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A tutto gas ma non ci serve

Il conflitto sul Tap per l’approvvigionamento del gas ad uso energetico si inquadra nella partita a scacchi in corso tra Usa e Russia per condizionare un ruolo autonomo dell’Europa.

Narrazioni. Chiunque può rendersi conto che la narrazione di un’invasione da parte degli immigrati – indicati come minacciosi malfattori da un personaggio come Salvini – non regge di fronte all’immagine di un Paese devastato da eventi climatici e da danni naturali, del tutto prevedibili ma mai affrontati. Un Paese, per giunta, rapinato, umiliato e vessato al punto da subire in silenzio l’emorragia dei suoi giovani, lasciati senza speranza e presi di mira da un governo fino ad ora arrogante quanto incapace di «abitare il futuro».

Se si vuole guadagnare consenso ad un punto di vista «di sinistra», vanno riscoperte formule che richiamino un intero panorama di lotte sociali, prospettive culturali e consuetudini positive, per coniugarle con quelle parole che il potere respinge. Ci si accorgerebbe che lavoro dignitoso, accoglienza, uso della tecnologia per migliorare la vita diverrebbero praticabili se si sostituisce al mito della modernità espansiva quello di un modello caratterizzato da relazioni paritarie con la natura, sufficienza nello stile di vita, decarbonizzazione dell’economia, sopravvivenza degli abitanti della biosfera. Si tratta di un approccio rimosso dall’ondata involutiva in corso, eppure indispensabile. Di seguito, pur in un caso che si vorrebbe chiuso come quello della Tap, motivo la necessità di ribaltare la sfrontatezza del terzetto di governo Salvini-Di Maio-Conte, che, in virtù di un imprudente negazionismo climatico, ha destinato al gas fossile il ruolo di dominus della transizione energetica.

IL GAS, FONTE PRIVILEGIATA?

Il compito di bloccare la Tap non va lasciato ai soli pugliesi e al movimento a Mendugno, come se si trattasse di una questione locale. Come ai tempi della Guerra Fredda, anche il conflitto in corso sull’approvvigionamento del gas ad uso energetico si inquadra nello svolgimento di una rinnovata partita a scacchi tra i due più noti giocatori: Russia e Stati Uniti, convergenti nel condizionare un ruolo autonomo dell’Europa. Nell’arena europea il problema più acuto rimane il passaggio o meno delle condotte di gas russo dall’Ucraina. Problema in via di attenuazione per il prevedibile approdo ai porti atlantici del gas naturale liquido (Gnl) dall’America del Nord e per l’apertura, anch’essa prevista, di un settimo (!) gasdotto verso l’Italia (la Tap).

In questo scenario geopolitico di enorme portata economico-finanziaria, si sono esercitati a fine carriera attori internazionali di grande fama, Brezinsky e Kissinger per l’Azerbajan, Shröder per il gasdotto del Baltico, Sevocic per aprire alle navi «gasiere» Usa i porti portoghesi e baltici, Blair per la Tap. Proprio quest’ultimo, in qualità di lobbista appositamente ingaggiato, ha incontrato Salvini il 4 settembre a Roma, considerandolo l’interlocutore più forte, che sul terminale pugliese avrebbe fatto capitolare Di Maio, come avvenuto. Sui mercati mondiali c’è un eccesso di offerta di gas, causato in larga misura dalla «rivoluzione shale» – gas da scisto – degli Stati uniti.

La guerra dei prezzi – che guarda al passato senza tener conto della raggiunta convenienza del Kwh da rinnovabili – è scoppiata coinvolgendo diversi Paesi esportatori, che sono costretti a ricorrere a tecnologie di fornitura differenti verso l’Europa, con costi molto esposti alla concorrenza: la Russia si serve di gasdotti, i Paesi arabi del trasporto associato al loro collaudato sistema petrolifero, gli Usa di navi che traslocano via oceano Gnl liquido. Il governo americano, che vuole esportare Gnl in porti europei attrezzati per l’attracco e la rigassificazione, deve contrastare l’abbondante offerta russa con l’attivazione di nuovi gasdotti «protetti», diretti verso le coste meridionali del Mediterraneo. E qui entra in gioco la Tap.

L’arrivo diretto degli Stati Uniti sul mercato europeo va considerato come parte di un più ampio sforzo geopolitico per sfidare il dominio russo delle forniture energetiche. Eppure, i maggiori esperti ritengono che dopo il 2019 la pipeline dei progetti di liquefazione si esaurirà e che il clima richiede già ora urgenti restrizioni nelle estrazioni convenzionali. Siamo quindi nel pieno del grande business ad alto rischio finanziario ed elevato impatto ambientale.

TRANSIZIONE E CLIMA

Mentre i capitani delle industrie dei combustibili fossili e i loro lobbisti hanno preso in consegna la Casa Bianca, in tutto il pianeta si affrontano le prove per una transizione energetica in rapido movimento, che limiterà certamente i combustibili fossili e il loro ruolo nella mappa del potere. Non è un caso se Trump negli States e Putin in Russia, ma anche Bolsonaro in Brasile, Erdogan in Turchia, al-Sisi in Egitto – con il conquistato salvagente di Salvini-Conte-Di Maio in Europa – tentano, con l’offerta di gas a prezzo contenuto, di spacciare per insuperabile il vecchio sistema centralizzato di approvvigionamento e produzione di energia.

Eppure, l’Accordo concordato a Parigi nel 2015 da oltre 200 nazioni indipendenti sul pianeta è di mantenere il riscaldamento globale sotto i 2°C. La transizione energetica richiede profondi tagli delle emissioni di CO2 (dall’80- al 95% entro il 2050) in presenza di un marcato sviluppo delle rinnovabili, chiare vincitrici per la battaglia del costo del Kwora. Perché allora non far nostra la battaglia perché la maggior parte delle riserve di combustibili fossili rimanga sottoterra, incombuste?

Anche le aziende dovrebbero allineare i modelli di business ad un futuro al di sotto di 2 °C e, per evitare quella che si chiama una «bolla di carbonio», bisogna non investire più in progetti di combustibili fossili inutili. E’ fuor di dubbio che la realizzazione della TAP, in una fase in cui la questione climatica assume una valenza discriminante, assumerebbe davvero tutto l’effetto simbolico di una sottomissione a «quell’Ancien Regime» che è esecrato dal governo. Anche per l’esperienza della natura che la popolazione si sta facendo in queste stagioni, è nata una comprensione esauriente delle sfide da vincere. Ma non si può farlo importando gas dal 2020 dall’Arzebajan al ritmo di 10 miliardi di metri cubi all’anno, per poi passare a 20, sapendo che quei giacimenti nel 2023 saranno in declino.

Tratto da il manifesto del 16 novembre 2018