Temendo l’esito di un eventuale referendum il governo ha recentemente abrogato le norme previste su voucher e appalti. Un’importante occasione per riflettere su come rendere le imprese italiane solide e sane
Erano stati appena pubblicati (il 15 marzo) sulla Gazzetta Ufficiale i due quesiti (il terzo, in materia di licenziamenti illegittimi, è stato dichiarato inammissibile dalla Corte Costituzionale) del referendum popolare proposto dalla CGIL per l’abolizione dei c.d. voucher e delle limitazioni alla solidarietà negli appalti, che il Governo ha approvato (il 17 marzo) un decreto legge (n. 25/2017) volto ad annullare l’appuntamento referendario del 28 maggio.
In merito ai voucher, il decreto, accogliendo in toto l’obiettivo referendario, abroga il lavoro accessorio introdotto dalla c.d. Riforma Biagi ed ampiamente esteso nelle riforme successive fino al recente Jobs Act. Nato nel 2003 per far emergere forme di lavoro irregolare, marginale ed occasionale, riservato inizialmente solo a determinate attività (ripetizioni private, giardinaggio, manifestazioni sportive o culturali, con un tetto di 3000 euro annui di compenso netto) e soggetti (disoccupati, pensionati, studenti, casalinghe), è stato progressivamente esteso a tutti i soggetti e settori produttivi con il tetto massimo alzato a 5000 euro annui (con la Riforma Fornero del 2012), poi ha perso anche la connotazione di lavoro occasionale (col Governo Letta del 2013) e, infine, col Jobs act (d. lg. 81/2015) si è alzato a 7000 euro annui il tetto massimo di compenso netto per il lavoratore. Solo da ultimo (d. lgs. 185/2016) si era introdotto l’obbligo di preventiva comunicazione per cntrastarne l’utilizzo abusivo. Infatti, l’utilizzo dei buoni lavoro, così liberalizzato, è passato in otto anni, secondo i dati Inps, dai 500 mila voucher del 2008 ai 134 milioni del 2016 (passando per i 2,7 milioni del 2009, 9,6 milioni del 2010, 23,8 milioni nel 2012, 69,1 milioni nel 2014 e 115 milioni nel 2015), determinando il sospetto – per usare un eufemismo – di un utilizzo non solo abnorme, ovvero ben al di là del residuale utilizzo per lavoro familiare (solo 3%) o comunque occasionale, ma anche abusivo, ovvero come copertura di lavoro in gran parte prestato in nero. Il quesito referendario mira(va) ad abrogare questa forma di lavoro estremamente precario, con l’obiettivo di incentivare l’utilizzo di forme di lavoro maggiormente tutelato.
In merito agli appalti, il decreto legge, anche qui anticipando l’esito voluto dal quesito referendario, ripristina l’originaria formulazione della norma (ante Fornero) sulla responsabilità solidale tra committente e appaltatore (ed eventuale subappaltatore), per evitare che il lavoratore perda la retribuzione (e relativi contributi previdenziali e premi assicurativi Inail) a causa dell’insolvenza dell’appaltatore, spostando il rischio di tale insolvenza (o del ritardo nel pagamento) dal lavoratore al committente. La funzione della norma era duplice: innanzitutto quella di garantire il soggetto più debole (lavoratore), consentendogli di agire nei confronti del debitore più solvibile (committente), considerato il soggetto più forte e quindi meglio in grado di recuperare il credito. In secondo luogo, aveva la funzione di responsabilizzare il committente nella scelta dell’impresa a cui appaltare, spingendolo ad orientare la scelta verso un’impresa solida e seria, diffidando dalle offerte al ribasso, favorendo quindi una concorrenza più leale e responsabile tra le imprese.
La riforma Fornero (L. 92/2012), tuttavia, è intervenuta nella disciplina degli appalti, da un lato, consentendo alla contrattazione collettiva di derogare a tale solidarietà e, dall’altro, ha reso più difficile per il lavoratore l’attivazione della responsabilità del committente, introducendo, oltre al litisconsorzio necessario tra appaltatore e committente, anche il beneficio di preventiva escussione presso l’appaltatore. In particolare, si prevede che il lavoratore, prima di “rivolgersi” al committente, abbia tentato infruttuosamente l’azione esecutiva nei confronti dell’applatatore, addossandogli i costi ed i rischi di un’azione spesso lunga, costosa e dall’esito incerto. Con la Riforma Fornero si è quindi snaturata la funzione originaria della norma, preoccupandosi di tutelare il soggetto forte, invece che quello debole: rovesciamento verso cui sempre più spesso è scivolato il c.d. “moderno” diritto del lavoro degli ultimi anni. Il quesito referendario mira(va) pertanto a riportare la norma alla sua funzione, abrogando i limiti alla responsabilità solidale tra committente e appaltatore.
In conclusione, quella che può essere registrata come una vittoria della Cgil, è una vittoria per tutti perché rimette al centro dell’agenda politica il lavoro e non il lavoretto.
Il diritto del lavoro ha progressivamente perso la sua identità, ha dimenticato la sua originaria funzione di tutela del contraente debole: diritto diseguale, a differenza del diritto civile, necessario per garantire una parità sostanziale tra i contraenti, al di là della loro parità formale. Oggi, il diritto del lavoro, ha addirittura superato il diritto civile che, se si applicasse al posto, ad esempio, del Jobs Act, risulterebbe a volte addirittura più protettivo: si pensi alla nuova disciplina delle mansioni che consente modifiche contrattuali unilaterali in pejus, laddove in base al diritto privato sarebbe necessario il consenso di entrambi i contraenti. Oppure al nuovo contratto a tutele crescenti che consente un risarcimento, in caso di licenziamento illegittimo, non commisurato al danno subito. I sostenitori di tali riforme regressive ritengono che siano necessarie per rendere più moderno il diritto del lavoro, accogliendo le istanze di flessibilità che da vent’anni ci chiede l’Europa. In realtà, da vent’anni il legislatore non ha fatto altro che aumentare la flessibilità del lavoro (dal Pacchetto Treu in poi), ma tale progressiva riduzione delle tutele dei lavoratori non ha né diminuito la disoccupazione, né migliorato lo stato di salute delle nostre imprese. La ricetta della flessibilità evidentemente non ha funzionato, anzi ha viziato le imprese, ha permesso loro di non investire sulle risorse umane.
La vicenda del referendum e il decreto del Governo sono quindi un’importante occasione per riflettere su come rendere le nostre imprese solide e sane, perché è sana e solida un’impresa che non usa i voucher, che non appalta opere o servizi ad aziende fantasma, che assume a tempo indeterminato e quindi investe sui propri lavoratori, li forma, li protegge, è attenta al loro benessere perchè sa che è dal loro benessere che parte il proprio.