La deregolamentazione della finanza, gli squilibri generati dal commercio internazionale, l’incubo della disoccupazione. Una riflessione a partire dal libro “Contro gli incappucciati della finanza” che raccoglie gli scritti di Federico Caffè, nel decennio tra i Settanta e gli Ottanta, per Il Messaggero di Roma e L’Ora di Palermo
Ci sono situazioni nelle quali le cose che vediamo, che ascoltiamo, che leggiamo non appaiono collegarsi a un momento storico preciso, ma richiamano contemporaneamente eventi del passato, situazioni del presente e immagini del futuro. Un tale spaesamento mi ha colto nel leggere gli articoli di Federico Caffè scritti, nel decennio a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, per il Messaggero di Roma e per L’Ora/Economia di Palermo e ora riprodotti nel libro curato da Giuseppe Amari con la consueta competenza (anche in questo suo ulteriore libro su Caffè) e con la partecipata dedizione quale emerge dalla sua prefazione. Gli articoli sui due quotidiani sono introdotti, quelli del Messaggero, da Corrado Giustiniani e, quelli dell’Ora/Economia, da Alberto Spampinato che, ricordando il loro rapporto redazionale con Caffè, ne sottolineano la personalità umana e intellettuale; completano l’opera due postfazioni, la prima di Paolo Leon e la seconda della nipote Giovanna Leone, nelle quali si racconta, dal punto di vista universitario il primo e di quello famigliare la seconda, la ricchezza di rapporti umani che Caffè sapeva intrecciare nei diversi ambienti frequentati.
La prefazione di Amari è dedicata al “consigliere del cittadino, l’economista della Costituzione”; due riferimenti politicamente significativi in questi tempi nei quali ai cittadini è negata un’adeguata informazione che li possa orientare nel loro futuro e gli economisti (quelli cui viene data voce) non hanno per bussola la Costituzione. Se, come sottolinea Amari, per un quarantennio Caffè «non ha fatto mai mancare la sua voce serena, ma ferma, nel proporre una linea politica economica e sociale, potenzialmente alternativa a quella praticata dai vari governi, sollecita alle esigenze dei più deboli e promotrice di più avanzati livelli di civiltà e di partecipata democrazia», la rilettura di questi suoi scritti ha indubbio interesse, soprattutto se si tiene conto che essi appaiono in quell’arco di tempo ristretto – un decennio – tra l’esaurirsi dell’“età dell’oro” keynesiana e l’avvio del monetarismo politico che si consoliderà nel neoliberismo oggi ben noto.
«Può darsi che, con il procedere del tempo, sia la vita stessa ad assumere configurazioni ripetitive e a ingenerare una certa monotonia. Ma, di certo, si rimane necessariamente colpiti dal ripetersi di determinate vicende, nel quadro della politica economica italiana». È un’osservazione che stimola a comprendere come dai tanti specifici argomenti affrontati nei suoi articoli derivi la sua amara annotazione sul continuo riproporsi di situazioni già vissute e a comprendere la trama di un ragionamento che, pur riflettendo sul contingente, si appoggia su pilastri interpretativi in grado di far luce sulla “ripetitività” della politica economica italiana. Non è possibile in questa sede dar conto di tutta la complessità delle suggestioni presenti in queste pagine, ma credo sia utile ripercorrere i punti che, a mio giudizio, strutturano l’analisi di Caffè e che appaiono in tutta la loro nitidezza anche in questi colloqui con il grande pubblico.
Regolamentare la finanza
L’aspetto più ricorrente – tanto da apparire nello stesso titolo della raccolta – è la critica alle modalità con le quali si intende modificare le istituzioni finanziarie del nostro paese privilegiando lo sviluppo di una Borsa che, insufficientemente trasparente, rischia di generare una sistematica discriminazione nei confronti dei piccoli risparmiatori. Il risparmio dei meno abbienti non è uguale a quello dei ricchi e pertanto si dovrebbero prevedere forme adeguate di protezione dei primi per non renderli succubi alle “spregiudicate manovre di prestigiatori interni e internazionali”, dei troppi “incappucciati” che circolano su quel mercato. Il pericolo che l’obiettivo dei poteri finanziari di “ottenere capitale di rischio, senza rischio” si traduca in rilevanti trasferimenti di ricchezza dagli operatori sprovveduti a quelli furbi, è alla base dell’avversione di Caffè all’introduzione “spontaneistica” dei fondi comuni di investimento ai quali delegare l’amministrazione del risparmio dei lavoratori. In un momento storico di «caccia al risparmio» deplora che si stiano dimenticando quelle ragionevoli prescrizioni, «non conformi all’andazzo della deregolamentazione», che presuppongono forme di controllo e di coordinamento nei confronti di «folcloristiche forme di intermediazione finanziaria che non rispondono né ai principi di efficienza, né a ragioni di equità». Le carenze del nostro sistema finanziario non vanno sanate «importando le iniziative dei grandi biscazzieri internazionali: come è incontestabilmente avvenuto in passato e come potrà avvenire in futuro»; non è attraverso l’importazione di «modellini esteri» che si garantisce la trasparenza del mercato azionario, ma con forme di controllo e di coordinamento che impediscano che «i giochi del capitalismo finanziario» contrastino con le esigenze dell’economia reale.
Come si può ben vedere intorno al tema della finanza si intreccia una pluralità di nodi. Il riferimento a forme adeguate di regolamentazione lo contrappone al pensiero del momento intento a glorificare la “deregulation”. La convinzione che i rimedi risiedano nella liberalizzazione dei mercati ha «la “freschezza” del volto e della capigliatura di Reagan» ed è sostenuta dalla forza dell’imitazione di fare quello che fanno gli altri «indipendentemente dai retaggi storici e da forme di arretramento civile (sofisticazioni, evasioni, esportazioni illegali di valori), la cui eliminazione costituisce un presupposto e non la conseguenza delle leggi che “liberalizzano”». La deregolamentazione non è in grado di risolvere i problemi finanziari della nostra economia (le scandalose esportazioni illegali di capitale, ad esempio) per i quali il riferimento alla “libertà” è foriero di «estrose stravaganze intellettuali». È istruttivo il riferimento alla valutazione di Greenspan che l’“eccesso” di regolamentazione dell’attività imprenditoriale dovuto all’“aumentata preoccupazione per la salute e per l’ambiente” aumenta il rischio degli investimenti; per Caffè è una considerazione che, comprovando come le preoccupazioni “ecologiche” diano fastidio alle libertà imprenditoriali, conferma «l’antica constatazione secondo la quale “il capitalismo è un sistema di costi sociali non pagati”» per cui ammonisce di tenerla ben presente in modo che «l’odierna riscoperta del “mercato” sia qualificata con qualche più precisa indicazione del genere di mercato che si ha in mente». D’altra parte, di fronte alla critica delle politiche di intervento per le “esternalità derivate” che esse provocano, egli osserva che analoghe esternalità si verificano anche quando ci si affidi allo spontaneismo di mercato. In definitiva, la deregolamentazione finanziaria gli appare «una pomposa copertura dei rapporti, non già di collaborazione, bensì di una onerosa dipendenza dall’estero» che, propagandata come strumento per favorire la concorrenza, asseconda il rafforzamento della struttura oligopolistica dei mercati internazionali: «si prospetta come “concorrenziale” quella che è una mera lotta oligopolistica che, sul piano interno come su quello internazionale, si risolve nelle vecchia regola di avvantaggiare chi ha e di “emarginare” chi non ha». Di fronte a un mondo di oligopoli, di imprese multinazionali, « è soltanto una deformazione di tipo ideologico, che può indurre a credere che l’economia aperta, nelle condizioni odierne, possa implicare l’assenza di controlli, di salvaguardia, di temporanei arretramenti».
Il contesto internazionale
Il campo delle riflessioni risulta così allargato al contesto internazionale. Il suo realismo lo porta a sottolineare come le relazioni commerciali e finanziarie mondiali si siano sviluppate in maniera «estremamente squilibrate» in quanto la politica economica degli Stati Uniti si è preoccupata di risolvere gli equilibri interni senza preoccuparsi se ciò avrebbe aggravato quelli degli altri paesi. È conseguente il monito che «in una società di ineguali, in cui gli scambi internazionali non possono non riflettere le situazioni di squilibrio in essere e contribuire anche ad aggravarle» si deve tener conto che il commercio mondiale non è sempre veicolo di sviluppo e che vanno quindi attentamente valutati i riflessi che esso può avere sugli squilibri dell’economia mondiale. Considera un’autoillusione pensare «che le forme di collaborazione esistenti tra paesi a economia più o meno di mercato non comportino rapporti di dominazione, assoggettamento a posizioni egemoniche, tendenze involutive miranti a trasformare una ideale cooperazione tra uguali in un concreto assoggettamento a regole imposte, talvolta con pesante brutalità, da un ristretto direttorio di potenti». Per questo l’accettare di adattarsi «alle combinazioni più deteriori del capitalismo finanziario internazionale è tecnicamente discutibile e socialmente inaccettabile»; da qui l’invito pressante di «dar maggiore peso ad una “sorveglianza” di cui i pubblici poteri dovrebbero farsi carico tempestivamente, per non rischiare di dover intervenire troppo tardi e in modo inefficace» poiché è dallo «sforzo costruttivo di cooperazione», piuttosto che dallo sviluppo spontaneo degli scambi, che si possono correggere squilibri e sperequazioni. La questione è così mirabilmente sintetizzata: «si tratta di stabilire se il nostro paese “ritardatario” debba proporsi e perseguire ideali amministrativi di bonifica ambientale, di eliminazione del persistente sfasciume geologico, di elevazione del grado di qualificazione professionale dei giovani in cerca di lavoro, di ricerca impegnata di nuove possibilità di impiego; o se intenda essere la pedina di altrui imperialismi, svolgendo inoltre questo ruolo di sovranità limitata con la ben nota “cupidigia di servilismo” di cui già altra volta gli è stato mosso addebito.»
L’espressione “cupidigia di servilismo”, coniata da Vittorio Emanuele Orlando, indica l’accettazione rassegnata nei confronti degli Stati Uniti, ma anche di quei paesi europei «persistentemente e arrogantemente eccedentari». «Al di là della retorica delle parole e dei messaggi, il futuro europeo, come configurato dalla prevaricante ed economicamente obsoleta visione teutonica, non corrisponde agli ideali che mossero la costruzione comunitaria» (Samuelson: «la stabilità monetaria della Germania è di quelle che strangolano e non di quelle sulle quali può edificarsi una solida economia mondiale»). Gli organi di informazione della pubblica opinione hanno la responsabilità di accreditare una «visione deformata (e retorica) dell’”economia aperta”, come se questa non comportasse impegni verso l’economia interna del paese, oltre che verso la comunità internazionale». La politica economica nazionale dovrebbe liberarsi dai complessi che le impediscono di contrattare deroghe agli accordi internazionali, poiché dovrebbe essere chiaro che sono i «concetti ideologici a precluderne l’impiego» dato che, notoriamente, negli accordi internazionali ogni clausola prevede una possibile deroga. «Che poi tali preconcetti siano condivisi a volte dalle forze politiche “progressiste” rientra tra i misteri di questo nostro, tutto sommato, ben strano Paese».
Caffè critica la tentazione di avvalersi dell’Europa come alibi per l’inazione e richiama sistematicamente l’attenzione sugli obiettivi interni non per un «particolarismo isolazionista», ma nella consapevolezza che la «soluzione dei nostri problemi interni, economici e sociali, non può costituire il sottoprodotto delle “aperture esterne”»; non è accettabile il criterio di politica economica per cui l’equilibrio esterno va ripristinato “costi quel che costi” (Stigler: «viviamo in un mondo che è pieno di politiche erronee, ma che esse non sono erronee per coloro che le sostengono»). Propone di non fare affidamento su «l’abusato appello alle “locomotive”» e sostiene invece «una politica di “rilancio economico bilanciato”» risultante dall’azione reflazionista di un congruo numero di paesi, a livello anche semplicemente comunitario. È una sollecitazione tanto pressante quanto preoccupata per i processi deflazionistici in atto ritenuti «fondamentalmente antisociali, né in alcun modo curativi delle cause di fondo» e generatori dell’acuirsi del conflitto sociale. Critica veementemente il dominante “punto di vista del Tesoro” che, nonostante le sue incongruenze logiche, rivive «insieme alle svastiche e all’antisemitismo (che ne furono conseguenze indirette)» nella variante terminologica dell’osservanza delle compatibilità; è una visione di politica economica che esprime «l’inclinazione a restringere, strangolare, limitare come premessa per il risanamento economico» per cui insiste nel denunciare l’insussistenza del mito della deflazione risanatrice». Con pena rileva che il «risparmio forzoso che, con durezza e cinismo, viene estratto dalle fasce meno abbienti dei cittadini, potrebbe pur costituire un temporaneo e valido sacrificio, ove contribuisse almeno al miglioramento della vita civile del paese. Ma quel che sta avvenendo negli ultimi tempi, in termini di ottusità repressiva, ha dell’allucinante».
L’aspetto che gli appare più inammissibile è la rilevanza che i responsabili della politica economica attribuiscono ai problemi finanziari, al rispetto di rigorose politiche monetarie, alle responsabilità per la riduzione dei disavanzi pubblici di fronte a una indifferenza «nei confronti della frustrazione umana della mancanza di occasioni di lavoro» i cui «possibili miglioramenti vengono affidati più in evoluzioni demografiche che a disegni organici di interventi». Denuncia l’assenza di una «ovvia scala di valori che ponga la mancata occupazione per lo meno allo stesso livello del mancato rimborso di un prestito internazionale», per cui di fronte a politiche che mirano a espandere le esportazioni attraverso l’abbassamento del costo del lavoro afferma che «una ripresa congiunturale senza minore disoccupazione è una mera indicazione statistica priva di ogni valido interesse sociale». Una valutazione condivisa in maniera diffusa, tanto da fargli interpretare il risultato delle elezioni come «un’implicita protesta rispetto all’assoggettamento del nostro paese a posizioni esterne, cioè alle posizioni dominanti».
L’obiettivo dell’occupazione
Si arriva così al “cuore” della questione, al punto di vista che orienta la sua visione della politica economica: «l’unico livello di guardia [da non superare e] di cui occorrerebbe farsi carico è quello della disoccupazione» e in vista di questo obiettivo ripropone l’obbligo dello Stato di farsi «“datore di lavoro di ultima istanza” offrendo la possibilità di impiego nella vasta area dei servizi educativi e sociali a chiunque lo desideri». Il lavoro è l’obiettivo principe della politica economica poiché «non vi è dissipazione peggiore, per un sistema economico, che lo sperpero delle capacità lavorative umane già disponibili, o da creare con l’apprendimento e la preparazione». Non si tratta di populismo assistenzialistico, ma del compito «di tradurre in termini operativi una linea di pensiero consapevole dei fallimenti del mercato e ispirata al principio che “lo spirito pubblico, guidato dalla conoscenza, può essere l’artefice del miglioramento sociale”». Alla «saggezza convenzionale, che affida la soluzione dei problemi della disoccupazione a una frustrante attesa, occorre contrapporre un impegno né utopistico, né velleitario, ma realistico per ridare all’occupazione il suo carattere di obiettivo prioritario».
Assolvere efficacemente questo compito è «condizione stessa non della sopravvivenza del sistema economico, ma della sopravvivenza di un assetto democratico» sapendo che, come a utamente rileva Paolo Leon nella sua postfazione, giustizia e democrazia sono il frutto di un lavoro costante e concreto per realizzare quelle riforme capaci di affrancare gli individui dall’insicurezza derivante da avvenimenti di cui non hanno diretta responsabilità. La politica economica «è problema morale, oltre che tecnico. Che il Paese abbia bisogno di giustizia, oltre che di pane» è una conclusione evidente e sarebbe bene che «i politici seguano la loro intuizione di questa esigenza di giustizia del Paese e che, pur utilizzando i tecnocrati, comprendano che la sintesi che essi debbono realizzare sorpassa i loro suggerimenti». La richiesta di una politica non subordinata alla tecnocrazia è ribadita con forza dato che il “sentimento profondo di socialità: l’ansia per le attese della povera gente; il rigore di una missione che preferisce la rinuncia alle compromissioni; non sono cose il cui significato ideale possa agevolmente essere fatto comprendere agli odierni tecnocrati», così convinti che alle loro analisi e alle loro ricette vadano subordinati i problemi della “povera gente”.
D’altra parte, non basta «la consueta litania» di buoni proponimenti perché i responsabili della politica economica godano della credibilità necessaria a un valido governo dell’economia. E tanto meno basarsi nelle loro decisioni sull’“allarmismo economico”, diventato «strumento di lotta politica», o affermare che non vi sia scelta «per uscire dalla crisi, se non nell’accordo tra le varie forze politiche» senza tener conto che ciò non implica necessariamente che «debba tradursi in una mancanza di qualsiasi orientamento coerente nella politica economica» Se «le opinioni diverse da quelle ufficiali [sono] ignorate e screditate, anziché discusse», se viene sottovalutata l’intelligenza dei cittadini mascherando «un ormai logoro gioco dei potenti con le nebbie fumogene della rissa ideologica» non è possibile edificare su queste delusioni e attese insoddisfatte il consenso che pure è fattore indispensabile di governo dell’economia. Siccome, «come si è autorevolmente insegnato “anche la ragione costituisce una scelta”, l’esito non si impone per necessità, «ma richiede un consapevole, deliberato e volenteroso impegno». Tuttavia duole a Caffè «l’avallo che provvedimenti e propositi spericolati ricevono da parte delle forze politicamente avanzate»: «Che si tratti di opportunismo o di scarsa consapevolezza critica, è un problema aperto. Ciò non toglie, nell’uno e nell’altro caso, che ne derivi una sensazione di disorientamento che ingenera profonda malinconia».
La sua convinzione profonda è che «vi è sempre stata nel nostro paese una politica economica potenziale, che avrebbe potuto essere realizzata, verosimilmente con maggior vantaggio per la collettività, alla luce delle conferme ricevute»; il suo rammarico è che non sia riuscita ad assumere un significato politico per «la mancata comprensione, il mancato appoggio di forze politiche anche minoritarie», con la conseguente emarginazione delle sue «indicazioni rimaste semplici testimonianze di un pensiero non conformista». Ne deriva la sollecitazione «agli economisti di esaminare la gamma di possibilità future, indipendentemente da una immediata adesione dei politici»; a non derivare dalle critiche un complesso di inferiorità culturale, ma di «reagire a queste inclinazioni, riaffermando il pluralismo delle culture e, sul piano pratico, la gamma differenziata delle soluzioni possibili». Solo così pensa sia possibile fornire «un contributo non trascurabile alla sopravvivenza di una democrazia non asservita a potenti e pressanti interessi sezionali».
Nella riesposizione del pensiero che Caffè ci trasmette con questi scritti ho fatto ampio uso di virgolettati; ma mi è sembrato necessario – e mi auguro anche per il lettore di queste righe – per dare concretezza con i riferimenti diretti all’autore di quello spaesamento che ho accennato all’inizio. Nei singoli scritti vi è un continuo intreccio tra l’interpretazione degli eventi contingenti con esperienze della prima Ricostruzione e con uno sguardo preoccupato nei confronti di un futuro di cui solo ora abbiamo piena cognizione. L’interesse per una loro lettura sta proprio in questa capacità di Caffè di interpretare i connotati di fondo delle nostre difficoltà interne e internazionali; difficoltà non interamente percepite dalle forze politiche e intellettuali del suo tempo le quali, centrate sulla “specificità” della crisi italiana, non vedevano come i Chicago Boys stessero diffondendo i semi di quella che diventerà la visione neoliberista globalizzante. In queste scritti vi è il dramma di Caffè nell’avvertire il pericolo di uno strutturarsi della realtà in senso autoritario-conservatore insensibile ai costi che ne possono derivare agli strati più deboli della società; non si tratta di tormenti di un’anima compassionevole di fronte alla dura realtà economica, ma di preveggenza che sarà ampiamente dimostrata dal consolidarsi di un potere economico e politico che, dotato di una maggiore potenza di imposizione (e drammaticamente anche di consenso), si contrapporrà con arroganza alla Costituzione prospettando una società e una civiltà del tutto ad essa antagonista.
Amari G. (a cura di), Caffè F., Contro gli incappucciati della finanza. Tutti gli scritti: il Messaggero 1974-1986; L’ora 1983-1987, Roma: Castelvecchi, 2013.