Redistribuire l’orario di lavoro è oggi una questione sostanziale di giustizia e benessere. Una recensione al libro di Marco Craviolatti, Ediesse edizioni
L’impressione che le politiche attuali prospettino un futuro dalle condizioni di vita meno equilibrate è attestata dall’osservazione che disoccupazione e precarietà di reddito e di vita sono la realtà immanente per gran parte dei lavoratori. Non si può certo essere ottimisti in presenza di un progresso tecnico che, invece di ridurre il carico di lavoro individuale, riduce il numero dei lavoratori occupati; di una fase storica in cui più che attendersi una crescita della produzione se ne paventa il ristagno; di un contesto in cui la piena occupazione e la tutela dei diritti dei lavoratori sono spariti dagli obiettivi della politica; di una pressione dell’ideologia neoliberista per ulteriori deregolamentazioni del rapporto di lavoro che accentuano la subordinazione dei lavoratori all’impresa. “L’effetto dei nuovi rapporti di potere è evidente. Erodendo passo dopo passo le conquiste dei lavoratori, il capitale globalizzato guarda alle condizioni della società industriale di fine Ottocento: welfare state ridotto a funzioni minimali, ruolo dello stato limitato all’ordine pubblico, contrazione dei salari fino al livello minimo di «riproducibilità» della forza lavoro, condizioni e tempi totalmente modulabili secondo le esigenze dell’impresa”. Per contrastare tale processo involutivo è necessario intervenire sulle regole del gioco e, in particolare, intervenire sulle istituzioni che regolano la distribuzione del lavoro e in particolare gli orari contrattuali; è la constatazione che porta Marco Craviolatti (Marco Craviolatti, E la borsa e la vita. Distribuire e ridurre il tempo di lavoro: orizzonte di giustizia e benessere, Roma: Ediesse, 2014, p. 303, € 14; prefazione di Stefano Fassina), a porsi il tema della redistribuzione dell’orario di lavoro in quanto, come esplicita il sottotitolo, questione fondamentale di giustizia e di benessere.
Craviolatti ricorda che l’orario legale di lavoro (le otto ore giornaliere) è una conquista del 1919, un secolo fa, e che da quella data non vi sono state altre riduzioni; anzi, le direttive dell’Unione Europea, nell’ambiguità che le contraddistingue, ne favorisce l’allungamento. Di fronte alla regressione delle condizioni dei lavoratori è giunto il momento di intervenire sugli orari e procedere a una redistribuzione del tempo di lavoro al fine di “riequilibrare la situazione attuale di chi lavora troppo e di chi lavora poco (o niente)”. Per dare un fondamento a questa prospettiva, affronta in maniera sistematica e documentata i dettagli dei possibili interventi con l’intenzione di sfatare la radicata convinzione che nulla si può fare e che nulla va fatto pena un peggioramento delle condizioni dei lavoratori. Nei capitoli centrali del libro – con la sequenza di titoli: più occupazione, più giustizia, più ricchezza, più benessere – la riduzione dell’orario di lavoro è considerata come strumento di distribuzione della domanda di lavoro; di riequilibrio dei rapporti tra capitale e lavoro ora sbilanciati a favore del primo; di stimolo allo sviluppo della produttività attraverso innovazioni tecnologiche e organizzative; di occasione per il miglioramento della qualità della vita dei lavoratori. L’analisi è puntuale e articolata, con un continuo confronto tra le tesi alternative; il corredo di informazioni è ampio e l’esposizione rifugge da affermazioni superficiali nella consapevolezza della complessità del problema per una sua concreta attuazione. L’analisi non si limita agli aspetti economici, ma dà ampio spazio alla dimensione e alle motivazioni sociali come quando, affrontando il riequilibrio di genere che ne potrebbe discendere, avverte che una mobilitazione collettiva diretta alla riorganizzazione degli orari può risultare insufficiente se non sostenuta da una forte azione culturale; considerazione tanto più importante quanto più “la riduzione degli orari di lavoro offre una risposta promettente di cambiamento: un moderato riformismo è sufficiente per avviarla ma gli esiti possono arrivare a una radicale trasformazione dei modelli di produzione e consumo”.
Per la ricchezza dei temi trattati e per come sono trattati, si tratta di una lettura proficua per chi è interessato a riflettere sull’argomento. Qui mi limito a rimarcare l’argomentazione generale di Craviolatti, ovvero che l’intervento sugli orari di lavoro non consiste, lo sottolinea Fassina nella presentazione del libro, nell’imporre dei limiti rigidi, ma nell’adottare in maniera flessibile tutti quegli interventi che permettano, nella peculiarità dei molteplici casi possibili, di conciliare tempi di lavoro e tempi di vita. Prevedere una ridefinizione flessibile degli orari non significa però che Craviolatti non ritenga opportuna una riduzione generale degli orari contrattuali; non solo dal punto di vista economico, per l’incremento occupazionale che riporterebbe una larga fetta del precariato all’interno di una regolamentazione, controllata e contrattata, ma anche dal punto di vista sociale, per la possibilità di favorire, per effetto del tempo di vita liberato, un ripensamento collettivo dei modelli dominanti di produzione e di consumo.
Nella sua analisi, non sono ignorati anche temi ostici a livello politico e sindacale, quali il reddito di cittadinanza. A questo riguardo non assume una posizione preconcetta, ma riconosce che il reddito dei lavoratori possa essere in parte costituito da salario privato (distribuito dalle imprese per aver partecipato al processo produttivo) e in parte da salario, se così posso dire, pubblico (derivante da una redistribuzione di reddito a sostegno della riduzione di orario). Craviolatti non è dunque lontano, a mio avviso, dalla considerazione di Polanyi che il capitalismo è l’unico sistema sociale della storia che assoggetta i suoi partecipanti “a prendere parte alle istituzioni economiche” per il “timore di rimanere altrimenti privi degli elementari mezzi di sussistenza”. In effetti, egli sostiene che il potere di decidere chi, quanto e come può lavorare non è questione che vada lasciata al potere asimmetrico del mercato ( e qualcuno direbbe del burocrate pubblico) e che la vita delle persone non può essere espressione esclusiva della precarietà dell’unica fonte di reddito loro disponibile nell’attuale contesto istituzionale. La redistribuzione del lavoro ha un impatto che va oltre il lavoro; essa impone forme diverse sia di redistribuzione del reddito (di mercato e non di mercato), sia di redistribuzione dei consumi (di mercato e non di mercato), da cui la consapevolezza dell’autore che interventi sull’orario di lavoro rappresenta una sfida radicale all’esistente, il cui percorso non può essere né breve né scontato.
Vi è un lampo di ottimismo nell’epilogo del libro: “la rotta è cambiata”; la redistribuzione del tempo di lavoro è una “risposta promettente di cambiamento”, una soluzione progressiva allo sviluppo di quella che ritiene la “risorsa più rara, preziosa e «democratica» che esista sulla terra: il tempo di vita”. Eppure è consapevole delle difficoltà che, nell’attuazione di un tale progetto, gioca l’ambiguità della politica europea in una fase di «grande trasformazione» in cui sta cambiando profondamente “il contesto in cui si vive, si fa economia, si lavora” (come sottolinea giustamente Stefano Fassina nella prefazione). Vi è infatti l’esplicita affermazione che l’Europa delle grandi realizzazioni di progresso civile del passato ha ora “la disgrazia … facilmente identificabile” di adottare contro di sé “politiche neoliberiste che perseguono metodicamente l’annullamento di qualsiasi «differenza europea»” attraverso lo smantellamento dello stato sociale e lo svuotamento della democrazia sostanziale.
Sostenere che il neoliberismo non sia un “blocco di interessi e colture” monolitico e che pertanto sia possibile modificare la sue politiche sembra peraltro sottovalutare che la cultura egemone di supporto ai rapporti di potere esistenti è, nel concreto, un “blocco” che domina il pensiero sociale e politico. Un’egemonia culturale evidenziata nel libro quando riporta l’icastica affermazione polettiana (non casualmente Ministro del lavoro di questo governo-Renzi): “Dobbiamo cominciare a pensare che l’impresa è un bene della collettività e che il 1° Maggio sarebbe giusto celebrare la Festa del lavoro e dell’impresa”. Non è solo, sottolinea Craviolatti, un problema di lessico che ha trasformato il lavoratore in lavoro, la persona con le sue esigenze, dignità e diritti in un mero oggetto del processo produttivo; è l’espressione di un processo di costruzione del senso comune e la necessità di sovvertire i riflessi profondi della cultura dominante su questo terreno non appare tra i compiti più semplici che deve affrontare una proposta di riduzione degli orari e di redistribuzione del lavoro.
Sebbene Craviolatti si schermisca di non avere la presunzione di “indicare priorità politiche e articolare proposte operative”, egli propone una “mobilitazione di intelligenze collettive e plurali” richiamando alle loro responsabilità tutti gli attori sociali – indicati nei movimenti, sindacati e partiti – per fornire uno spazio culturale e politico ad un “progetto riformista comune” non difensivo, ma “capace di appassionare e di attivare le competenze e le energie di tante persone oggi isolate o sfiduciate”. E qui si evidenzia il nodo della questione qualora si abbia presente la difficoltà che questi soggetti, in quanto corpi intermedi, incontrano attualmente con il disconoscimento del loro ruolo di interlocutori e tramiti sociali. In un contesto in cui l’attore pubblico si nega, materialmente e culturalmente, a porsi obiettivi di tale spessore, chiedere ai soggetti sociali di considerare nelle loro visoni strategiche le politiche di redistribuzione del tempo di lavoro come parte significativa di una più generale politica per il lavoro, è una sfida alla loro stessa identità e la richiesta di un coinvolgimento in un riformismo essenziale e, per questo, radicale.