I banchieri centrali hanno ormai un ruolo di ultima istanza e questo non solo nel campo monetario. Anche se spesso i loro interventi possano essere piuttosto dannosi
Mohamed A. El-Erian, un economista già attivo nel settore dei fondi di investimento, consigliere di Obama e di alcune importanti istituzioni economiche, nella sua ultima opera (El-Erian, 2016) sottolinea autorevolmente una constatazione che si va facendo strada da tempo, quella che la politica monetaria portata oggi avanti dalle banche centrali sia ormai rimasta pressoché l’unico gioco disponibile (The only game in town, come recita il titolo del suo libro) per cercare di rianimare delle economie occidentali atoniche; questo, a fronte della pratica ritirata dal campo dei governi, che sembrano semmai, in particolare in Europa, solo preoccupati di gestire delle politiche di austerità, che, come appare evidente, non aiutano lo sviluppo economico dei vari paesi. Va comunque sottolineato che alla voce di El-Erian se ne sovrappongono da tempo diverse altre che vanno nello stesso senso.
Nei fatti, in ogni caso, Mario Draghi, Janet Yellen, i governatori della Banca d’Inghilterra, di quella del Giappone ed alcuni altri personaggi “minori” sono apparentemente diventati i nuovi padroni del mondo e godono oggi di un potere immenso (Artus, Virard, 2016). Ogni loro presa di posizione, ogni loro decisione, viene attesa e commentata con grande attenzione a livello planetario. Si conta ormai solo su di loro, oltre che per far ripartire la crescita, per combattere la deflazione, per risolvere il problema dell’indebitamento eccessivo degli stati, per impedire in Europa il crollo dell’euro e per tentare altri possibili miracoli.
Le grandi attese verso tali figure sono anche da correlare appunto alla delusione suscitata dai governi al potere, dalla loro scarsa intraprendenza, siano essi di destra o, almeno nominalmente, di sinistra, nonché dalla loro spesso palese inettitudine.
I banchieri centrali hanno ormai un ruolo di ultima istanza (Artus, Virard, 2016) e questo non solo nel campo monetario.
C’è da chiedersi, comunque, se e quanto il gioco funzioni e quali siano ad oggi i suoi risultati.
Per quello che ci interessa più direttamente, le misure prese e quelle preannunciate servono forse a guarire l’economia europea dai mali che la minano, e cioè basso livello di inflazione, tasso di disoccupazione elevato, debolezza della domanda, scarsa crescita della produttività, depressione degli investimenti, aumento delle diseguaglianze, declino demografico (Charrel, 2016, a), problemi tra l’altro almeno in parte collegati tra di loro? La risposta è certamente negativa. Oggi, facendo riferimento non solo alla BCE, ma a tutti gli istituti analoghi, si comincia a parlare per le banche centrali di “sostanziale impotenza”.
Anzi si pensa ormai che i loro interventi possano essere non solo inefficaci, ma anche, per diversi aspetti, piuttosto dannosi.
Le risposte alla crisi
Di fronte alla crisi del 2007-2008, che essi certo non avevano peraltro in alcun modo visto arrivare, i banchieri centrali dei paesi ricchi sono, uno dopo l’altro, ricorsi a delle misure di intervento espansioniste e per molti versi non convenzionali. Abbiamo così registrato tassi di interesse fissati intorno allo zero e un aumento fortissimo delle liquidità disponibili, mentre i bilanci delle stesse banche centrali si sono fortemente gonfiati. La liquidità, la moneta da loro creata, rappresenta oggi circa il 30% del pil mondiale, contro soltanto il 6% della fine degli anni Novanta del Novecento. Nel caso del Giappone siamo peraltro ormai arrivati al 70%, ciò che indica, tra l’altro, che volendo, le altre banche centrali potrebbero anche accrescere fortemente i loro, peraltro apparentemente poco fruttuosi, sforzi.
Certo il loro intervento ha evitato l’affondamento dei mercati dai due lati dell’Atlantico e, in particolare in Europa, hanno contribuito in misura determinante ad evitare il crollo dell’euro (Charrel, 2016, a); per quello che ci riguarda più direttamente, ancora oggi l’acquisto dei titoli di stato, sia pure sul mercato secondario, contribuisce in misura rilevante a tenere a galla la situazione italiana. Più in generale, le banche centrali, anche dopo che erano passati i momenti peggiori della crisi, hanno lasciato le porte aperte agli interventi non convenzionali, sperando di innescare così l’aumento dei livelli del credito e la crescita dell’economia.
Dal Giappone agli Stati Uniti all’Europa
il Giappone
Il Giappone ha introdotto per primo il quantitative easing e questo nel 2001, mentre già nel 1999 aveva varato una politica di tassi di interesse nulli; la banca centrale tentava così di reagire, peraltro dopo molti anni, al rallentamento economico e alla minaccia di una spirale deflazionista. Ma quelle misure non hanno condotto alla fine della deflazione e non hanno portato ad una crescita economica adeguata. Intanto il debito pubblico del paese ha raggiunto il 240% del pil.
Anche l’Abeconomics, un disperato tentativo, varato nella primavera del 2013, di far ripartire il sistema, collegando ad una politica accomodante della banca centrale interventi importanti, tra l’altro, sul fronte budgetario e su quello del cambio, non sembra aver dato i risultati sperati. Il qe ha in particolare condotto ad un’inflazione degli asset, mentre ancora nel 2015 il pil è cresciuto solamente dello 0,4%.
Ora la banca centrale, per combattere la deflazione, indebolire il cambio, stimolare la crescita, ricorre ai tassi di interesse negativi, come hanno già fatto del resto la Svizzera, la Svezia, la Danimarca, l’eurozona; ma anche questa mossa non sembra avere entusiasmato i mercati, tanto che invece di svalutarsi, lo yen ha preso a salire.
Incidentalmente, va sottolineato che oggi circa un quarto del pil mondiale viene da paesi con tassi di interesse negativi.
Ora il paese pianifica una ulteriore riduzione dei tassi e un aumento degli acquisti di asset. Ma se la politica è sino ad oggi fallita, perché essa dovrebbe cominciare a funzionare adesso?
Incidentalmente, nel frattempo la banca centrale ha acquistato circa un quinto del debito pubblico del paese.
gli Stati Uniti
Mentre il Giappone passava ad una versione avanzata del qe, a partire dal 2008 Usa e Gran Bretagna seguivano l’esempio del paese asiatico.
Negli Stati Uniti, in particolare, la Fed, davanti alla crisi, aveva varato una politica di tassi zero e di qe nel 2008; Obama, poi, appena insediatosi, approntava anche, nel 2009, un forte aumento della spesa pubblica. Ma già verso la fine del 2010 la maggioranza repubblicana riusciva a bloccare i programmi espansivi del nuovo presidente e da allora è restata in campo solo la politica della Fed. Ora con il freno recente al qe e l’aumento dei tassi di interesse, sia pure dello 0,25%, l’economia sembra bloccarsi, mentre la stessa decisione ha messo in difficoltà molti paesi emergenti. Peraltro la Yellen ha già fatto balenare l’idea di una possibile marcia indietro e comunque sembrerebbe aver deciso, almeno per il momento, un sostanziale blocco di altri aumenti dei tassi, che erano invece già stati annunciati. Molti prevedono ormai anzi un taglio degli stessi entro l’anno (Tett, 2016). Un brutto colpo per la credibilità della banca.
l’eurozona
L’Europa dopo che con Trichet aveva incredibilmente aumentato i tassi, sta, buona ultima, sperimentando ora la ricetta giapponese e non si capisce, di nuovo, perché i risultati dovrebbero essere molto diversi. In effetti, il programma di qe, peraltro molto più ridotto di quello statunitense, almeno sino ad oggi, non sembra aver molto smosso le acque, anche se ha certamente contribuito a riparare i paesi del Sud Europa da molte tempeste sui mercati finanziari.
Ora, di fronte alla modestia dei risultati – ad esempio, la BCE ha fallito l’obiettivo di inflazione ormai per quattro anni di seguito-, Draghi promette di potenziare il programma, con nuove decisioni che dovrebbero essere prese ad una riunione della banca il 10 marzo. Ma la mossa servirebbe a qualcosa? E d’altro canto, le opzioni che egli ha a disposizione sono piuttosto ristrette. Certo, egli può aumentare il programma di qe e allargarlo anche all’acquisto di titoli privati, nonché abbassare ancora i tassi di interesse; ma in sostanza, alla fine, niente di spettacolare (Charrel, 2016, b).
Incidentalmente, ci si può chiedere sin dove gli stessi tassi possono scendere. Si pensava sino a poco tempo fa che, al massimo, si poteva raggiungere il -1,0%. Ma ora c’è un diffuso consenso che essi potrebbero arrivare sino a -4,5%, almeno nell’eurozona (Tett, 2016). Ma nessuno sa se questo sarà un limite invalicabile o no; nessuno ha peraltro idea di cosa potrebbe succedere a quel livello di tassi alle banche e all’economia in generale.
(1.continua)
Testi citati nell’articolo
-Artus P., Virard M.-P., La folie des banques centrales, Fayard, Parigi, 2016
-Charrel M., Promesses de banquiers centraux, Le Monde, 24-25 gennaio 2016, a
-Charrel M., Déflation : les options restreintes de la BCE, La Monde, 23 gennaio 2016, b
-El-Erian M., The only game in town. Central banks, instability and avoiding the next collapse, Random House, New York, 2016
-Tett G., negative rates take banks through the looking glass, www.ft.com, 11 febbraio 2016