Il debito, i negoziati con la Troika, la fuga di capitali all’estero e l’eterno problema dell’evasione fiscale. Intervista con l’economista Marica Frangakis, ex consigliera economica del vicepresidente greco Dragasakis
ATENE. Secondo la Commissione europea il PIL greco nel 2016 è cresciuto dello 0,3%, mentre le stime del FMI sono intorno allo 0,4, ma entrambi sono ottimisti per il 2017 prevedendo una crescita del 2,7%. Il rapporto debito pubblico-Pil resta a livelli record, al 179,7%. Il tasso di disoccupazione, secondo Eurostat, è sceso dal 24,5% del novembre 2015 al 23% nel novembre 2016, e resta il più alto dell’Unione Europea. Ancora record europei per la disoccupazione giovanile, al 44% e per le persone in condizione di grave povertà, il 22, 5% nel 2015. E’ su questo sfondo che continuano le estenuanti trattative del governo di Alexis Tsipras con la ‘troika’ – Commissione europea, Banca Centrale Europea (BCE) e Fondo monetario internazionale (FMI) – da cui dipendono le concessioni di aiuti finanziari ad Atene e gli interventi – promessi ma non ancora attuati – per l’alleggerimento del debito pubblico greco. Il 20 febbraio c’è stato un primo compromesso, ma sono previsti altri incontri a fine marzo. Il presidente dell’Eurogruppo Dijsselbloem si è detto felice dell’esito del negoziato, affermando che ci sarà un passaggio dall’austerità alle riforme strutturali.
La richiesta più controversa dei creditori è il mantenimento per 10 anni di un bilancio dello Stato con un avanzo primario del 3,5% del Pil, destinato a finanziare il pagamento degli interessi e il rimborso del debito estero. Un livello insopportabile per un paese in grave difficoltà. I creditori vogliono una liberalizzazione dei licenziamenti collettivi, l’introduzione della ‘no tax area’ e ulteriori tagli al sistema pensionistico, in difesa del quale è intervenuta sul Financial Times la Ministra del Lavoro e della Solidarietà Sociale Effie Achtsioglou. Secondo il portavoce del governo greco Dimitris Tzanakopoulos, le ‘riforme’ richieste verranno introdotte solo dal 2018 in poi e saranno compensate da investimenti e aumenti della spesa sociale.
Sembra per ora rientrato anche lo scontro tra autorità europee e FMI dopo l’incontro a Berlino tra la direttrice del FMI Christine Lagarde e la cancelliera tedesca Angela Merkel. Il Fondo monetario sostiene che il debito greco sia insostenibile e ha chiesto una sua riduzione, senza la quale non era disponibile a partecipare al programma di rifinanziamento; l’Europa continua a rifiutare la proposta di una conferenza sul debito e finge che la Grecia possa rimborsare tutto. In seguito Lagarde ha confermato la partecipazione del FMI al programma di aiuti, chiedendo una ristrutturazione delle scadenze dei tassi di interesse, più che dell’esposizione totale. In più, Atene attende di rientrare nel programma del “Quantitative Easing” della BCE – le misure di emissione di moneta in cambio di acquisto di titoli pubblici e privati che hanno facilitato la gestione del debito degli altri paesi europei – da cui è stata esclusa dal marzo 2015.
Della situazione economica e politica greca parliamo con Marica Frangakis, membro del Comitato centrale di Syriza e del direttivo dell’Istituto Nicos Poulantzas, oltre che del Trasnational Institute, dell’EuroMemorandum Group e di Attac Hellas; ha collaborato come consigliera economica con il vicepresidente greco Dragasakis.
A che punto siamo nel negoziato tra Atene e Bruxelles?
I negoziati sono iniziati nel 2010 con le prime richieste di assistenza finanziaria alla Grecia. Due volte l’anno c’è un Review Process che fa il punto e ridefinisce le condizioni di rimborso del debito pubblico, solitamente a favore dei creditori. In questo processo, l’accordo tra governo greco ed Eurogruppo del 20 Febbraio è stato una svolta politica. I rappresentanti dell’Eurozona hanno detto ufficialmente che l’austerità è negativa. Moscovici, il Commissario per gli Affari Economici, ha riconosciuto per la prima volta che l’austerità è sbagliata e ha garantito che non ci sarà austerità addizionale: per ogni euro tagliato, un altro andrà in investimenti e spesa sociale. Il negoziato sarebbe potuto esser concluso molto prima, ma l’Eurozona non voleva l’alleggerimento del debito proposto dal FMI, che a sua volta allora chiedeva più austerity. Ma con le elezioni nei Paesi Bassi, in Francia e in Germania e i leader europei non vogliono avere la questione greca aperta. Gli europei, e in particolare la Germania, da che si erano sempre opposti, ora menzionano l’alleggerimento del debito come una misura necessaria; cosa voglia dire lo capiremo al prossimo Review Process che sarà a fine estate. A fine anno la situazione sarà più chiare e dipenderà molto dai rapporti di forza e dall’esito delle elezioni tedesche di settembre. Se il risultato rafforzerà la destra tedesca sarà una cattiva notizia per la Grecia. Se Spd, Linke, e forse persino Merkel, faranno un governo, la crisi greca potrebbe allentarsi.
Due problemi seri per i conti del paese sono la fuga di capitali all’estero e l’evasione fiscale; che sviluppi ci sono?
In Grecia, va detto, c’è una sorta di cultura dell’evasione fiscale. Il problema è soprattutto con i più ricchi, e stiamo cercando di colpire i grandi redditi e i grandi patrimoni. Nel 2010, la direttrice del FMI diede al ministro delle finanze del Governo Papandreou la lista delle persone con grossi conti bancari in Svizzera, ma i governi precedenti non si sono mossi e la lista è andata misteriosamente perduta. Nel 2016 il ministro delle Finanze della Renania del Nord-Westfalia, Norbert Walter-Borjans ha fornito un’altra lista e il governo greco sta lavorando in questa direzione: nel 2015 sono stati raccolti 175 milioni di euro dai grandi evasori, nel 2014, durante il governo di Nea Demokratia, erano stati raccolti solo 27 milioni di euro di tasse in più.
Un discorso a parte riguarda poi il settore dei trasporti navali. La flotta commerciale greca è seconda nel mondo solo a quella giapponese, è un’importante fonte di reddito per l’economia ed è un settore privilegiato perché è protetto dalla Costituzione, dove si stabilisce che gli armatori vadano tassati solo sulla base del tonnellaggio delle navi. I governi Samaras e quelli del Pasok hanno chiesto agli armatori di tornare volontariamente in Grecia e pagare una certa somma; Syriza invece sta provando a tassare i redditi prodotti dalle navi, compiendo un passo avanti rispetto al ‘contributo volontario’. Ma dobbiamo essere realisti: se ci fosse una modifica della Costituzione che imponesse una dura tassazione, le navi potrebbero lasciare la Grecia.
Che politiche sociali ha fatto Syriza per affrontare le devastazione sociale provocata dall’austerità?
La priorità per Syriza è stata quella di affrontare la crisi umanitaria. Abbiamo fatto molto per fornire il cibo ai più poveri e per garantire l’accesso alla sanità ai disoccupati e a chi è sprovvisto di reddito. Abbiamo assicurato i pasti nelle scuole delle aree più povere. Abbiamo promosso l’economia sociale e solidale per permettere alle persone di mettersi insieme e costruire imprese non profit.
Oltre che alle questioni sociali, ci siamo dedicati alle riforme istituzionali. Il governo Tsipras ha iniziato un processo di revisione della costituzione: l’anno scorso abbiamo modificato il sistema elettorale da maggioritario a proporzionale, ma il nuovo sistema diventerà operativa solo tra due tornate elettorali.
La Grecia, l’euro e l’Europa: come si è arrivati alla crisi?
Se non cambia la sua architettura, l’Eurozona e la moneta unica non sono sostenibili. Quando la Grecia è entrata nell’euro io ero parte di Synapsismos (poi confluita come maggioranza della coalizione in Syriza) ed eravamo contrari: la nostra tesi era che la Grecia non sarebbe stata favorita dall’adesione all’euro perché aveva un’economia debole, bassi livelli di produttività, commerciava molto con paesi esterni all’eurozona, e avevi una limitata mobilità di capitali e persone verso l’Europa. Oggi l’unica cosa che è cambiata è quest’ultima. Allora ci veniva risposto che l’ingresso nella moneta unica fosse positivo per ragioni politiche, che nel lungo periodo ci saremmo rafforzati. Ma sono stati fatti troppi errori ed è difficile per la Grecia stare nell’euro per come è stato costruito.
L’euro ha eliminato il rischio del cambio sui mercati esteri, ma non abbiamo gli strumenti per fronteggiare la pressione dei mercati. Negli anni passati, in Grecia, la dracma veniva svalutata molto spesso e ciò portò ad un’alta inflazione e ad alti tassi di interesse. Con l’euro si è posto un limite a tutto ciò, ma dato che l’euro non ha una Banca centrale come quella inglese o statunitense, che può acquistate titoli di stato e finanziare il deficit dei governi, il rischio è stato trasferito dal mercato dei cambi a quello dei titoli di stato. Nel maggio 2010 i tassi sui titoli di stato greci erano arrivati all’8%, nei mesi successivi sono saliti ancora più in alto; il governo non poteva più indebitarsi sul mercato finanziario e, dato che aveva un alto debito pubblico, doveva scegliere se fare bancarotta o chiedere un prestito e entrare nel programma di assistenza finanziaria. Lo stesso accadde in Portogallo e Irlanda, che nello stesso anno entrarono – come la Grecia – nel programma di assistenza finanziaria europea. Nonostante i molti limiti, il ‘Quantitative Easing’ della BCE, iniziato nel marzo 2015, sta provando a colmare una di queste carenze.
Ma i problemi dell’euro sono strutturali, se non verrà ridefinita la moneta unica, l’Eurozona non reggerà alla pressione del mercato.
Alba Dorata, secondo un recente sondaggio dell’Università della Macedonia è al 9% mentre Syriza è data al 20%. Oltre che per evitare la crescita dell’estrema destra, dati i vincoli imposti dalla troika, ha senso proporre un’uscita dall’euro?
L’euro esiste dal 2000. Rompere è possibile ma ci vorrà molta volontà politica da parte dei soggetti coinvolti. E ci saranno vari rischi. E’molto difficile in termini pratici. Non dobbiamo dimenticare le pressioni dei mercati finanziari, dove la speculazione vende e compra valute per lucrare sulle aspettative di svalutazione.
La ‘Grexit’ non è più una minaccia utilizzabile da parte della Grecia. Anzi, è stata la Germania ad usarla come minaccia nel 2015 quando Schauble disse la Grecia sarebbe stata aiutata se avesse lasciato l’euro. La Grecia avrebbe dovuto comunque pagare il debito e quel che sarebbe successo dopo non era definito. La ‘Grexit’ ha senso se c’è allo stesso tempo il default – il rifiuto di pagare il debito, come sostiene Lapavitsas. Varoufakis sosteneva invece che fosse possibile l’uscita dall’euro senza l’insolvenza sul debito. Secondo me ora non ha senso lasciare l’euro perché farlo è molto rischioso. Le proprietà del governo greco nel mondo e in Europa, come le ambasciate, verrebbero confiscate. Si entrerebbe in una grossa contesa con i creditori che farebbero di tutto per riavere parte di ciò che gli spetta. La Grecia è una piccola economia e anche durante la crisi l’import è stato maggiore dell’export: ci sarebbe bisogno di valuta estera per comprare le merci importate. Noi importiamo cibo, medicine e petrolio – cosa ridicola perché nel mar Egeo c’è il petrolio ma non possiamo estrarlo. Lasciare l’euro da un giorno all’altro è molto pericoloso. Si potrebbe programmare una strategia di questo tipo, ma nessuno lo ha fatto.
Che alleanze si possono costruire in Europa?
Non bisogna ragionare in termini di governi e stati nazione ma di ciò che si muove al loro interno. E al loro interno ci sono partiti e classi diverse. Con l’estrema destra che si sta rafforzando, i socialdemocratici danno segni di cambiamento, allontanandosi dalle politiche neoliberali. Penso che Syriza sia stata importante in questo passaggio. Ha vinto le elezioni, sta governando, ha ingaggiato una lotta, che ovviamente è stata molto costosa per i greci. Syriza ha provato a coordinare i paesi del Sud Europa, fatto inedito; Tsipras ha invitato sette paesi mediterranei in Grecia e poi a Lisbona. Ma finché quel cambiamento non sarà compiuto, fare alleanze con forze e governi socialdemocratici sarà difficile. Nell’ordine neoliberale le prospettive sono più fosche.