Con l’aiuto di alcuni sindacati e mettendo in atto una strategia efficace che ha mischiato scioperi, campagne comunicative e azioni giudiziarie i lavoratori della ‘gig economy’ in Gran Bretagna hanno segnato alcuni punti a proprio favore
L’estate del 2016 ha portato per la prima volta alla ribalta mediatica il tema della gig economy, “l’economia a cottimo”. Gli scioperi a Londra dei fattorini di Deliveroo e UberEats, cui si sono aggiunti nell’autunno dello stesso anno quelli dei lavoratori di Foodora a Torino, hanno evidenziato lo scontento di un numero crescente di lavoratori verso condizioni di lavoro di estrema precarietà, seppur mascherate da una patina smart. Al centro della tempesta stanno le piattaforme che offrono i propri servizi tramite un’app: si va dalla consegna cibo (un settore in espansione economica che in Italia è stato valutato 400 milioni di euro) offerta da Foodora e Deliveroo al servizio taxi di Uber, di recente tornato agli onori della cronaca anche in Italia. Questo tipo di offerta di servizi gestiti tramite app a livello locale è solo una parte della ben più ampia ‘economia di piattaforma’, che include tutte quelle piattaforme online che sfruttano le opportunità offerte dal web per mettere in atto strategie di ‘online outsourcing’ di varie mansioni. Nella ‘gig economy’ dei servizi, le piattaforme operano attraverso modelli di business ancora poco compresi e regolati, che creano dunque molte opportunità per lo sfruttamento della forza lavoro e l’abuso dei diritti dei lavoratori. In questo articolo ci concentreremo principalmente su quelle piattaforme che prevedono ancora una componente di presenza “fisica” nel lavoro.
Le motivazioni che hanno portato alle prime proteste dei lavoratori della gig economy nel Regno Unito e in Italia sono simili, a dimostrazione dell’uniformità e della progressiva standardizzazione delle pratiche delle piattaforme. In primis c’è la questione della paga: nel tentativo di spostare il rischio d’impresa sui lavoratori – esternalizzando totalmente i costi dei potenziali tempi morti o di bassa domanda sui lavoratori stessi -Deliveroo, UberEats e Foodora hanno progressivamente cambiato il metodo di pagamento, passando dal salario orario a quello a consegna. Ma il vero elefante nella stanza è la questione contrattuale: le piattaforme hanno finora assunto i propri lavoratori con contratti di lavoro autonomo, considerandoli alla stregua di imprenditori di sé stessi. Questo significa che né ai fattorini di Foodora e Deliveroo, né agli autisti di Uber vengono riconosciuti diritti come la malattia o le ferie pagate: se non si lavora, non si viene pagati. Un altro inquietante elemento di “novità” è il fatto che l’azienda abbia la possibilità di licenziare un lavoratore semplicemente disconnettendolo dal sistema, come è accaduto ai rider di Foodora più attivi nella protesta dello scorso autunno. Basta un clic per negare al lavoratore l’accesso ai mezzi di produzione – un’operazione che costituirebbe mobbing in un rapporto di lavoro standard, e che diventa invece possibile nel caso di lavoro ‘autonomo’ pagato a cottimo. Da Londra a Torino, i lavoratori della ‘gig economy’ hanno messo in discussione il loro status contrattuale, sostenendo che il loro rapporto di lavoro con l’azienda sia, di fatto, subordinato.
Dal punto di vista dei risultati finora le notizie migliori sono arrivate dalla Gran Bretagna. Servendosi dell’aiuto di alcuni sindacati e mettendo in atto una strategia efficace che ha mischiato scioperi, campagne comunicative e azioni giudiziarie i lavoratori della ‘gig economy’ hanno segnato alcuni punti a proprio favore. Lo scorso 28 ottobre il tribunale del lavoro di Londra ha inferto il primo colpo alle piattaforme, accogliendo le richieste di due autisti di Uber (sostenuti dal sindacato GMB) che ritenevano che lo status di lavoratori autonomi adottato da Uber nei loro confronti non corrispondesse alla natura del rapporto di lavoro effettivamente vigente. Il giudice ha assegnato ai due lavoratori lo status di worker, una categoria contrattuale intermedia fra lavoro autonomo e dipendente che assegna comunque alcuni diritti come le ferie, i giorni di malattia pagati ed un compenso orario minimo. Il campo di battaglia su cui si è giocata la sentenza è quello del controllo sul processo di lavoro: fra le motivazioni addotte dalla corte nella sentenza troviamo il fatto che Uber imponga diverse condizioni ai suoi autisti (ad esempio limitando la scelta di veicoli privati che possono essere utilizzati come taxi) e controlli in vari modi la loro performance. Viene chiamato in causa il sistema di rating da parte dei clienti, che Uber utilizza come strumento di valutazione e monitoraggio dei propri lavoratori. Il tribunale segnala anche l’utilizzo da parte di Uber della disconnessione come meccanismo disciplinatorio nei confronti degli autisti.
Il tribunale ha rincarato la dose all’inizio di quest’anno, deliberando a favore di Maggie Dewhurst, una ciclista della ditta di consegne CitySprint ed attivista del sindacato di base IWGB, che aveva citato l’azienda in tribunale riguardo al proprio status contrattuale. Anche CitySprint – che fattura 145 milioni di Sterline all’anno – classifica i suoi 3,500 corrieri-ciclisti come self-employed. Il giudice ha attribuito anche alla Dewhurst lo stato di worker, sottolineando ancora una volta come il punto chiave sia chi effettivamente controlli il processo lavorativo: è l’azienda, infatti, che ha il potere di regolare la quantità di lavoro disponibile per i corrieri e di definire modalità e tempistiche del loro lavoro. CitySprint pretende una certa costanza nei giorni di disponibilità al lavoro offerti dai fattorini. Mentre lavorano i corrieri sono diretti dal centro di controllo riguardo alle consegne da prendere in carico e non possono rifiutare i lavori a loro assegnati. Inoltre, ricevono istruzioni precise su come interagire con i clienti, devono indossare l’uniforme aziendale e vengono pagati secondo le modalità definite dall’azienda. Privati di ogni sicurezza d’impiego, i corrieri «si sentono di fatto obbligati a fare come gli viene detto, per essere sicuri di continuare a ricevere lavoro in futuro».
Intanto la protesta si è allargata ad altre città del Regno Unito. A Brighton, cittadina marittima sulla costa inglese, qualche settimana fa i fattorini di Deliveroo hanno messo in atto uno sciopero spontaneo per protestare contro la paga troppo bassa, che secondo le rivendicazioni dei rider porta loro a guadagnare meno del salario minimo orario legale. Come a Londra, e come in Italia con Foodora, il pagamento si basa su un sistema di pagamento a cottimo: 4 sterline a consegna, in una città in cui gli affitti e il costo della vita arrivano quasi a toccare gli esorbitanti livelli londinesi. Oltre alla paga i lavoratori chiedevano un congelamento immediato delle nuove assunzioni, mettendo in luce una nuova criticità derivante dalle pratiche dei giganti della gig economy. A Brighton come in altre città, Deliveroo ha infatti messo in atto negli ultimi mesi un’aggressiva campagna di ingaggio di nuovi fattorini, ufficialmente per poter rispondere in maniera più efficiente alla domanda di consegne. Questa operazione è risultata però in un allargamento della flotta tale per cui non ci sono più abbastanza consegne per garantire sufficiente reddito a tutti i rider ingaggiati. Deliveroo ha dunque creato un vero e proprio serbatoio di riserva della forza lavoro, che rende i fattorini facilmente sostituibili e accresce la competizione tra di loro per assicurarsi le consegne. Un primo risultato della lotta è già stato raggiunto: la ditta ha capitolato su una delle due richieste, accettando di fermare l’ingaggio di nuovi fattorini, ma la protesta continua per ottenere un aumento della paga per consegna. La prossima città ad essere coinvolta potrebbe essere Leeds, dove il 10 marzo più di 100 fattorini di Deliveroo sono scesi in piazza per protestare contro il licenziamento di alcuni loro colleghi che si erano iscritti al sindacato. Pochi giorni fa il sindacato IWGB ha annunciato che la sentenza sullo status giuridico dei fattorini di Deliveroo dovrebbe essere emessa a maggio, con effetti potenzialmente dirompenti per tutti i lavoratori del settore della food delivery. Il tutto in attesa di un’azione legislativa del parlamento.
Anche nel resto d’Europa, le risposte legislative per regolare i rapporti di lavoro nella gig economy e meglio definire i diritti e l’inquadramento legale dei lavoratori interessati si sono fino ad ora sviluppate a macchia di leopardo. In un primo tentativo di fare chiarezza e cercare di stabilire linee guida comuni in materia tra i vari paesi dell’Unione, la Commissione Europea ha rilasciato in giugno 2016 la sua prima comunicazione in materia, ‘Un’agenda europea per l’economia collaborativa’, in cui ha chiarito come i criteri fissati dalla Corte di Giustizia Europea per stabilire l’esistenza di un effettivo rapporto di impiego (relazione di subordinazione alla piattaforma, natura del lavoro prestato e remunerazione) si possano applicare ai lavoratori delle piattaforme digitali. La Commissione ha invitato gli stati membri a considerare se i propri sistemi legislativi siano adeguati a regolare e tutelare queste nuove forme di lavoro, ma la responsabilità di intervenire rimane per ora in mano ai singoli stati, dove nella maggior parte dei casi la legislazione rimane ambigua e lascia le porte aperte ad abusi.
E in Italia? La protesta dei fattorini di Foodora ha messo in luce l’esistenza del problema anche nel nostro paese, ma poco è stato fatto finora per risolverlo. Pochi giorni fa il parlamento ha bocciato l’emendamento al ddl sul lavoro autonomo presentato dal parlamentare di Sinistra Italiana Giorgio Airaudo, che chiedeva di riconfigurare lo status giuridico dei lavoratori che prestano servizio nelle aziende di consegne, riconoscendo le caratteristiche del loro lavoro come subordinato. A questo punto, annunciano i lavoratori, si andrà per vie legali. Ma affidarsi ai tribunali non basta: come scrivevamo agli inizi della vicenda Foodora, perché la lotta dei lavoratori della gig economy sia un successo è necessaria mettere in discussione il funzionamento di tutto il mercato del lavoro italiano, in cui la precarietà è all’ordine del giorno, anche quando non gestita tramite una app.