita” con al centro l’effetto destabilizzante dell’Antimpero americano e del suo alter-ego: l’Antieuropa.
Il merito maggiore del recente pamphlet di Lucio Caracciolo (La pace è finita, Feltrinelli 2022) sta senz’altro nell’identificare nell’Antimpero americano l’epicentro del disordine internazionale che spinge il mondo verso esiti catastrofici. Per questo il capitolo sull’Antimpero, come giustamente nota Mortellaro nel suo contributo è il più importante del libro. Il riconoscimento di questo dato si accompagna a una chiamata in correità delle culture progressiste e rivoluzionarie, considerate corresponsabili del disordine che regna nel mondo a causa della loro teorizzazione della fine della storia e del superamento del conflitto geopolitico, di cui Unione Europea è la più coerente e disastrosa incarnazione. Il progetto europeo, in realtà proiezione europea dell’impero USA, ha velato sotto le sue vesti civili gli egoismi nazionali e le improbabili velleità di rinascita degli Stati europei, offrendosi nel contempo come la più coerente incarnazione della narrazione iper imperiale americana della fine della storia come realizzazione del paradiso della legge, della pace perenne e del benessere. In realtà propellente ideologico del sogno di dominio unipolare. Proveremo, ripercorrendo i punti salienti del testo, a saggiarne i meriti, indiscutibili, e a discuterne le parti a nostro giudizio problematiche.
Universalismo e fine della storia. La rivincita della geopolitica
La guerra in Ucraina ha dato il colpo definitivo alle astrazioni idealistiche di chi, illudendo colpevolmente sé stesso e gli altri, ha pensato che fosse possibile ignorare le leggi della geopolitica. Chi si è finora ostinatamente rifiutato di riconoscere le dinamiche di potenza che governano la storia, non può più continuare a chiudere gli occhi! Così Caracciolo, fin dalla conclusione in forma di premessa che apre il volume.
Come abbiamo potuto, si domanda Caracciolo, credere alla fine della storia? Come si è potuta accreditare la narrazione di Fukuyama sull’avvento dell’ultimo uomo o le rassicuranti rappresentazioni del mondo reso piatto dalle forze livellatrici della globalizzazione? A quali fini pratici sono servite queste ideologie?
I cattivi maestri dell’oltrestoria: una storia già vista
Per rispondere a queste domande, sostiene l’autore, è necessario prima di tutto identificarne la radice profonda. Essa va cercata nell’Illuminismo, virato “in hegelismi e marxismi vari, da cui genera il mito del dopo-storia, nel quale l’uomo pacificato finalmente si dedicherà a coltivare le arti liberali e i piaceri che lo distinguono dagli altri animali”. Kant, Hegel e Marx sono insomma i cattivi maestri che hanno armato la mano di tutti coloro che, anziché esercitare il sano realismo geopolitico, hanno creduto che la storia avesse una direzione. E che, quindi, si sarebbe arrivati prima o poi al regno definitivo della pace e del benessere. Ci sarebbe molto da discutere e da precisare al riguardo. Non interessa però, nella nostra prospettiva, verificare la tenuta filologica di questa tesi, che deve molto alla ricostruzione dell’hegelismo proposta da Kojève e fatta propria da Fukuyama. Né staremo a domandarci come mai non vengano ricompresi in questo club anche il liberalismo e il positivismo. Semmai sarebbe necessario distinguere, cosa che Caracciolo non fa, tra versioni progressiste e rivoluzionarie della storia. Distinzione invece assolutamente necessaria. Perché le seconde, in genere, non danno affatto per scontato l’avanzamento teleologico verso un esito necessario. Perché la rivoluzione è una rottura del continuum storico, il cui esito è tutt’altro che scontato. E comunque la rivoluzione implica nel suo stesso concetto una ripetizione infinita del suo verificarsi. E se nel Marx del Manifesto del ’48 o in altri testi, si possono indiscutibilmente trovare accenti che fanno pensare all’esistenza di un automatismo delle forze produttive che genererà una progressiva e definitiva convergenza del resto del mondo con il capitalismo dei paesi sviluppati, l’effettiva realizzazione del processo di mondializzazione è avvenuto in realtà sotto il segno della politica di potenza, della conquista militare, del colonialismo vecchio e nuovo da parte di stati in competizione sul piano geopolitico. L’interdipendenza crescente tra le nazioni occidentali e il resto del mondo si è, nei fatti, tradotta in una vistosa divergenza, che il marxismo dopo Marx ha riconosciuto e teorizzato. La diffusione dell’economia capitalistica non ha coinciso affatto con l’uniformazione produttiva, culturale e politica, bensì con un’accentuazione della conflittualità intercapitalistica, il nazionalismo, il militarismo e la guerra. Semmai la globalizzazione come progressiva unificazione economica, giuridica, morale del mondo è il sogno ricorrente del capitalismo; che si illude di esistere come attore unico globale, mentre in realtà esistono – mossi dalla medesima logica – i capitalismi tedesco, americano, russo, giapponese, ecc. In un rapporto di cooperazione e di conflitto, che impone l’adozione di politiche di potenza e di forza, sia militare che diplomatica. Lo stesso Thomas Friedman non ha forse teorizzato, – “MacDonald più MacDonnel Douglas” – l’unificazione della geoeconomia e della forza militare?
Ma d’altronde, non era chiaro tutto ciò già all’epoca dell’”imperialismo dei diritti umani” (Gambino) e delle guerre umanitarie? Già alla fine del XX secolo, infatti, “lungi dal dissolversi insieme alla storia, nel trionfo dell’ultimo uomo di Nietzsche e Fukuyama, la guerra riprende a mettere in parentesi il secolo e a scandire il passaggio di età e dominii. Torna in servizio, a svolgere il vecchio mestiere di levatrice dell’ordine nuovo” (Mortellaro, I signori della guerra).
Storia o ontostoria?
Caracciolo ha però perfettamente ragione quando legge nelle narrazioni della fine della storia l’ideologia che sostiene le volontà di potenza americana ed europea, così diverse ma così complementari nel ricercare una copertura ai loro disegni di trionfo imperiale; sublimata in ordine ecumenico la prima; travestita da potenza civile, la seconda. Ciò che non si comprende fino in fondo è, semmai, la tesi secondo cui il Manifesto di Ventotene di Spinelli e Rossi sarebbe la matrice ideologica dell’idea di Europa poi tradottasi nella “sgangherata architettura comunitaria” che conosciamo. Per la verità Caracciolo indica anche un altro testo, Pan-Europa di Coudenhove-Kalergi come origine della teologia europea. Teologia intollerante e al tempo stesso vacua, dietro la quale però prospera il “progetto nato morto” di un’Europa ideale da costruire a dispetto delle miserie che riserva quotidianamente. Ciò che secondo l’autore accomuna i due testi è certo lo spirito visionario e l’ambizione di realizzare un progetto di unificazione continentale che confligge con la “storia profonda” degli stati nazionali europei. Ma se il manifesto dell’aristocratico nippo-boemo si affida alla mobilitazione delle élite intellettuali, con conseguente ovvio fallimento, quello di Spinelli pensa a una rivoluzione politica, guidata da un’élite e realizzata dai popoli, contro la statolatria nazionalistica responsabile di due guerre mondiali e del colonialismo. Cosa c’entri tutto ciò con l’Europa senza sovranità e senza popolo che si è poi affermata non è chiaro. Certo, se si legge il manifesto di Ventotene come un articolato piano da attuare immediatamente si trovano senz’altro vuoti e incongruenze. Quello che però la stessa esposizione di Caracciolo confuta per tabulas è la congruità del programma spinelliano con l’Antieuropa che nascerà per impulso americano e acquiescenza europea (anche se non andrebbe dimenticata la proposta della Comunità europea di difesa, bocciata dall’Assemblea nazionale francese), radicale negazione dell’Europa come potenziale soggetto unitario vagheggiata da Spinelli. Ciò che Caracciolo rimprovera a Spinelli, con accenti nei quali si sentono risuonare gli argomenti di Burke contro l’astrattezza dei rivoluzionari francesi, è in fondo soprattutto il suo carattere antistorico, intendendo con ciò la pretesa di costruire un ordine che non sia basato esclusivamente sulla composizione delle contrapposte volontà di potenza dei soggetti statuali. Le uniche soluzioni per costruire l’ordine internazionale, par di capire, sono il bipolarismo o il “concerto” metternichiano. Ogni altra soluzione è negata dalla “Storia”, cioè da ciò che è, e che non può non essere, perché è stato e sempre sarà. Però così la storia diventa davvero antistoria, nel senso che nega se stessa come processo di cambiamento (non necessariamente di incivilimento, certo) o si trasforma in ontostoria.
Non solo, ogni altra prospettiva di evoluzione che non sia quella dell’equilibrio delle potenze causa un pericoloso disordine. Qui possiamo misurare l’impronta del conservatore, che Caracciolo peraltro francamente ammette fin dal principio, quando descrive così il proprio punto di vista: “Qui scrive un cittadino italiano nato e cresciuto nella Prima Repubblica, l’Italia della Guerra Fredda. Condizione più che privilegiata (…) Occidentalista critico per scelta, scettico sul futuro del suo mondo di fortunata elezione, per nulla rassegnato a viverne la scomparsa.” Niente di male, naturalmente. Il punto è se il conservatorismo, ancorché illuminato, sia adeguato a tempi nei quali la storia del mondo ha di nuovo calzato gli stivali delle sette leghe e ha ripreso a correre a valanga. Non necessariamente però verso un futuro migliore. In questi casi i conservatori, che pure hanno molti meriti nell’analisi della realtà e delle sue contraddizioni, non si rassegnano al tramonto di un assetto geopolitico che giudicano ottimale perché l’unico capace di comporre le contrastanti spinte conflittuali delle potenze statali. E per questo criticano in particolare coloro che aspirano a un multilateralismo cooperativo e non solo conflittuale, temperato magari dal pluralismo culturale. Anche se le forze che sono effettivamente responsabili del disordine e del conflitto sono in realtà proprio quelle altre che mettono il realismo al servizio della propria volontà di potenza. Salvo rivestire questi propositi con apparati ideologici adeguati ai tempi.
Oltre a ciò Caracciolo indaga da par suo perché l’Europa, intesa come Unione Europea, non abbia voluto o potuto essere un soggetto sovrano, preferendo l’umbratile identità di potenza civile che attrae a sé perché portatrice di valori, diritti, cultura, benessere. Dietro la quale hanno finora prosperato gli egoismi nazionali declinati nelle forme perverse del mercantilismo e della oppressione finanziaria. E dove, d’ora in poi, troveranno sempre più spazio i revanchismi nazionalistici più tradizionali dei paesi dell’Est sovietico, a cominciare dalla Polonia.
Alle origini del dis-ordine, la dismisura necessaria
Si fa presto a dire misura. I greci, che pure avevano esaltato questa virtù come fondamento della buona vita individuale e collettiva – tanto da iscriverla, medén ágon, come massima sul tempio di Delfi – , sapevano bene quanto fosse difficile praticarla. (Poi Nietzsche spiegherà gli oscuri intrecci che la collegano alla volontà di potenza). Il problema, infatti, è che la misura non è soltanto il risultato di una disciplina interiore, ma dipende anche dal contesto e dall’organizzazione politica in senso lato, come aveva giustamente intuito Aristotele. Che infatti prescriveva la mesotes sia alla pòlis che all’amministrazione dell’oikos. Ma tra il progettare e il fare – direbbe Caracciolo – c’è di mezzo la realtà, o la storia, che è lo stesso. Come ben si può notare quando Alcibiade spinge Atene verso l’avventura siracusana. Non una follia senza senso, come si vorrebbe sentenziare conoscendone l’esito disastroso, ma una dismisura necessaria per un impero talassocratico come quello ateniese, posto di fronte all’alternativa tra il declino di fronte alla potenza emergente (con la conseguente rovina per proprio sistema economico e sociale) o l’azzardo bellico.
Nel corso del XX secolo gli Stati Uniti si sono trovati tre volte di fronte alla scelta tra il ritornare entro i propri confini continentali o assumersi i rischi della protezione globale in cambio dei relativi vantaggi. Dopo la prima guerra mondiale hanno optato per la prima soluzione, e si è visto come è andata a finire. Negli altri due casi hanno fatto un’altra scelta: conservare il primato conquistato con la vittoria, non rimettere in discussione l’american way of life, e quindi lottare per estendere e conservare oltre l’Atlantico e il Pacifico la catena di controllo militare ed economico. La prima volta è stato dopo la fine della seconda guerra mondiale. La seconda dopo la fine della guerra fredda. Con una differenza fondamentale: nel primo caso esisteva un limite (limes) esterno, oggettivo al potere americano che obbligava l’adozione di un approccio misurato: l’Urss. Nel secondo caso, invece, complice quello che Caracciolo definisce il suicidio dell’Urss, nessun ostacolo si opponeva alla potenza unica e alla sua espansione planetaria.
Il magnete mancante e le sue ragioni
In entrambi in casi, però, il perno della costruzione globale dell’impero informale a stelle e strisce è la compenetrazione di Usa e Europa. Molto di più che una semplice alleanza. L’America potenza europea, è infatti vero potere costituente del continente dopo il disastro della seconda guerra mondiale: il motore dell’Europa atlantica e atlantista che ha affrontato la guerra fredda e il processo di decolonizzazione che ha accompagnato il declassamento delle potenze europee. Giustamente Caracciolo rimprovera ai progetti dei pionieri dell’europeismo la mancanza di un soggetto storico in grado di realizzare l’unificazione europea: “Senza un magnete che attragga e connetta terre e genti diverse non si federa alcunché, figuriamoci lo spazio continentale”. In assenza di un magnete europeo sono stati gli americani a svolgere questa funzione, il cui risultato è stato quindi una debole confederazione di stati, priva di soggettività politica e dipendente per la sicurezza dagli Usa. Lo hanno fatto con gli accordi dollarocentrici di Bretton Woods, con il piano Marshall, la Nato e la progressiva aggregazione degli stati europei. Prima nella CECA, poi nella CEE e infine nell’UE. Ma non per fare l’Europa unita, bensì Leuropa, come la chiama Caracciolo per sottolinearne l’assenza di identità, i conflitti permanenti, la funzione di foglia di fico per le pulsioni geopolitiche virate sul piano geoeconomico dalla Germania. Cose note, si dirà, ma tutt’altro che presenti nel dibattito pubblico, ancora egemonizzato dalla retorica atlantista del gigante buono che paternamente protegge, guida e corregge gli indisciplinati europei.
Ciò che più ci interessa qui è però il carattere “necessitato” di questa strategia americana. Che alla fine della seconda guerra mondiale ha bisogno di uno spazio europeo integrato politicamente ed economicamente per sopravvivere alla vittoria e salvaguardare la sua formidabile macchina produttiva dall’effetto recessivo della fine della guerra, dal fallimento economico dei paesi europei e dal blocco dei commerci internazionali. Una scelta obbligata, dunque. Che viene declinata all’interno del nuovo orizzonte della guerra fredda, indispensabile ad archiviare l’ingestibile utopia rooseveltiana di un mondo solo che comprendesse anche l’Urss. La costruzione del nemico sovietico fu necessaria a strutturare uno spazio politico governabile, ma anche a ottenere il sostegno politico necessario alla spesa militare (il keynesismo di guerra), senza il quale gli investimenti del piano Marshall non sarebbero stati sufficienti a risollevare le economie europee (e giapponese), consentendo alla sovradimensionata capacità produttiva statunitense di evitare una crisi simile a quella del primo dopoguerra, con tutte le sue dinamiche catastrofiche. I “due mondi” disegnati dalla correzione all’universalismo rooseventiano operata da Truman comportano l’integrazione dell’Europa in un complesso politico-economico-militare simil-americano (liberaldemocrazie anticomuniste più fordismo e consumismo, temperati dal Welfare). Alla quale viene riconosciuta la possibilità di sviluppare istituzioni di cooperazione economica, funzionali a rafforzare il vallo antisovietico, come nel caso della CECA, che metteva in comune le materie prime essenziali per l’industria bellica. Purché però gli europei non pretendessero di giocare un ruolo autonomo, come ben documentato nel volume. Un equilibrio non facile, messo alla prova più volte soprattutto dalla questione tedesca. Ma che alla fine ha retto.
L’equilibrio bipolare è frutto di questa intelligente costruzione strategica, entro la quale per tre decenni si svilupperanno le forze produttive dell’Occidente capitalistico. Esempio tra i più brillanti di egemonia, correttamente intesa come capacità da parte del paese egemone di perseguire i propri interessi garantendo al contempo agli alleati-vassalli di svilupparsi e potenziarsi (i miracoli economici tedesco giapponese e italiano, per capirci). Sennonché quello stesso meccanismo ha poi iniziato a produrre le sue contraddizioni, a cominciare dalla crescente competizione intercapitalistica, che ha finito per mettere in crisi l’economia del paese egemone. Dopo una prima fase di difficoltà – inizio anni Settanta – gli USA hanno avviato una spettacolare controffensiva finanziaria, politica e militare, che nell’immediato ha prodotto formidabili successi. Tra cui la disgregazione dell’impero sovietico e lo sviluppo dell’economia globale dominata dalla finanza, di cui la crescita finanziaria e industriale della Cina è una conseguenza necessaria. Ma come aveva ben visto il vecchio Marx, le soluzioni alle crisi del capitalismo non fanno che preparare crisi più generali e violente, distruggendo i mezzi che consentono di prevenirle.
Alla ricerca di un nuovo Kathechon?
Infatti quello stesso sviluppo ha finito per generare un’inedita minaccia alla supremazia americana, non più però da parte di un nemico, come l’Urss, contenibile entro uno spazio geografico e culturale definito, che perciò svolgeva una essenziale funzione di freno, una sorta di Kathechon secolarizzato. La competizione globale figlia dei rivolgimenti degli anni Ottanta e Novanta, infatti, non consente di darsi limiti; per sua natura richiede un esercizio illimitato di controllo e dominio per prevenire e contrastare l’insorgere di potenziali competitori globali che utilizzano le connessioni commerciali e informatiche prodotte dalla globalizzazione per insinuarsi ovunque, accumulando energia economica e, quindi, politica.
In questo senso, dunque, l’antimpero di cui parla Caracciolo, non è affatto il prodotto dell’hybris americana che non sa comprendere l’importanza del limite. Ma, semmai, la conseguenza necessaria di una competizione che si gioca su scala globale.
La decisione di non sciogliere la NATO dopo la fine dell’Urss, e anzi di estenderla e potenziarla, corrisponde all’esigenza di conservare la presa sull’Europa, condizione indispensabile per affrontare le sfide globali e mantenere la propria posizione dominante. Caracciolo sostiene che è la dismisura (cioè la perdita del limite) a produrre l’antimpero americano, cioè l’incapacità – per l’aumento dell’entropia generata da un ambiente troppo grande e complesso – di generare ordine. E se, invece, fosse l’opposto? O anche l’opposto? Cioè la dismisura come misura appropria alla dimensione illimitata della competizione? Specie per una potenza che vuole (e deve) a tutti i costi conservare il primato planetario, ma ha perso il “tocco” dell’egemonia.