Di fronte all’ondata di scandali del 2012, la legge anticorruzione, lacunosa e monca, si rivela un rimedio sbagliato. Basterebbero pochi ma radicali cambiamenti per fare una legge anticorruzione vera. Altrimenti, meglio nessuna legge
È successo spesso nella storia di molti paesi che riforme importanti contro la corruzione siano state approvate sull’onda di grandi scandali. È anche accaduto che gli episodi di corruzione una volta svelati suscitassero maggiore indignazione in situazione di crisi economica: quanti più sacrifici venivano chiesti ai cittadini, tanto più oltraggiosi apparivano gli illeciti privilegi dei pochi. Si è verificato altre volte che compiti di risanamento etico siano stati affidati a governi non composti da politici di professione, e quindi ritenuti – a torto o a ragione – meglio capaci di reprimere le degenerazioni della politica.
Niente di tutto questo è successo in Italia: né in occasione delle inchieste di Mani Pulite nel 1992, né quando – nel 2012 – si è cominciato a parlare una nuova tangentopoli. Al contrario, nel 1974 si prese a pretesto lo scandalo dei petroli per approvare una pessima legge sul finanziamento pubblico ai partiti, che ha permesso loro di sommare i proventi illegali della corruzione a quelli provenienti dallo stato ed elargiti sempre più generosamente, senza alcun controllo.
A fronte dell’emergere di comportamenti di profonda e diffusa corruzione, in un momento in cui vengono tagliati, senza pietà, spesa pubblica, servizi ai cittadini, salari e pensioni, da parte di un governo che si auto-definisce tecnico (ma viene sostenuto da una “grande coalizione” parlamentare composta da PdL, Pd e Udc), l’impegno dell’esecutivo su questo fronte si è concentrato su un disegno di legge anticorruzione dai contenuti discutibili, un brodino annacquato nel quale galleggiano alcuni bocconi avvelenati. Nel contempo, sono state approvate misure che, a detta di esperti di vario tipo, rischiano piuttosto di rafforzare le barriere protettive per i corrotti.
Perché un governo ormai in forte crisi di popolarità rinuncia a quella che potrebbe essere una politica non solo popolare, ma anche capace di ridurre – molto più di altri provvedimenti – la crisi del bilancio pubblico e migliorare (più di una miserabile legge sugli “esodati”, che sancisce l’assenza di stato di diritto in Italia) la credibilità dell’Italia? Perché un governo che considera il risanamento il suo principale mandato rinuncia a colpire la corruzione che, è stato stimato, costa 60 miliardi l’anno al bilancio dello stato? Perché un governo che pone la riduzione dello spread al centro della sua agenda politica rinuncia ad una occasione per dare un segnale forte, capace di incidere efficacemente su una delle maggiori cause di povertà e ingiustizia sociale nel paese, oltre che della fuga degli investitori stranieri? Perché una legge realmente efficace contro la corruzione non ha visto finora né vedrà la luce, nonostante le petizioni, le proteste e le proposte?
Il primo ministro, Mario Monti, ha lamentato una generica indisponibilità dei partiti che pur hanno sostenuto il suo governo, votando misure economiche impopolari e, secondo molti, inutili o dannose. Se un governo che ha ottenuto 40 voti di fiducia è disposto a perdere la faccia, pomposamente presentando come legge anti-corruzione un provvedimento debole se non addirittura nocivo, quella spiegazione di improvvisa debolezza non convince. Un’altra spiegazione possibile è che il governo e i partiti che lo sostengono abbiano pensato che una misura avente essenzialmente una valenza simbolica bastasse a placare l’opinione pubblica indignata, e le organizzazioni internazionali che chiedono interventi, senza turbare gli interessi – non certo generali – che in questo governo hanno trovato rappresentanza. Nonostante i proclami retorici su onestà ed equità, tagliare pensioni, salari e servizi sembra una strada di risanamento più appetibile per il governo e la sua maggioranza che ridurre le rendite illecite di politici e imprenditori corrotti. Mentre gli interessi, forti e trasversali, di corrotti e corruttori e delle rispettive cricche di riferimento mantengono un potere di veto riguardo a un “tema sensibile” come la lotta alla corruzione.
È noto che la corruzione introduce tossine nel gioco democratico perché alimenta alleanze sottobanco, disinnesca il controllo reciproco, favorisce l’omertà sotterranea. In altre parole, allontana la politica dai cittadini, la rende opaca e irresponsabile. Ma negli anni di “mani pulite” almeno prevaleva la speranza che la rivolta morale potesse tradursi in rinnovamento della classe politica e del sistema istituzionale. Oggi in molti prevale la disillusione, anche perché – complici ampi segmenti del mondo imprenditoriale, finanziario, delle professioni, storicamente molto sensibili alle lusinghe dei facili guadagni della corruzione – il frutto avvelenato di quelle inchieste è stato un quindicennio di restaurazione berlusconiana, con decine di provvedimenti calibrati sulla futura impunità dei molti imputati eccellenti.
Se questo è il clima prevalente, cosa c’è di meglio di una bella legge per consentire a una classe politica falcidiata dagli scandali di mondarsi dei propri peccati? Peccato che l’iniziativa e l’imprinting normativo discendano dal delfino di Berlusconi, Angelino Alfano, e ad approvarla sia chiamato un parlamento dove siedono un centinaio di inquisiti o pregiudicati per quei reati. Un paio di indizi che di per sé dovrebbero alimentare qualche diffidenza. Una lettura attenta del testo oggi in attesa di approvazione definitiva alla camera aumenta le perplessità. Molti si sono concentrati sulle tante omissioni, l’assenza di norme che finalmente puniscano l’autoriciclaggio, reintroducano i reati di falso in bilancio, modificano il regime perverso della prescrizione, integrino con “altra utilità” la contropartita offerta dai politici nel reato di scambio politico-mafioso, prevedano seri criteri di incandidabilità per i politici già condannati.
Ma il gioco sporco di una classe politica che in apparenza si fa carico – ben vent’anni dopo “mani pulite” – di una questione centrale per il nostro paese è più evidente in alcuni dettagli, che in teoria dovrebbero adeguare il nostro ordinamento a parametri europei. Ad esempio, l’istituzione di un’Autorità anticorruzione e l’introduzione dei reati di corruzione privata e traffico di influenze illecito. Purtroppo la futura Autorità sarà “a costo zero” e non avrà alcun potere di controllo patrimoniale sui funzionari, né tanto meno di sanzione. Nella versione odierna, la futura Autorità diventa un grande burocrate dell’integrità, chiamato a esprimere pareri di carta e a verificare che tutte le amministrazioni abbiano debitamente compilato i moduli che certificano la loro formale elaborazione di documenti dove si proclama il loro generico impegno per la trasparenza. Probabile l’apporto alla deforestazione dell’Amazzonia, più dubbi gli effetti dissuasivi su corrotti e corruttori.
Purtroppo c’è anche di peggio. Le pene per i nuovi reati di corruzione privata e traffico di influenze illecite sono così esigue da impedire l’utilizzo delle intercettazioni telefoniche, con tempi di prescrizione inferiori alla durata media dei procedimenti penali: quasi una garanzia d’impunità per i futuri imputati, per i tribunali un aggravio di ulteriori procedimenti destinati a finire su un binario morto, con un deterioramento complessivo dell’efficienza – già disastrosa – della macchina giudiziaria. Addirittura è stata “spacchettato” il reato di concussione, che fino a oggi prevede una sanzione abbastanza severa per politici e funzionari, tale da mantenere – anche grazie ai tempi proporzionalmente più lunghi della prescrizione – una qualche valenza deterrente. Nella stragrande maggioranza dei casi, tra cui incidentalmente quelli che interessano Berlusconi e l’esponente ex-Pd Penati, si applicherà invece un nuovo reato di “corruzione per induzione”, per il quale la pena prevista – così come i tempi di prescrizione – si ridurrebbero sensibilmente. È bene dirlo: il rischio è quello di una vera e propria amnistia mascherata, visto che la principale ragione di inefficacia del contrasto della corruzione è proprio la prescrizione. Ormai gli imputati eccellenti – tali sono i protagonisti di questi “crimini dei colletti bianchi – mettono in campo squadre agguerrite di avvocati solo per allungare i tempi di processi destinati così a un nulla di fatto, contribuendo allo sfascio complessivo della macchina giudiziaria.
Resta il dubbio: meglio una legge anticorruzione con molte ombre e poche luci, o nessuna legge? Gli emendamenti necessari, quelli capaci di toccare i nodi sensibili del sistema, sono noti a tutti gli esperti, e di certo anche all’esecutivo: cancellare la “corruzione per induzione” o almeno mantenere sanzioni adeguate alla gravità del reato; introdurre il reato di “autoriciclaggio”; dotare l’autorità anticorruzione di reali poteri ispettivi e sanzionatori; allungare i tempi di prescrizione, o almeno sospenderla in caso di condanna in primo grado; reintrodurre il reato di falso in bilancio; introdurre “altra utilità”, oltre al denaro, come possibile contropartita dello scambio di voti tra politici e mafiosi. Sono le componenti minime e irrinunciabili di una seria e “onesta” legge anticorruzione. Senza di esse, meglio rinunciare a intervenire adesso su questa materia, per non suscitare la pericolosa illusione di aver un problema destinato invece ad aggravarsi in futuro.