Un problema incombe su Le Bourget, dove si svolge la Cop 21, l’assemblea delle nazioni unite sulle questioni ambientali. Riguarda la democrazia. Perchè, come scrive Naomi Klein, “gli eventi ‘paralleli’ della società civile non sono semplici appendici all’evento principale, ma parte integrante del processo”
Le Bourget è uno storico aeroporto di Parigi. Film e libri lo citano. Vi arrivò, acclamato dalla folla Charles Lindberg, nel 1927, dopo aver attraversato per primo in solitario l’Oceano con il suo monoplano. Ormai lo scalo serve soprattutto per voli privati (è il primo in Europa) grandi raduni ed esibizioni. In giugno, all’ultima fiera aeronautica, moltissimi curiosi, persone qualificate e centinaia di generali e ministri vi si sono recati per ammirare e prenotare e semmai comprare gli ultimi modelli di bombardieri, caccia e droni. In dicembre, sei mesi dopo, il pubblico qualsiasi non sarà gradito. Non vi saranno biglietti d’ingresso da comprare. Cortei popolari, astenersi. Disney non è qui. Qui non si potrà manifestare con cartelli e striscioni. Si verrà per inviti, come delegati di cento paesi, scienziati, esperti delle Ong, industriali, professori di famose università, finanzieri, ricercatori di rinomate accademie, per partecipare a una discussione accesa ma educata e a decine d’incontri, allo scambio di migliaia di biglietti da visita e indirizzi mail. Si auspica che al termine di tutta la confusione si saprà finalmente la verità sul sesso degli angeli. Forse non vi sarà un accordo in proposito. Ogni teologo se ne andrà con le sue idee.
Parliamo della discussione sul sesso degli angeli non per caso. Ci riferiamo proprio a Costantinopoli (che dopo di allora ha cambiato nome) invasa, mentre in città si discuteva di altissimi argomenti, dai siriani fuggiti dalla patria perché in Siria non c’era più niente da mangiare. Dell’esodo dei siriani parla Michael Klare che riprende gli studi pubblicati dal Pnas per discutere il caso. “Tra il 2006 e il 2010 la Siria è stata colpita da una siccità devastante, causata in parte dal cambiamento climatico, che ha trasformato in deserto quasi il 60 per cento del paese”. (Michael Klare, Internazionale, 1130) La fame disperata, la mancanza di prospettive ha spinto negli anni successivi i contadini in città. Da qui derivano gli scontri con la borghesia urbana, la guerra civile, l’emigrazione. Un compito decisivo dell’Unep (Programma dell’ Onu per l’ambiente) per mitigare i disastri climatici e adattare le popolazioni ai pericoli e alle conseguenze, dovrebbe essere quello di capire i problemi reali come la siccità e la conseguente carestia, o l’alluvione o il gran freddo o il terremoto e l’incendio; e intervenire subito per ridurre gli effetti. Niente di più e niente di meno. Non lontano da lì, in Egitto, già ai tempi di Giuseppe e i suoi fratelli, figli di Giacobbe e nipoti di Isacco, tra vacche grasse e vacche magre, il faraone sapeva come fare.
La lunga discussione che ha preceduto Cop21, riunione plenaria dell’Onu sull’ambiente di Parigi, partiva da un presupposto: nessuno imporrà niente a nessun altro: non impegni, non rinunce; in cambio ciascuno dei duecento paesi ed entità partecipanti avrebbe accettato sinceramente e senza secondi pensieri il principio di un riscaldamento terrestre causato dall’emissione dovuta all’uso di materiali fossili: petrolio, carbone, gas. Ne conseguiva un risultato prima ritenuto irraggiungibile: ogni paese, ricco o povero, industriale o in via di sviluppo avrebbe dichiarato il proprio impegno volontario futuro per ridurre l’inquinamento da CO2 e contenere in tal modo l’aumento in due gradi, alla fine del secolo. Ora, due gradi pieni di maggior calore sono certamente troppo per salvare il pianeta come è ora; anzi la narrazione consueta è che con più di due gradi va tutto a catafascio. Per dirla con parole ancora più chiare, tutto questo non significa – o significava – che una temperatura media mondiale cresciuta di due gradi o anche di un po’ meno rispetto a quella riscontrata prima della rivoluzione industriale, avrebbe garantito un benessere generale, ma il significato era diverso: con più di due gradi, Kaputt.
Avendo dunque “rivisto” il significato dei due gradi nella preparazione del cop21 si è andati oltre: era inutile cercare un impegno generale di riduzione dei gradi e dei centigradi da accettare tutti contemporaneamente, compresa anche una riduzione scaglionata negli anni. Un impegno plurimo avrebbe finito per essere troppo rischioso, peggio ancora, inattendibile. La scelta migliore sarebbe allora un’autoriduzione. Ciascuno dei paesi presenti a Parigi e nel mondo deciderebbe autonomamente il proprio impegno, per poi farvi fronte. Il risultato sarebbe di distribuire tra tutti la responsabilità della sopravvivenza collettiva, ciascuno dovendo fare la propria parte per risolvere un problema comune e molto serio. Un impegno collettivo difficile – per non dire impossibile – da mantenere, ma in ogni caso apprezzabile, dato che ogni paese avrebbe fatto del suo meglio, a gara con se stesso più che con gli altri.
Poche settimane prima del 30 novembre, data d’inizio dell’assemblea, cade una doccia fredda. l’Unione europea fa un passo indietro. I paesi europei, a prima vista, dopo aver predicato per convincere tutti del riscaldamento di origine umana, si tirano indietro. Chiediamo un altro paio di anni fino al 2019, dicono in coro, per decidere il piano di risparmio per il 2021-2030. Di quell’astuto compromesso di partenza rimane poco. Anche i ricchissimi paesi d’Europa sembrano tirarsi indietro. Diranno loro, quando e come gli farà comodo, il proprio progetto di risparmio. Non comunque a Le Bourget.
Abbiamo suggerito quello che ci sembra il risultato principale di Cop 21, Assemblea delle nazioni unite per decidere, tutte insieme, sulle questioni ambientali e su come tirare avanti. Il semiufficiale “Le Monde” titola “Si può ancora salvare il pianeta?” il suo inserto, pieno di statistiche, ricco di pubblicità. Il pianeta, grazie a dio, è salvo per un altro miliardo di anni. Siamo noi, gli umani, a correre qualche rischio. In effetti, si è un po’ perduto il senso degli avvenimenti.
Un altro problema aperto incombe su Le Bourget. Tanto per parlare chiaro, riguarda la democrazia. Ce n’è di due tipi: quella di rappresentanza e quella di partecipazione. In un caso importante come il controllo del clima, la popolazione non si accontenta di essere rappresentata da degne persone che per lo più non ha scelto e di guardare i risultati al telegiornale. La sopravvivenza non è stata delegata a nessuno, non ai governi, non alle multinazionali, non alle accademie di scienziati. Ogni persona vuole agire, trovare modo di dire la sua, suggerire che la pace è sempre meglio della guerra, che l’acqua è un bene comune, che la salute non è in vendita, che il cibo si può distribuire in modo che basti per tutti. Un corteo, una manifestazione non è una soluzione bastevole, ma è già qualcosa, indica come minimo alcuni obiettivi da perseguire. Dice ai reggitori, muovete in quella direzione e non in quella opposta, per l’acqua, la salute, i migranti, la pace. I movimenti non piacciono ai reggitori al massimo li sopportano, lontano dal centro; e c’è sempre qualche spiegazione quando si vuole impedirli. Scrive Naomi Klein che “gli eventi ‘paralleli’ della società civile non sono semplici appendici all’evento principale: sono parte integrante del processo”. Poco prima aveva fatto notare che “Le persone comuni possono far sentire la loro voce quasi solo nelle riunioni parallele al vertice, e nelle manifestazioni che attirano l’attenzione dei mezzi d’informazione”. Irragionevole dunque la prima mossa del governo francese che “ha deciso di zittire questi megafoni, sostenendo che per garantire la sicurezza durante le manifestazioni dovrebbe trascurare la zona in cui si svolge il summit ufficiale”. (Naomi Klein, Internazionale 1130).
Il movimento ha riempito la piazza di scarpe. In segno di lutto e di corteo, certo. O non sarà per dire: una di queste volte ve le tiriamo dietro?