Il controllo dell’informazione appartiene quasi totalmente ai grandi monopoli digitali che costruiscono un’immagine del mondo specchio dei loro interessi. L’analisi del Transnational Institute
State of Power è il rapporto annuale presentato dal Transnational Institute (TNI) che indaga il processo culturale tramite cui le grandi imprese e le élite militari rendono il loro potere apparentemente naturale e irreversibile. L’infografica Manufactured Consent mostra numeri su cui riflettere. Secondo una stima del 2012, solo 6 compagnie possiedono il 90% dei media statunitensi e solo Google e Facebook controllano il 70% dei siti di informazione. Il fenomeno è in crescita: nel 1983 erano 50 imprese a detenere il 90% dei media.
L’origine dell’accentramento del potere mediatico risiede nella concentrazione del controllo economico, che passa per il meccanismo delle porte girevoli, per il finanziamento delle campagne elettorali e per i grandi think tank.
Lo studio The network of global corporate control – condotto da Stefania Vitali, Stefano Battiston e James Glattfelder del Politecnico federale di Zurigo – riporta che l’1% dei gruppi economici controlla il 40% delle imprese mondiali.
Questo avviene anche grazie al fenomeno dell’interlocking directorate, il legame tra diverse amministrazioni societarie. Secondo il TNI, ad esempio, l’azienda satunitense Alphabet possiede Google, Android, Youtube e Waze e, mediante l’interlocking, è connesso anche con Netflix, la Ford Motor Company, la NASA e la Stanford University. Mentre la Walt Disney è legata, tra gli altri, a Facebook, Apple, Mc Donald’s, Blackberry, Nike e a diverse università. Altri giganti mediatici sono Comcast, legato alla Federal Reserve Bank e all’Università di Berkeley; e Facebook che possiede anche Instagram, Whatsapp e Oculus.
Anche i grandi think tank hanno la loro parte. Il più importante al mondo, la Rand Corporation, con un fatturato di 393,3 milioni di dollari, ha influenza su Wall Street Journal, Los Angeles Times, CNN, Senato e Dipartimento della difesa USA. Un altro think tank, Heritage, ha determinato il 60% delle politiche della presidenza Reagan e ha un considerevole ruolo nelle politiche di Donald Trump. Il pensiero torna a L’elite del potere del 1956 del sociologo americano Wright Mills: nella conformazione del sistema di informazione il nesso tra élite politica, militare ed economica, è ancor più evidente. Spesso oltre che supportare ideologicamente i leader politici, corporation e think tank finanziano cospicuamente le campagne elettorali. Google ha speso 2.2 milioni di dollari nel 2016 per sostenere candidati statunitensi, principalmente repubblicani. Inoltre i casi di “porte girevoli” sono stati 251 durante la presidenza Obama, e 80 fra Google e governi europei nell’ultimo decennio.
I media stessi, come scrive Noam Chomsky, sono grandi imprese che operano nel mercato della pubblicità e dell’informazione in cui il prodotto è l’audience. La conseguenza è una narrativa mainstream che riflette gli interessi dei venditori e dei compratori.
L’informazione pertanto non è, come il pensiero liberale ritiene, uno strumento, nel rapporto fra rappresentanti e rappresentati, che agevoli il controllo critico da parte della cittadinanza, ma un mezzo di autolegittimazione del potere. Le aziende dell’informazione controllano i risultati politici e si alimentano economicamente con le informazioni che acquisiscono dagli utenti. Non a caso l’amministratore delegato di Google nel 2010 ha affermato: “Sappiamo chi sei. Sappiamo dove sei stato. Possiamo più o meno sapere a cosa stai pensando.”
Max Haiven, nell’articolo Monsters of the Financialized Imagination: From Pokémon to Trump, riporta che il profitto di un’impresa può non consistere nella remunerazione diretta da parte dei consumatori, bensì nella raccolta di dati preziosi – preferenze, informazioni anagrafiche, relazioni sociali – messi a disposizione da questi ultimi. Molte imponenti corporation, come Google, Facebook, Twitter, generano gran parte dei loro ricavi raccogliendo questa “sostanza digitale” per poi rivenderla.
Inoltre, l’informazione dominante cresce fagocitando il mercato ed espellendo qualsiasi organismo estraneo. Justin Schlosberg in The media-technology-military industrial complex racconta come l’egemonia mediatica si sviluppi in due direzioni: possesso dei mezzi di informazione e processo di selezione delle notizie.
Per quanto riguarda il possesso dei mezzi di informazione, la concentrazione del potere nel mercato dell’informazione ha portato a veri e propri monopoli digitali che non solo dominano il proprio mercato del social networking, ma hanno anche molta influenza sugli altri, avendo assunto il controllo del mezzo per connettere le aziende ai consumatori finali, il cosiddetto referral traffic.
La selezione delle notizie è affidata agli algoritmi che selezionano e diffondono i trending topics (argomenti di tendenza), meccanismo per cui determinate notizie e idee guadagnano visibilità nel dominio digitale. Gli algoritmi dovrebbero diffondere le tematiche più popolari di ogni periodo, cosa già di per sé dannosa per la diffusione di notizie di qualità. In molti casi, però, non è nemmeno questo che avviene. Spesso, infatti, i trending topics sono guidati da titoli e preferenze determinate dagli editori. Inoltre, essendo basati su criteri quantitativi, ostentano in maniera fuorviante un valore oggettivo delle notizie diffuse, mentre anche quelle più cliccate hanno origine in un’interpretazione soggettiva, più precisamente quella dominante.
Abbiamo accesso a un numero sempre minore di fonti di informazione e siamo immersi nella narrativa del pensiero unico neoliberista. Secondo Max Haiven, l’impero della finanza speculativa si è espanso globalmente e si è intensificato socialmente, penetrando nella vita di tutti i giorni, riconfigurando la nostra immaginazione. Forse è proprio da qui che bisognerebbe ripartire: dalla ricostruzione di un’immaginazione radicale, non astratta e proveniente dalle pratiche dei movimenti sociali, capace di raccontare un’altra storia.