L’insensata rincorsa al petrolio e al gas del nuovo piano energetico nazionale che toglie il sostegno pubblico alle rinnovabili e concede licenze facili alle trivelle su mare e terra
Nel mondo civilizzato si segnala ovunque la necessità di prevenire eventi meteorologici estremi e di breve durata, sempre più frequenti a causa del cambiamento climatico già in corso. Allerta e prevenzione riguardano atteggiamenti razionali, assumibili responsabilmente dalla collettività senza cedere all’angoscia o alla paura. Da un atteggiamento responsabile discendono priorità, posti di lavoro, indirizzi di utilizzo della spesa, financo la lotta alla corruzione e le linee di una innovativa politica industriale.
Continuo a pensare a quanto sia irreale il dibattito sulla crisi politica in corso e a quante balle scorrano nei programmi del governo, nella Strategia Energetica Nazionale (Sen) uscita dal cappello di ministri già con le valige in mano, nelle assicurazioni che Enel ed Eni danno sulla riduzione delle emissioni climalteranti. Secondo l’Associazione Americana per l’Avanzamento della Scienza, nel 2012, il riscaldamento globale ha spinto significativa erosione e inondazioni nell’86 per cento dei 226 villaggi Inuit in Alaska. Diverse isole del Sud Pacifico sono già scomparse a causa del livello del mare attribuiti al riscaldamento globale. Altre nazioni insulari minacciate, come le Maldive nell’Oceano Indiano e Tuvalu nel Pacifico, stanno facendo piani per trasferire le loro popolazioni.
Tutto questo ci appare lontano: ma ne siamo sicuri? Oltre 11 eventi critici solo dal 2009 fino ad oggi hanno colpito l’Italia, ad iniziare dal nubifragio di Giampilieri, dalla distruzione delle Cinque Terre nell’ottobre 2011, di quartieri interi di Genova nel novembre 2011; fino agli ultimi nubifragi del 2012 che hanno devastato la Toscana e Catania (21 febbraio 2013) e alla tromba d’aria di inizio maggio in Emilia . Il bilancio è pesantissimo: oltre 70 morti. La verità è che senza prevenzione non si va da nessuna parte. Eppure, ci sono meteorologi, idrologi, geologi, i “protettori civili”, i comunicatori del rischio, gli amministratori (prefetti, sindaci…). Si fa un gran parlare della rete, quasi sostitutiva di ogni nostra relazione, ma dove è la connessione strutturata tra i livelli di ricerca, di progettazione, di previsione, di allerta, di esecuzione, di riparazione in caso di alluvione o tromba d’aria, dato che ormai 500 mm di pioggia in 3 ore ed un vortice squassante sono realtà possibili alle nostre latitudini? Avete mai sentito parlare di piani di emergenza noti e gestibili dai cittadini nelle zone più esposte? Eppure esiste una norma europea, la Direttiva 2007/60 sulle alluvioni che obbliga i vari paesi a definire le aree a rischio di inondazione e a proporre soluzioni e strategie di mitigazione dei rischi ed i paesi che non rispondono nei tempi stabiliti a queste norme potrebbero essere sanzionati dalla Commissione europea. È il caso di pensare a forme di comunicazione all’altezza dei problemi che invece si vogliono nascondere, a rubriche obiettive sui quotidiani e i media e, ancora, ad un rafforzamento dei social network tematici, che avvicinano le persone alle istituzioni. Parliamone con serenità e con pacatezza, ma un mondo in cambiamento non si affronta con le ricette, le convinzioni, le informazioni del passato con un po’ di moralismo a buon mercato.
È irritante pensare che sia stata varata la nuova Strategia Energetica Nazionale con una insensata rincorsa al petrolio e al gas, ed un ammiccamento al passato, in combutta con le grandi corporation che si concentrano ancor di più su ardite perforazioni marine e imprevisti oleodotti. Ma tanto, nella crisi, perché intestardirsi sul futuro del pianeta, sulla giustizia sociale e non lasciare all’1% rapace di cui discute Paul Krugman in ogni suo articolo la possibilità di arricchirsi vivendo sui jet, sugli yacht, nelle ville blindate, lontano dagli abitanti del mondo?
Quest’anno la Giornata della Terra (22 aprile) ha coinciso, almeno nel nord dell’Italia, con le fioriture in grave ritardo degli alberi, richiamando l’attenzione della gente comune sul fatto che, per stare meglio e godere della vita, occorre tener conto del rapporto tra l’evoluzione del clima e i nostri comportamenti in difesa o disprezzo di terra, aria ed acqua. È la stessa Agenzia Internazionale per l’Energia (Aie) ad affermare che “nel 2012, pur con una debole economia mondiale ed il prezzo del petrolio alle stelle, le emissioni di anidride carbonica hanno raggiunto livelli record. Il modo in cui produciamo ed utilizziamo l’energia minacciano la nostra sicurezza, la salute, la prosperità economica e l’ambiente” [Tracking Clean Energy Progress 2013]. Nonostante i fiumi di parole su tutto, tranne che su questo aspetto rilevante, l’attuale governo, così improbabile nei suoi propositi, si è dimenticato che gli investimenti in energie pulite sono ormai economicamente convenienti (“da oggi al 2050, ogni dollaro investito in più nelle rinnovabili può generare un risparmio di combustibile pari a tre dollari“, Energy Technology Perspectives 2012), che la crescita delle vendite di vetture ibride ed elettriche ha raggiunto quota 1,2 milioni (+43% nel 2012 – ditelo a Marchionne) o che nelle smart grid, sono stati investiti all’estero 13,9 miliardi dollari nel 2012, con un ritorno in efficienza valutato in 17 miliardi in 4 anni.
Enel, Eni e le multiutilities come A2A insistono su un futuro di gas e “carbone pulito” perché contano su una discesa del prezzo dei fossili, ma non si accorgono che la spinta allo sviluppo delle rinnovabili, che loro si sforzano di ostacolare, mette nell’angolo questi impianti, lasciando, al massimo, spazio solo alla flessibilità fornita da pochi (non tutti quelli in costruzione!) cicli combinati a gas.
È proprio l’influente lobby d’affari del carbone che ha convinto una settimana fa (il 16 aprile) il Parlamento europeo a votare per rifiutare la proposta della Commissione di rilanciare il sistema di scambio di emissioni (Ets), in modo da far pagare chi inquina, bloccando sul mercato i certificati a bassissimo prezzo disponibili nei prossimi anni. I certificati di emissione di anidride carbonica possono essere scambiati, con un pagamento da parte degli inquinatori in eccesso e, al contrario, un risarcimento monetario di chi riduce le emissioni. Dal lancio del sistema nel 2005, il prezzo per tonnellata è passato da 30 euro a meno di 5, e chiaramente questo ribasso non spinge gli industriali a investire per ridurre le emissioni. Congelando una parte dei “permessi per inquinare”, la Commissione sperava di far risalire il prezzo delle quote fino a 10-12 euro. Ma dopo il rifiuto del Parlamento e la riapertura dell’asta per ulteriori quote di emissione di CO2, il prezzo per tonnellata di gas serra è crollato. Si è così attenuata l’arma principale dell’Ue nella lotta contro il riscaldamento globale, costituita dall’obiettivo di una effettiva riduzione almeno del 20% delle emissioni di gas serra da conseguirsi anche con forme marcate di incentivo-disincentivo. Obiettivo oggi vergognosamente monetizzabile con due soldi, in base alla decisione dell’europarlamento, approvata di stretta misura (334 contro, 315 favorevoli e 63 astenuti), ma con il plauso di Confindustria. Gli europarlamentari italiani hanno anche a Strasburgo formato una “larga intesa” – questa volta a favore degli inquinatori – costituita da Pdl, Lega, Montiani e parte del Pd. Analizzando l’episodio e rimarcandone le valenze, è triste dover osservare come l’abitudine a declinare la rappresentanza e le aspettative dei propri elettori non sia malcostume rilevabile solo in dimensione nazionale: se la democrazia progressivamente si eclissa e gli interessi si rendono visibili solo agli eletti e rimangono invisibili agli elettori e all’opinione pubblica, destra e sinistra perdono la loro indispensabile identità – differenza.
Talvolta, temo di esagerare nell’utilizzare l’energia come lente prevalente nell’analizzare i comportamenti politici e sociali: devo però dire che la sua rilevanza e la trasversalità con cui si manifesta in ogni punto del governo dei comportamenti individuali e collettivi mi offre un punto di vista perlomeno originale e fortemente interdisciplinare. Ricevo in queste settimane segnalazioni allarmate di comitati locali che si costituiscono sui territori in ogni parte d’Italia contro il proliferare di richieste di trivellazioni per giacimenti di petrolio e gas. Ma, ci siamo chiesti da quali interessi venga questa frenesia di ritorno ai fossili, inaspettata e un po’ “vintage”, che ha preso i nostri governanti?
In pratica, con la nuova Sen viene tolto il sostegno pubblico (dei consumatori) alle rinnovabili per darlo alla costruzione dei rigassificatori e concedere licenze facili alle trivelle su mare e su terra, togliendo l’ultima parola alle autonomie locali. Sussidi inaspettati e pagati dai cittadini, che si andrebbero ad aggiungere – senza scandalo questa volta dei censori del fotovoltaico incentivato – alle centinaia di milioni che vengono reperite in bolletta e distribuite ogni anno alle cosiddette “fonti energetiche assimilate” Cip 6, alle centrali a olio combustibile dell’Enel e per la dismissione ormai trentennale del nucleare. Insomma, un’ulteriore regalia alle lobby fossili, per cui viene mantenuta stabile la quota di carbone. Una strategia, in definitiva, non certo di de-carbonizzazione, bensì per contrastare l’impetuosa crescita delle fonti di energia pulita in un sistema che punterà, secondo gli estensori della Sen, ad essere caratterizzato da uno “sviluppo sostenibile della produzione nazionale di idrocarburi” e a far diventare l’Italia “il principale hub sud-europeo del gas”.
E, allora, via con le trivelle: off shore nel Canale di Sicilia (pur contrastate dalla giunta Crocetta) e in Adriatico ad Ombrina Mare, dove si è svolta una manifestazione sabato 13 aprile, e un proliferare di richieste su terraferma, a partire dalla Lombardia, in un silenzio che è necessario far deflagrare.
Ma, oltre a queste palesi infrazioni della salvaguardia dell’ambiente e del clima, questo governo non ci rassicura affatto per quanto riguarda la copertura alle lobby che hanno regnato incontrastate negli ultimi decenni. Oltre alla coppia di vertice – Letta e Alfano – da sempre sensibile alle strategie dei potentati raccolti attorno ad Eni, Enel, Federelettrica, alle velleità delle “multiutilities” che inseguono in borsa una loro nuova missione e al rilancio improbabile di quel che resta del settore elettronucleare, molti sono i ministri che hanno un passato negazionista riguardo al clima e che al referendum avevano scelto l’atomo. Né ci tranquillizza la disattenzione alla messa in sicurezza delle scorie nucleari. A riprova di questo pericolo, negli ultimi giorni sono usciti una serie di articoli sulla stampa (Repubblica e il Sole 24 ore del 17 aprile) che incensano l’opera della Sogin, la società di Stato incaricata della bonifica ambientale dei siti nucleari italiani e della gestione e messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi prodotti dalle centrali nucleari dismesse, impegnata in quella che viene definita la “più grande opera di bonifica della storia italiana”, cioè quella dei siti nucleari.
Innanzi tutto sono stati presentati senza nessun commento i dati della Sogin sull’incremento delle attività di smantellamento che negli ultimi 2 anni ha raggiunto, secondo i due quotidiani un tasso del 23%. Nessuno però fa notare che nel corso di 10 anni la Sogin ha accumulato ritardi nei lavori che sono arrivati fino al 170%, che i costi preventivati sono più che raddoppiati e che l’incremento di attività degli ultimi anni è un dato “drogato” perché è dovuto all’impegno sullo smantellamento delle strutture civili, mentre la parte nucleare è ancora al palo.
Ma la cosa interessante sono le cifre date in pasto alla pubblica opinione: un costo complessivo della bonifica (smantellamento impianti + costruzione deposito nazionale) di 6,5 miliardi di euro con la creazione di 12.000 posti di lavoro! La cifra prevista dei lavoratori è, più o meno, dello stesso ordine di grandezza di tutti gli addetti dell’industria nucleare italiana nel periodo di massima attività in questo settore nel nostro Paese. Delle due l’una: o c’è una voluta sovrastima dei posti di lavoro preventivati oppure ci si prepara a rendere ancora più ipertrofica la struttura Sogin e collegati. Facciamo un po’ di conti: il piano complessivo di bonifica a vita intera del 2008 prevedeva una spesa totale – riportata alla moneta 2010 – pari a 5.442 milioni di euro: rispetto a essa le previsioni più recenti mostrano, dunque, un aumento del 23 per cento. A loro volta le previsioni del piano 2008 presentavano un incremento del 15 per cento rispetto a quelle del piano 2006, che, sempre rivalutate alla moneta 2010, erano pari a 4.727 milioni di euro. Complessivamente, l’aumento delle stime dei costi dal 2006, a moneta costante, è stato del 42 per cento. Le analoghe previsioni dei programmi Sogin 2001 e 2004, anche queste riportate alla moneta 2010, erano rispettivamente pari a 3.796 milioni di euro e 4.483 milioni di euro (fonte Commissione parlamentare sui rifiuti, 19 dicembre 2012). Il dato di 12.000 addetti è quindi coerente solo se ci si prepara a un’ulteriore dilazione dei tempi e a un’ulteriore incremento dei costi (raddoppio? Forse di più!).
Una “spending review” in una fase di crisi così profonda non dovrebbe riguardare – come è stato chiesto in conferenza stampa l’11 aprile dal Comitato Nazionale Si alle rinnovabili No al nucleare – anche le situazioni come questa, dove il potere politico si è alternato spesso a discapito della competenza e il benessere dei cittadini non è proprio stato sempre in cima alle intenzioni?