La crisi della produttività sta viaggiando oggi più o meno parallelamente alla carenza di nuovi investimenti e allo stesso debole andamento del pil almeno dopo il 2008
Secondo i dati OCSE, il rapporto tra il pil e le ore lavorate, misura corrente della produttività del lavoro, è aumentato in media negli Stati Uniti nel periodo 2005-2014 solamente dell’1% all’anno, contro il 2,7% del 1997-2004. Le cose appaiono anche peggiori per gli altri paesi ricchi: si va da un incremento dello 0,8% (contro l’1,9% per il periodo precedente) per il Giappone, allo 0,7% per la Francia (contro il 2%), dallo 0,8% per la Germania (contro l’1,5%), al 0,4% per la Gran Bretagna (contro il 2,4%).
Ricordiamo infine che l’Italia mostra i dati peggiori tra tutti i paesi ricchi. Così tra il 2000 e il 2015 la produttività è aumentata da noi dell’1% in tutto, mentre in Francia, in Germania e in Spagna si è invece incrementata del 17% (fonte: Infodata).
Le cifre più recenti appaiono ancora più negative. Così la previsione per gli Stati Uniti, dopo un magro 0,3% per il 2015, parla per il 2016 di un -0,2%, la prima cifra con il segno meno da trent’anni a questa parte. Per la Gran Bretagna, sempre dopo uno 0,3% nel 2015, si prevede una crescita zero per il 2016. Per l’eurozona, ad uno 0,5% nel 2015 dovrebbe ora succedere uno 0,3% nel 2016, mentre, sempre per l’anno in corso, il Giappone dovrebbe registrare uno 0,4% (Fleming, Giles, 2016).
Il rallentamento nella dinamica della produttività può apparire molto preoccupante in relazione al fatto che, come è noto, un suo incremento debole significa di solito una minore crescita tendenziale dell’economia, nonché un minore livello dei profitti delle imprese, una scarsa dinamica dei salari, una minore sostenibilità del debito.
perché la produttività non aumenta più?
-l’influenza della crisi
Sembra esserci un sostanziale accordo tra gli studiosi sul fatto che il rallentamento nei livelli della produttività è solo in parte attribuibile agli effetti della crisi del 2008 e che esso fa anche riferimento a problemi economici più profondi.
Tra l’altro, il fenomeno ha cominciato a manifestarsi già nei primi anni del nuovo millennio, anche se esso si è poi aggravato.
La crisi ha comunque ridotto l’afflusso di credito per gli investimenti delle imprese da parte del sistema bancario, che ha dovuto mantenere bloccate le risorse nelle imprese in difficoltà, non riuscendo così a indirizzare i finanziamenti verso i nuovi settori, a produttività più elevata. Le imprese sono parallelamente diventate più prudenti, preferendo mantenere alte liquidità piuttosto che imbarcarsi in progetti rischiosi (Davies, 2015). Per altro verso, la crisi ha contribuito a mantenere bassi i salari, riducendo così gli stimoli delle imprese a sostituire il capitale al lavoro.
Intanto nel settore pubblico le politiche di austerità e altre difficoltà hanno portato nei vari paesi alla riduzione anche degli investimenti statali.
-i mutamenti nella struttura dell’economia e le nuove tecnologie
Una spiegazione diffusa del fenomeno fa riferimento ad alcuni mutamenti nella struttura delle economie.
Così si sostiene che i paesi ricchi, che hanno già registrato un forte livello di automazione nel settore industriale, vanno sviluppando le loro attività nel settore dei servizi, che presenta minori spazi per rapidi guadagni in termini di efficienza e che non è stato ancora investito in maniera massiccia dai processi di automazione.
Una nuova ipotesi è stata avanzata di recente da Simon Taylor (Taylor, 2016). Nell’ultimo periodo, afferma l’autore, sta aumentando in maniera rilevante il grado di concentrazione di molti settori, dalle telecomunicazioni, ai media sociali, dai motori di ricerca internet, ai farmaceutici, al commercio elettronico, ecc. D’altro canto, egli rileva che gli organi antitrust hanno rallentato la loro pressione sulle imprese.
Lo studioso ne conclude che questa tendenza può spiegare almeno in parte il rallentamento della produttività, perché in una situazione monopolistica le imprese, avendone meno bisogno per generare profitti adeguati, sono spinte ad investire di meno in innovazione.
Un’altra spiegazione che riguarda il settore delle alte tecnologie fa riferimento alla constatazione che le innovazioni non stanno più passando in maniera veloce dalle poche imprese all’avanguardia al resto dell’economia, come succedeva una volta; la macchina diffusiva si è inceppata (O’Connor, 2016), forse anche, di nuovo, per l’aumento del potere monopolistico di poche grandi imprese.
-lavoro, finanza, diseguaglianze
Un’altra possibile valutazione avrebbe a che fare con la qualità del lavoro. Mentre i dipendenti con elevate qualificazioni vanno in pensione, essi sono via via sostituiti da una forza lavoro che è meno competente ed efficiente, anche perché ha studiato di meno. Naturalmente la fascia della popolazione che è oggi meno educata è quella dei più poveri e deboli.
L’Ocse sottolinea a questo riguardo che la crescita del peso della finanza nell’economia mondiale potrebbe avere stornato gli investimenti dalle attività produttive e provocato una più forte concentrazione in cima alla piramide dei redditi e della ricchezza, ciò che sembrerebbe essere indicato proprio dal fatto che il 40% più povero della popolazione dei paesi ricchi investe sempre di meno nell’educazione, in particolare per mancanza di risorse; questo accentua ancora di più le diseguaglianze secondo un processo di causazione circolare, mentre pesa contemporaneamente sulla crescita della produttività.
Un’altra considerazione, più tecnica, ha a che fare con dei fattori istituzionali, quali la qualità dell’educazione e della formazione professionale, quella delle infrastrutture pubbliche, quella delle organizzazioni che favoriscono l’imprenditorialità, ecc., tutte attività che negli ultimi tempi stanno soffrendo parecchio per carenza di risorse.
-semplicemente degli errori o dei ritardi di misurazione?
Circola anche l’ipotesi che semplicemente gli incrementi di produttività non siano ben misurati. Il calcolo delle nuove tecnologie sul valore aggiunto si basa sulla considerazione di indici dei prezzi a qualità costante dei prodotti e servizi; ma, in tale settore, le loro prestazioni, come è noto, aumentano fortemente e continuamente e quindi è molto difficile misurare il cambiamento dei prezzi a qualità costante; si tende così a sovrastimarlo e a sottostimare invece quello dei volumi (Petit, 2016). D’altro canto, a contrariis, bisogna considerare che i nostri telefonini ci legano all’impresa e ci fanno lavorare anche quando siamo fuori orario, ciò che non risulta dalle statistiche delle ore lavorate.
Alla fine, anche se si volesse in qualche modo concordare sull’ipotesi che i guadagni di produttività legati allo sviluppo dell’economia numerica possano essere sottostimati, tali attività riguardano oggi ancora una parte ridotta dell’economia totale e quindi non possono certo spiegare da sole il declino del fenomeno.
Una ipotesi parallela, sostenuta in particolare da Joel Mokir (Mokyr, 2014) e da Brynjolfsson e McAfee (Brynjolfsson, McAfee, 2014), fa riferimento al fatto che i guadagni di produttività portati dalle nuove tecnologie sono potenzialmente molto forti, ma che essi devono essere ancora assorbiti dall’economia. Così l’ipotesi suggerisce che mentre l’automazione del settore dei servizi è appena iniziata, i suoi effetti sulla produttività si faranno sentire fra qualche tempo.
Per altro verso, Robert Gordon (Gordon, 2016) nega invece il carattere importante di tali innovazioni, che non dovrebbero riuscire per lui né a migliorare il quadro della produttività né, più in generale, a sostenere le sorti dell’economia statunitense.
Conclusioni
L’elenco delle possibili cause del fenomeno indica quanto sia anche difficile individuare le giuste misure per farvi fronte.
Sgombriamo comunque intanto il campo dalle ricette neoliberiste più convenzionali che, come si può immaginare, mettono l’accento sulla necessità di ridurre la pretesa troppo elevata protezione del fattore lavoro, situazione che manterrebbe le persone fisse nelle imprese vecchie, frenando l’innovazione (Petit, 2016), oppure anche sulla necessità di una riduzione della ipotizzata elevata pressione fiscale sui produttori, o sulla esistenza di una troppo forte regolamentazione dei vari business.
Di fatto, la crisi della produttività sta viaggiando oggi più o meno parallelamente alla carenza di nuovi investimenti e allo stesso debole andamento del pil almeno dopo il 2008, mentre da più parti si fa riferimento ad una possibile stagnazione secolare e mentre si levano alcune autorevoli voci per segnalare una prossima possibile nuova crisi.
Su questo sfondo una misura che appare persino tecnicamente ovvia sarebbe quella di incrementare gli investimenti sia pubblici che privati. I governi, abbandonando la pressione delle politiche di austerità o di un troppo spinto controllo di bilancio, dovrebbero investire di più e contemporaneamente dovrebbero incoraggiare con politiche adeguate gli investimenti privati. Inoltre si dovrebbe puntare di più sul capitale umano, su un sistema educativo più completo e di migliore qualità, su maggiori stanziamenti per la ricerca, su di un sistema finanziario in grado di indirizzare le risorse verso gli impieghi più produttivi.
A queste misure si dovrebbero aggiungere, sulla base dei suggerimenti sopra ricordati, delle adeguate politiche antimonopolistiche e di riduzione delle diseguaglianze.
Un lavoro certamente di lunga lena.
Testi citati nell’articolo
-Brynjolfsson E., McAfee A., The second machine age, Norton, 2014, trad. it. La nuova rivoluzione delle macchine, Feltrinelli, Milano, 2015
-Davies G., Lord Jim O’ Neill braces to tackle the UK productivity « puzzle », www.ft.com, 4 giugno 2015
-Fleming S., Giles C., US productivity slips for the first time in three decades, www.ft.com, 25 maggio 2016
-Gordon R., The rise and fall of american growth, Princeton University Press, Princeton, 2016
-Mokyr J., What today’s gloomsayers are missing, www.wsj.com, 8 agosto 2014
-O’Connor S., A european « silicon valley » is no help on productivity woes, www.ft.com, 31 maggio 2016
OECD, Nouvelle approche face aux défis économiques (NAEC), articulation entre productivité et inclusivitè, version préliminaire, www.oecd.org/fr/économie/l, 31 maggio 2016
-Petit J. P., La vraie mauvais nouvelle, c’est la faiblesse de la productivité, Le Monde, 4 maggio 2016
-Taylor S., Rising monopoly power may partly explain US inequality and productivity slowdown, Simon Taylor blog, 16 maggio 2016