Per uscire dalla crisi del debito, l’Italia deve puntare sulla dimensione europea, su un grande programma di investimenti continentali. Il congelamento del debito non serve
L’articolo di Ortona sul congelamento del debito appare per molti aspetti stimolante, soprattutto perché mette l’accento su alcuni problemi molto rilevanti, ma mi sembra (posso ovviamente sbagliarmi, cosa che spero) che presenti diversi punti deboli, che provo a sintetizzare di seguito. Le mie sono in gran parte impressioni scritte di getto, senza curare troppo la forma;
– certamente il problema dell’attuale debito pubblico italiano pesa come un macigno sulle possibilità di far ripartire l’economia del nostro paese; occorrerebbe in qualche modo cercare di porvi rimedio e su questo Ortona ha certamente ragione. Ma nonostante che l’autore tenda a essere molto rassicurante sulla sua proposta di congelamento del debito, in realtà temo che al semplice annuncio di un provvedimento del genere i mercati internazionali siano presi dal panico, vedendo che uno dei più importanti debitori pubblici del mondo non è in grado di far fronte ai suoi impegni (mentre per di più non si sarebbe in grado di annunciare quando i debiti congelati verranno restituiti – si rimanda infatti a un generico momento in cui l’economia reale sarà tornata in condizioni soddisfacenti: dieci-venti anni?); tanto più che il momento attuale non appare uno dei più tranquilli. Ritengo che immediatamente e persino ovviamente l’Italia verrà dichiarata in default dalle organizzazioni a ciò preposte e che anche lo stesso euro, già fortemente provato, possa plausibilmente non resistere un giorno di più a una prova simile; potrebbe precipitare immediatamente, in ogni caso, anche la situazione di Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna, paesi già per molti aspetti nei guai, con tutte le conseguenze del caso;
– mi sembra comunque azzardato pensare che per gli investitori sottoscrivere nuovo debito pubblico in condizioni di congelamento del vecchio diventi una questione “sicurissima” e che venga definitivamente escluso il rischio di default. Voglio peraltro ricordare, a tale proposito, che la definizione internazionalmente nota di default comprende in realtà pienamente l’ipotesi che Ortona vorrebbe che si portasse avanti;
– consideriamo anche che una parte relativamente rilevante del debito sovrano italiano è posseduto da persone dai redditi e dai patrimoni molto modesti, che vedranno sparire o ridimensionarsi in molti casi una delle fonti magari importanti delle loro entrate annuali e soprattutto del loro patrimonio;
– mi domando poi con quale criterio i grandi detentori di titoli sovrani, banche, assicurazioni, grandi imprese, fondi comuni e di investimento, dovranno il giorno dopo valutare nei loro conti il valore dei titoli italiani, nonché quelli di diversi altri paesi; ne potrebbe uscire un ulteriore, collaterale, grande disastro. Ma forse sono troppo pessimista;
– da molti mesi tanti studiosi ed esperti del settore cercano una via d’uscita ai problemi del debito dei paesi del Sud Europa a livello di tecniche di ingegneria finanziaria. Ne escono a volte fuori delle idee ingegnose, come nel nostro caso, ma io sono convinto che tale via d’uscita non esista (tra l’altro, troppo grave è ormai la malattia).
Inoltre, nello scritto di Ortona non c’è traccia della dimensione europea della questione, come se l’Europa non esistesse; invece tale dimensione, secondo me, appare imprescindibile per qualsiasi ipotesi d’uscita dalla crisi. Si deve, in realtà, lavorare per una via “politica” di uscita dalle difficoltà, con più Europa (in questo senso il tentativo di Hollande, se portato avanti con decisione, appare in questo momento l’unica, e forse ultima, speranza di contributo all’avvio di una soluzione) e, parallelamente, per un grande programma di investimenti a livello continentale nonché per programmi di crescita della domanda nei paesi, come la Germania, che hanno un’economia che tira. Ma sarebbe lungo inoltrarsi per tale via in queste brevi note;
– l’avanzo primario di cui parla Ortona significa, tra le altre cose, che comunque continueranno a non esserci soldi per quegli interventi – ricerca, scuola, infrastrutture fisiche e immateriali – che possono servire a far ripartire l’economia.
E con quali soldi pagheremo l’auspicato incremento della spesa pubblica e in particolare l’aumento di 800.000 nuovi assunti nel settore della pubblica amministrazione (azione auspicata, tra l’altro, anche da L. Gallino in un suo articolo recente e che comporterebbe, secondo miei calcoli molto grossolani e tenendo anche conto dei costi accessori, intorno ai 30 miliardi di euro di maggiori spese ogni anno; vero è che ci sarebbe poi qualche ritorno a livello economico generale e a quello fiscale, ma insomma…)? Tra l’altro, dobbiamo ancora sistemare centinaia di migliaia di precari che già lavorano e magari da molti anni nel settore e abbiamo anche il problema di ridare ossigeno alla ricerca, alla cultura, alla scuola, oltre a quello di avviare un programma di sgravi fiscali al lavoro, più tante altre cose tutte prioritarie che si dovrebbero fare. Bisognerebbe, detto in altro modo, analizzare bene quali dovrebbero essere le priorità d’impiego di questi ipotetici 30 miliardi.
Ricordiamo peraltro che, nel mondo reale, ci siamo impegnati da poco con le istituzioni europee a ridurre il livello del nostro debito pubblico del 5% all’anno e per non so quanti anni. Certo, si tratta di una clausola assolutamente inaccettabile, che va certo rinegoziata e ridiscussa con i nostri partner, ma questo indica comunque qual è la distanza tra quello che vorremmo fare e la situazione attuale;
– per altro verso, prima di nuove assunzioni, bisognerebbe innanzitutto lavorare all’obiettivo di far funzionare molto meglio l’attuale macchina pubblica del nostro paese a tutti i livelli, questione imprescindibile per qualsiasi miglioramento della sua capacità di rispondere alle esigenze di un paese moderno e di assecondare le azioni di risanamento e sviluppo dell’apparato produttivo e del tessuto sociale del nostro paese. Questo mi sembra l’obiettivo di gran lunga prioritario e preliminare sul tema: hic Rhodus, hic saltat.
A proposito, io non sono affatto convinto che la perdita di efficienza della pubblica amministrazione sia dovuta soprattutto all’attuale riduzione del personale, che potrebbe pure aver avuto qualche peso. Penso che derivi intanto da un’inefficienza storica della macchina pubblica italiana, aggravata negli ultimi vent’anni dalla progressiva trascuratezza, a volte voluta, da parte dei governi e degli enti locali al problema, di fronte ad un mondo che cambia rapidamente e richiederebbe aggiornamenti rilevanti, nonché al palese, visibile e rilevante aumento, negli ultimi vent’anni, dei livelli di corruzione.
Marginalmente e a proposito, mi fa tremare l’idea di trasferire, nella attuale situazione organizzativa di tali soggetti, nuove e aggiuntive risorse agli enti locali, in particolare a quelli della gran parte delle aree del sud e anche di alcune di quelle del centro, che si tratti della regione Sicilia o Lazio, o dei comuni di Catanzaro o di Roma, tanto per non fare nomi. Mi si scusino queste sottolineature che possono sembrare di tipo leghista, ma bisogna sempre partire, a mio parere, dalla realtà dei fatti.
Certo, sono consapevole che, grosso modo a parità di popolazione, paesi come la Francia e la Gran Bretagna registrano oggi un molto maggior numero di impiegati pubblici rispetto all’Italia, ma alla fine, non solo i problemi di bilancio e comunque la necessaria scelta tra impieghi alternativi di risorse scarse, ma anche l’attuale situazione di sfascio organizzativo del settore, sconsiglierebbero di procedere a nuove assunzioni, almeno nelle dimensioni prospettate da Ortona.