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Accordo Ue-Gran Bretagna, il riarmo fa scattare il “Brexit reset”

Le spese per la difesa trainano l’intesa. Così anche Londra entra negli appalti militari comuni (al via il piano Safe da 150 miliardi). Le università britanniche resteranno invece appannaggio dei ricchi locali, niente Erasmus.

Sotto la mimetica (poco o) niente. Ieri Keir Starmer ha accolto alla Lancaster House lo Stato maggiore (sic) dell’Ue, nel primo summit bilaterale post-Brexit, dove a farla da padrone – o da vettore per l’accordo nella sua interezza – è il cosiddetto partenariato strategico con l’Europa, vale a dire la sinergia militare Uk-Ue nel programma ReArm Europe. Si tratta del primo vero e proprio atto del ri-azzeramento dei rapporti con l’Unione Europea promesso da Starmer già subito dopo il suo insediamento.

Dopo le note del solito Inno alla gioia (dove il genio di Beethoven quasi prelude a quel Wagner ascoltando il quale a Woody Allen veniva voglia di “invadere la Polonia”) con von der Leyen, Costa, Sefcovic, Kallas e il suo ministro per le relazioni europee Thomas-Symonds, Starmer ha presentato la raffica di accordi. Oltre al succitato partenariato militare (in cui dei mostri profani come la Bae Systems potrebbero beneficiare dei 150 miliardi stanziati per il riarmo dal programma Safe), si è negoziato per una riduzione dei controlli doganali per i prodotti britannici venduti in Europa – hamburger e salsicce in primis -, la confusione delle norme anglo-europee per le emissioni di Co2, la fine delle estenuanti file al controllo passaporti per i turisti britannici in viaggio nel continente e l’apertura alla circolazione degli under 30, così i giovani italiani potranno continuare a farsi sfruttare in quei “lavoretti” che tanto gli insegnano l’inglese; ancora nessun ritorno all’Erasmus però, e le università britanniche continueranno a essere appannaggio dei rampolli dell’1%, dati i costi proibitivi.

È un accordo «in cui vincono tutti» ha sottolineato Starmer, come ai bei tempi del liberoscambismo e non come nell’attuale mors tua vita mea commerciale trumpiano. Tranne forse che nella vessata questione delle quote ittiche, argomento di inspiegabile salienza (conta per lo 0,04% del Pil) e cavallo di battaglia dell’euroscetticismo faragista e conservatore: Starmer ha garantito accesso alle acque nazionali agli insaziabili pescherecci europei per ben dodici anni.

Ma «la Gran Bretagna è tornata sulla scena mondiale», ha dichiarato, mentre «questo summit dimostra al resto del mondo che noi europei restiamo uniti» – gli faceva eco von der Leyen. Tutto nel nome dei «valori comuni» e nonostante i titoli dei tabloid britannici schiumassero bile sulla “resa” di Starmer, reo di aver vanificato le inestimabili libertà guadagnate al paese da Brexit.

Nonostante i media mainstream – Bbc in testa – si soffermino sulla questione del pescato europeo nelle acque territoriali britanniche – i negoziati sul quale si erano febbrilmente protratti fino a notte alta – i quattro merluzzi superstiti nel Mare del nord non sono che un diversivo rispetto al partenariato strategico, prima manifestazione fattuale del keynesismo militare con cui l’Europa tenta di risollevare le proprie economie; complice provvidenziale il multilateralismo in pezzi, una Cina e una Russia pronte a ingoiare il mondo libero nel loro ventre totalitario, e degli Stati Uniti liberati dall’ipocrita pudicizia liberal che ne tarpava le imperialiste ali e manifestatisi alfine come la superpotenza-canaglia che credevano di non essere.

Il Safe, il fondo di 150 miliardi approvato dalla Commissione europea (senza l’approvazione del Parlamento) per obbedire all’ingiunzione americana di pagarsi la propria protezione, resta comunque poca roba – 30 miliardi annui per cinque anni – rispetto a quello che vorrebbero Washington e Londra. Tra l’altro, secondo la Commissione stessa, l’Europa che ha esternalizzato buona parte delle proprie esigenze militari agli Stati Uniti – un pauroso deficit di bilancio militare – spende più per pagare stipendi e risorse nel campo della difesa che in armi. Orrore.

Reset o meno, per Starmer è evidente che Brexit appaia per quello che è: una fastidiosa zanzara provinciale sulla schiena dell’imbizzarrito elefante geopolitico globale. Da sempre fervente europeista – dopotutto Remain e antisemitismo gli hanno permesso di espugnare la cittadella di Corbyn, sua funzione principale – ora può permettersi di lasciare le destre menarla con la “resa.” Solo il 30% degli elettori crede che il Regno Unito abbia fatto bene a lasciare l’Ue e solo l’11% che sia stato un successo. E il 64% è favorevole a un rapporto più stretto con l’Europa.

Articolo pubblicato da il manifesto del 20 maggio 2025