Enrico Letta riparla di crescita, ma l’emergenza è il lavoro: 2 milioni 744 mila in cerca di occupazione, 605 mila sottoccupati. La soluzione è in nuova domanda e spesa pubblica
Ora che un governo in carica c’è, addirittura con un premier del PD (ancorché tenuto in vita dal Signore di Arcore), ora che anche a Bruxelles i toni si sono fatti più morbidi, forse anche a causa delle critiche montanti agli ideologi dell’austerity provocate, tra l’altro, da inaudite quisquilie tra economisti (anche negli empirei dell’Accademia a volte si affermano patacche), nel panorama della politica si è finalmente tornato a parlare di economia, e la paroletta magica è riapparsa subito nelle prime dichiarazioni del neo Presidente del Consiglio “dobbiamo ravvivare la crescita“. È dunque finalmente l’occasione buona per rilanciare una sana politica keynesiana oppure dovremo continuare ad averne paura? Ecco un’altra idea “scarafaggio” – secondo la definizione di Paul Krugman – di cui dovremmo liberarci: il bagarozzo della crescita.
Anni di liberismo ci hanno offuscato gli occhi, ma le idee sbagliate restano tali e dovremo continuare a combatterle, ridando dignità alle politiche keynesiane che il liberismo ci ha fatto ripudiare come fossero eresie. Perché è così difficile oggi dirsi keynesiani (non solo in Italia)? A voler essere scolastici, le ragioni sono ideologiche e possono ricondursi ai principi di economia che si studiano nei corsi introduttivi (è vero, non tutti hanno studiato economia, o i loro insegnanti non sono stati particolarmente acuti, ma allora che non si occupino di cose economiche!). È vero che l’ideologia, come disse Karl Marx, sono (sempre) le idee sbagliate degli altri, ma proprio per questo sono ideologiche le posizioni di chi considera “smentite dall’evidenza” le posizioni keynesiane. Lasciando stare l’esegesi di “ciò che ha veramente detto Keynes”, resta comunque che ci sono idee scarafaggio che, per quanto vengano smentite dai fatti, continuano a fuoriuscire dallo scarico. Come quella che una politica della domanda non darebbe una buona mano all’aumento dell’occupazione.
Non che manchino idee keynesiane e non che non vi sia in Italia chi le propugna. Per qualche ragione però, non sono queste le idee che “contano” e non sono queste le idee che trovano consenso a Bruxelles. I nostri governi, i nostri partiti, anche quando hanno molto Keynes nel loro bagaglio, quando scendono dall’aereo a Bruxelles lo perdono e mentre aspettano nel lost and found balbettano con gli austeri eurocrati l’oscura lingua liberista che hanno imparato a casa (dove fanno sempre gli accondiscendenti, più realisti del re). Sappiamo che il liberismo in salsa italiana è sempre stato più appetibile – a noi non piace la cucina anglosassone, questione di gusti – che fa dire corbellerie come quella che “da noi non esiste una vera destra moderna e conservatrice”. Qualunque cosa significhi, la nostra destra ha sempre propugnato un liberismo da economia mista, statalista e clientelare, con un mix di amorale cinismo protettivo di certe fasce sociali in nome della pace sociale, chiudendo un occhio di fronte all’evasione fiscale e consentendo l’assistenzialismo verso il meridione e un certo settore pubblico improduttivo. Il centro-sinistra, con la buffa idea di “difendere l’Europa” – sciorinando ogni volta il suo passato europeista da Spinelli a Prodi – ha sempre fatto mandare giù acriticamente ricette e politiche che potevano ben essere quanto meno riviste. “Keynes was right!”, ha sostenuto anche di recente Paul Krugman, quando ha detto qualcosa che ben si adatta alla situazione odierna: “‘The boom, not the slump, is the right time for austerity at the Treasury.’ So declared John Maynard Keynes in 1937”.
Tuttavia, è come se i keynesiani (e la sinistra) debbano farsi perdonare qualcosa: forse l’aumento della spesa pubblica negli anni in cui la scarsa crescita del Pil non ne garantiva più la copertura necessaria? Forse l’aumento della spesa sociale che sarebbe più alta che nel resto d’Europa? Forse l’eccessivo peso dello Stato nell’economia, la presenza di imprese parastatali o nelle quali in Tesoro è azionista di maggioranza? O forse i perduranti monopoli statali? Di keynesiano, oggi, se vogliamo essere “didattici”, c’è solo un’enorme disoccupazione involontaria. Inoltre, sappiamo dai dati (e ne abbiamo già parlato qui) che non è vero che in Italia la spesa sociale sia più alta che in altri Paesi europei (ce ne sono che fanno meglio di noi). Piuttosto, i diktat di Bruxelles non hanno più consentito che il governo intervenisse con la leva fiscale e della spesa pubblica per agire sulla domanda aggregata (e a ben guardare, oggi, sono molto più statalisti i francesi che non gli italiani). Eppure si continua a bacchettare chi voglia anche solo per un momento richiamare alcuni principi di quelle politiche keynesiane che hanno consentito in passato, alla nostra come altre economie, di uscire da momenti di crisi.
Tornare ai principi (di economia)
Come possiamo caratterizzare in poche parole la situazione delle economie di quasi tutti i Paesi avanzati, e dell’Italia in particolare, ora che entriamo nel quinto anno di recessione, cioè di contrazione del prodotto interno? Una domanda aggregata ben al di sotto del livello del prodotto potenziale, una bassa inflazione, una disoccupazione altissima. La soluzione “normale” a una situazione simile, si insegna agli studenti di economia, sarebbe di intervenire dal lato della domanda per soddisfare l’eccesso di offerta e di capacità produttiva inutilizzata. Visto che il settore privato soffre di “aspettative negative”, nonché di liquidità che non viene convogliata a “scopi produttivi”, si dice che in situazioni simili il governo ha lo spazio per fare “ripartire” la domanda rimettendo così in moto l’economia. Questo è quello che si studia normalmente sotto la voce “politiche cicliche”. Nella situazione odierna, si sostiene però, la crisi finanziaria ha creato una strana distorsione nel mercato dei capitali con, ad un tempo, una trappola di liquidità (con tassi vicino allo zero) e limitazioni al credito per un’accentuata avversione al rischio da parte del sistema bancario (con effettivo razionamento del credito). Cui va aggiunto il problema del finanziamento della spesa pubblica, così esposta ai movimenti dei tassi sui titoli e dei rating per via dell’indebitamento. L’assurdità della risposta proposta sta nel fatto che le banche centrali – la Fed ma soprattutto la BCE – vogliono restringere i cordoni della borsa, invece di allargarli, per “prevenire spinte inflazionistiche”. Ma se c’è qualcosa all’orizzonte non è certo inflazione, ma una enorme e contagiosa deflazione, nonostante le improvvide parole della signora Merkel. Tra l’altro, l’intervento delle banche centrali non dovrebbe andare a peggiorare la situazione dei conti pubblici degli Stati più indebitati, almeno nel breve periodo, mentre questo è un altro dei vincoli che vengono solitamente tirati in ballo.
Il secondo argomento è che un aumento della spesa pubblica “keynesiano” non avrebbe gli effetti desiderati, perché “il mondo è cambiato” e l’effetto composito sulla domanda aggregata non sarebbe necessariamente di stimolo all’economia reale. Il ciclo è finito, si sente dire da molte parti, non c’è spazio per politiche cicliche. C’è però una controprova molto efficace di questa affermazione. Se veramente l’aumento della spesa pubblica non ha (più) effetti espansivi, come si spiegano allora gli effetti recessivi che la sua riduzione sta avendo? Non è questa forse evidenza di segno classicamente keynesiano? Guardate alla povera Grecia (letteralmente), dove secondo gli ultimi dati disponibili (Eurostat) i consumi privati sono crollati nel periodo 2008-2011 del 15.3%. Peggio hanno fatto solo i Paesi baltici: ma non erano un bell’esempio di risposta alle politiche di austerità?
Quale crescita? Per chi?
Il problema è un altro. Come si studia nei corsi introduttivi di Economia, le politiche macroeconomiche sono politiche di breve periodo, che agiscono efficacemente sul lato della domanda aggregata ma che, tuttavia, non cambiano le determinanti di lungo termine. A noi servirebbe, eccome, che l’economia si possa riprendere grazie agli stimoli della spesa pubblica nel breve periodo, ma ciò di cui ci dovremmo preoccupare è l’orizzonte che abbiamo davanti. Cosa vogliamo fare dell’Italia dei prossimi vent’anni?
I nostri governi, negli ultimi anni, si sono persi dietro alle “grandi infrastrutture” (con risultati finanche risibili) dimenticandosi delle ferrovie locali che cadevano a pezzi, delle strade provinciali che si infossano, delle slavine e delle frane, degli acquedotti che perdono metà del carico d’acqua che dovrebbero portare, e via dicendo. Rattoppare le buche d’Italia avrebbe avuto, consentitemi la boutade, un effetto macroeconomico dieci, venti volte maggiore che non un solo chilometro di treno ad alta velocità (pensate a quanta occupazione, quante piccole imprese edili coinvolte, etc.). Certo, il nostro problema è più ampio: una base produttiva che non innova, una disoccupazione giovanile e complessiva altissima, con punte di long-term unemployment che sono un vero problema in termini di riassorbimento. Il lato dell’offerta ha bisogno di ben altri stimoli, cui le politiche economiche possono offrire l’humus, le condizioni di contorno e il supporto. Se l’economia italiana si è afflosciata e “naviga a vista” è perché da molto tempo abbiamo smesso di guardare avanti, di inventare, di esplorare, di investire: cosa dovrebbe risultare da anni e anni di tagli alla spesa universitaria e per l’istruzione (abbiamo avuto esimi professori al governo e mai l’università è stata così bistrattata in nome del rigore), alla spesa per ricerca, territorio, ambiente, patrimonio culturale, ferrovie locali, strade locali, e via dicendo? Le politiche non hanno sostenuto l’investimento in ricerca e sviluppo, mentre limitavano i fondi alla ricerca pubblica. Le poche ma famose eccellenze italiane hanno sopravvissuto, come è ovvio, per iniziativa propria, ma l’aiuto offerto dalle politiche pubbliche è stato minimo (anche con fondi europei, largamente sottoutilizzati).
Se non si possono limitare i profitti (orrore!) si può però investire in settori alternativi, procurare scelte che creino sentieri irreversibili: come sarebbero le emissioni di CO2 se ogni abitazione isolata in Italia avesse pannelli solari sul tetto? E quali sarebbero gli effetti sul settore dei pannelli nel quale (si dice) l’Italia non è poi così indietro? E cosa succederebbe al traffico urbano, ai gas serra, alla vivibilità se il parco di autobus ecologici e navette di tutte le città italiane raddoppiasse? Se questo, forse, non sarebbe un favore alla Fiat o alla Toyota (per via del minor numero di automobili vendute) le ricadute complessive non sarebbero comunque positive, anche in termini meramente economici (ed ecologici)? E cosa succederebbe se il numero dei treni locali triplicasse? E cosa succederebbe al mercato immobiliare e al settore edilizio se la si smettesse di costruire vani e metri cubi che restano vuoti per riqualificare invece, con incentivi e premi, il patrimonio edilizio esistente? Questi sentieri diverrebbero irreversibili provocando, loro sì, trickle down e nuova domanda a monte e a valle.
Il fatto è che si parla di crescita — ma quali “politiche per la crescita” tanto menzionate nella sua “fase due” ha lasciato in eredità il professor Monti? Forse, anch’egli dirà che non lo hanno lasciato lavorare… – ma si dovrebbe in realtà parlare di occupazione. Se le imprese non assumono e vogliono comunque crescere non è perché non c’è “abbastanza flessibilità” ma perché non c’è abbastanza domanda, poche possibilità d’investimento e nessuna fiducia nel futuro. Le due—crescita e occupazione – non sono la stessa cosa: garantire la crescita di una multinazionale non vuol dire affatto garantire occupazione, garantire certi mercati interni ed esteri forse sì. Evitiamo di ricadere nella jobless growth, per favore. Non solo ce lo ricorda, ancora, il buon Krugman, ma è la stessa Istat, nel suo ultimo bollettino sulle forze di lavoro (11 aprile 2013): “Negli ultimi cinque anni alla contestuale crescita delle persone in cerca di occupazione (da 1 milione 506 mila del 2007 a 2 milioni 744 mila del 2012), si accompagna l’aumento delle forze lavoro potenziali (+403 mila unità).” Inoltre, i sottoccupati part time nel 2012 sono 605 mila, 154 mila in più rispetto al 2011 (+34,1%) e ben il 66.1% in più rispetto al 2007. Nel complesso, ci dice l’Istat, tra il 2007 e il 2012 i disoccupati e le forze lavoro potenziali (cioè gli inattivi disposti a lavorare) sono aumentati del 39,2%, (ovvero di 1 milione 641 mila). In Italia, gli inattivi disponibili che non cercano lavoro sono il triplo di quelli europei: se il tasso di disoccupazione è leggermente superiore rispetto alla media dei paesi Ue (10,7% contro 10,4%), questo si associa a una quota decisamente più elevata della popolazione inattiva più contigua alla disoccupazione con il 12% delle forze di lavoro a fronte del 4,5% dell’Ue. Dal 2004, gli inattivi disponibili a lavorare che non cercano lavoro non sono mai stati così tanti.
Quello che l’Italia ha saputo fare egregiamente, con intelligenza e con qualche furbizia per tutti gli anni ’50 e ’60 – esportare in Europa e nel resto del mondo sfruttando abilità “artigianale” e flessibilità, pur con un’industria largamente piccola e familiare – non è più possibile, evidentemente, anche se viene da chiedersi perché mai oggi dovremmo tutti comprare prodotti tedeschi – sono forse sempre e solo migliori? Non è trasformando le nostri industrie di forza in sweatshops che competono con i paesi in via di sviluppo che usciremo dalla crisi – dalla ceramica alla calzatura, dall’alimentare al tessile. Se solo fosse possibile per i nostri giovani giovarsi di una pubblica amministrazione meno antiquata e barocca, di un più facile accesso al credito con un sistema bancario più trasparente, di una maggiore concorrenza e meno vincoli nelle professioni e corporazioni, qualche passo avanti si farebbe. Questo è un Paese, ha dichiarato qualche settimana fa Emma Bonino alla Bbc, dove “tutti vogliono il cambiamento degli altri. I taxisti dicono: prima i farmacisti, questi a loro volta dicono: prima i notai, e via dicendo.” La buona Emma, in perfetto inglese, ha così ben argomentato con il giornalista britannico: gli Italiani votano per le Cinque Stelle e “per il cambiamento” ma poi si oppongono a tutto, quando va a toccare i loro interessi individuali. Con la differenza che ora c’è un’ingiuria pronta per chiunque non si adegui al clima, tanto la colpa è sempre dei “politici”.