Il governo continua a trattare le rinnovabili come un “lusso” che non è possibile concedersi. Anche se i sussidi pubblici alle fonti “ambientalmente dannose” sono costantemente superiori a quelli erogati a favore di quelle “favorevoli”
Il 2015, in particolare per il variegato mondo ecologista, è entrato nella storia come un momento di svolta epocale per le politiche ambientali internazionali: con l’accordo tra i capi di Stato di quasi 200 Paesi del mondo, alla COP21 di Parigi, le fonti fossili sono state relegate “dalla parte sbagliata della storia”, rendendo ineludibili ed urgenti tanto la necessità di contenere l’aumento della temperatura del pianeta sotto la soglia critica dei 2 °C, quanto l’improrogabilità di un radicale cambio di strategia energetica, a livello globale.
Inutile negare quanto il passaggio di testimone tra il più grande paladino del contrasto ai cambiamenti climatici che abbia mai abitato la Casa Bianca e forse il più odioso dei tardivi negazionisti costituisca un fattore di profonda preoccupazione, in particolare per il rischio di destabilizzazione del processo avviato che porta con sé, proprio nel momento in cui i singoli Stati dovrebbero impegnarsi nella costruzione ed implementazione delle necessarie politiche… Eppure in molti segnalano quanto l’era Trump sia iniziata “troppo tardi” per arrestare un processo ormai radicato in maniera profonda in luoghi realmente impensabili solo qualche anno fa (uno su tutti, la Cina), i cui risvolti economici (ben rappresentati persino nel business advisory council di Trump[1]) sono divenuti troppo evidenti per essere nuovamente sottostimati.
In questa situazione molto dinamica, l’Europa, a fronte di un consolidato settore dei “greenjobs” in costante crescita negli ultimi 15 anni (con 4,2 milioni di addetti nel 2013[2], contro i 2,4 dell’industria automobilistica), sembra aver smarrito il ruolo di leader e traino di tutta la comunità internazionale, così ben giocato con le storiche direttive 20-20-20 per il contenimento dei cambiamenti climatici. Un ruolo che sembra sia stato sostituito da un atteggiamento più conservativo e addirittura pavido sul fronte energetico, per gli impegni relativi al 2030 e 2050.
Nel frattempo, del tutto analogamente, la SEN, la nuova strategia nazionale energetica a cui sembra lavorare il Ministro Calenda e di cui si hanno alcune sommarie anticipazioni, sembra prescindere da alcune considerazioni fondamentali, specie se osservate in chiave “COP21”:
- Anche se in molti l’hanno cercata per lustri, non esiste “la” soluzione che permetterà di procedere con la stessa strategia di sviluppo che ci ha portato fin qui, che ha fatto mostra spudoratamente di tutti i suoi limiti: non bastano “ritocchi”, affrontare davvero la crisi climatica (che poi è anche ambientale, economica e sociale), richiede un ripensamento complessivo del sistema dei consumi, dei trasporti, della produzione di beni e servizi, dell’approvvigionamento dell’energia, della sua produzione, del modo in cui viene distribuita e gestita.
- Il gas metano, pur essendo il meno inquinante della famiglia, fa parte di quei combustibili fossili che in tempi relativamente brevi non potranno essere più estratti (i 2/3 dei quantitativi attualmente noti dovranno restare nel sottosuolo). Pur essendo evidente il ruolo chiave nella transizione ad un nuovo modello, pensare che l’Italia debba trovare un ruolo internazionale trasformandosi in un “hub del gas” vuol dire mancare di lungimiranza e non voler capire che diversi investimenti strutturali non avrebbero modo di ripagarsi se al 2050 i consumi soddisfatti a partire da risorse fossili non potranno che essere marginali e ridotti a pochi punti percentuali dei consumi totali.
- E’ del tutto forviante continuare a trattare le rinnovabili e l’efficienza energetica come un “lusso” che non è possibile concedersi per i costi troppo elevati, fingendo di non conoscere il dato ormai ufficializzato dal Ministero dell’Ambiente per il quale i sussidi pubblici alle fonti “ambientalmente dannose”, pari a più di 16 miliardi di €/anno nel 2016, sono costantemente superiori a quelli erogati a favore di quelle “ambientalmente favorevoli”[3].
- Non può che risultare inefficace che il Ministero dello Sviluppo Economico lavori ad un “piano energia” tiepido e conservatore (peraltro in maniera assai discutibile penalizzando il ruolo di Ispra, ENEA, RSE, CNR a favore di consulenti privati), mentre a quello dell’Ambiente viene affidata la redazione del “piano clima”, in assenza di una cabina di regia coraggiosa e integrata, direttamente gestita dalla Presidenza del Consiglio, che coinvolga dicasteri cruciali come quello delle Infrastrutture, dell’Agricoltura e del Tesoro.
Un piano serio e completo per l’energia e il clima al 2050, ad esempio, non potrebbe prescindere dall’integrare le indicazioni che verranno dal recepimento della Direttiva sull’Economia Circolare (la cui completa definizione è attesa per la fine del 2017), per la quale si è espresso proprio pochi giorni fa il Parlamento Europeo con l’approvazione di un pacchetto di misure ambizioso che si stima produrrà in Europa 600 Mld/anno di risparmio per le imprese, un taglio netto delle emissioni climalteranti (pari al 2-4% circa) e almeno 580.000 nuovi posti di lavoro. Secondo la Ellen MacArthur Foundation e il McKinsey Center for business and Environment, il pacchetto vale il 7% del PIL europeo.
I principali temi trattati:
- gestione dei rifiuti sempre più virtuosa, con obiettivi vincolanti per le percentuali di materia differenziata e inviata a riciclaggio e abbandono sistematico delle discariche;
- potenziamento dell’efficienza nell’uso delle risorse, in sinergia con la direttiva sulla progettazione sostenibile (eco-design);
- potenziamento della riparabilità dei prodotti e messa al bando dell’obsolescenza programmata;
- lotta allo spreco alimentare.
Un mondo, quello dell’economia circolare, che, specie se cavalcato in anticipo a partire dalle eccellenze nostrane nel mondo dell’innovazione e della tecnologia (dall’esperienza di Novamont sui bio-materiali, alla Chimica Verde, passando per gli esempi di gestione virtuosa dei rifiuti, per i numerosi brevetti per il recupero e riutilizzo dei materiali, etc) potrebbe vedere l’Italia protagonista sul piano internazionale, con un indotto in termini di nuovi posti di lavoro prossimo ai 200.000.
La sensazione, però, tornando alla politica, continua ad essere quella dell’assenza di coraggio e di visione. Di un gioco troppo conservatore e al ribasso, che pretende di camuffare strategie asfittiche e di auto-preservazione dei poteri acquisiti, piuttosto che liberare le nuove energie del Paese.
Un esempio su tutti?
Negli Stati Uniti, recentemente, ha fatto notizia la proposta degli ex ministri del tesoro di Nixon, Reagan e Bush a favore di una tassa da 40 $ a tonnellata di CO2 prodotta (una vera e propria Carbon Tax, applicata da tempo con successo in Paesi come Canada, Svezia, Svizzera, UK) che consentirebbe di ridurre le emissioni di gas serra e distribuire alle famiglie 2.000 dollari all’anno.[4]
Non parliamo certo di ambientalisti o progressisti per definizione, ma di rappresentanti di mondi che hanno compreso il risvolto epocale (ed economico) delle sfide di cui si parla, accettando di riflettere su proposte che arrivano ormai direttamente dalla Banca Mondiale e dall’Agenzia Internazionale dell’Energia.
In Italia il dibattito politico sulla fiscalità ambientale (che, rispondendo al principio “chi inquina paghi”, mira ad internalizzare i costi sanitari ed ambientali legati all’uso dei combustibili fossili e, più in generale allo sfruttamento di beni naturali non riproducibili) non riesce ad emergere a sufficienza, pur affacciandosi di tanto in tanto, a partire dagli anni 90.
Il Kyoto Club ha avanzato, in tal senso, una proposta per l’Italia, costruita in una rigorosa logica di neutralità fiscale. Ipotizzando un livello iniziale di 20 €/t, le entrate (dell’ordine di 8 miliardi di euro), consentirebbero di tagliare del 10% le bollette elettriche, ridurre il costo del lavoro e favorire interventi sul contenimento delle emissioni. In sintesi, non una proposta “spot”, ma uno strumento strutturale in grado di dare un contributo favorevole anche al tanto attuale (quanto cronico) dibattito sul contenimento del deficit nazionale e di ri-animare una così importante discussione nell’Europa tutta, alle prese con una revisione del sistema ETS (Emissions Trading System), assolutamente insufficiente a raggiungere gli obiettivi attesi.
Uno strumento coerente con gli accordi di Parigi, che, lungi dall’essere sufficiente, segnerebbe finalmente un necessario e urgente cambio di passo.
E ad un primo passo non potranno che seguirne altri, e non potranno che essere svelti, se l’Italia e l’Europa tutta (nell’era di Trump, schiacchiati tra la Russia di Putin, il nord Africa e il medio-oriente) vorranno recuperare sia centralità nei processi internazionali, sia indipendenza ed autonomia dalle risorse e dal ricatto di Paesi troppo instabili o governati in assenza di diritti civili e sia, in ultimo, reale sicurezza, che certo non potrà venire da formule protezionistiche e nazionalistiche, ormai del tutto inadeguate a sostenere le sfide dei giorni che verranno.
[1] http://www.qualenergia.it/articoli/20170315-se-anche-consiglieri-economici-Trump-scommettono-sulle-rinnovabili-
[2] European Environmen Agency https://ec.europa.eu/environment/efe/themes/economics-strategy-and-information/green-jobs-success-story-europe_en
[3] “Catalogo dei sussidi ambientalmente favorevoli e dei sussidi ambientalmente dannosi 2016” http://www.asvis.it/public/asvis/files/CatSussAmb_.pdf
[4] Articolo di Gianni Silvestrini, direttore scientifico Kyoto Club http://www.possibile.com/carbon-tax-lambiente-lavoro-primadeldiluvio/