Il modello Marchionne avrà ulteriori effetti negativi sulla produttività, impedendo qualsiasi prospettiva di crescita sostenibile a lungo termine
La logica di Marchionne e dei suoi tanti sostenitori è semplice: le automobili si fanno seguendo una precisa lista di operazioni, gli operai sono coinvolti nei punti x e y di questa lista, a parità di altre condizioni l’azienda usa gli operai il cui costo è minore. Secondo questa mirabolante teoria del commercio internazionale, gli operai devono rassegnarsi: in Cina, Polonia, Serbia il salario è più basso, quindi la scelta è tra la disoccupazione o accettare sistematiche cessioni di diritti conquistati nelle precedenti lotte. Chi investe vuole utile e l’investimento si porta a termine là dove quell’utile è massimizzato.
Seguendo la successione delle implicazioni che discendono dalle premesse di cui sopra, la globalizzazione peggiora in maniera sistematica le condizioni di vita dei lavoratori meno qualificati e delle fasce più deboli. Ai cantori di Marchionne non resta che confessare di essere diventati marxisti, con l’accortezza di lottare per l’altra classe. Sennonché la premessa è alquanto discutibile. Il primo punto è che quell’a parità di altre condizioni include tutta una storia di quanto i lavoratori siano preparati, di quanto il sistema sia efficiente nel suo complesso, di come e quanto si tassa. Si tratta di discorsi di produttività del sistema Paese che sono logicamente di lungo periodo e altrettanto logicamente fondamentali, ma la cui modificazione comporta tempi che si misurano su scale diverse.
Il secondo punto è quello decisivo. Se davvero la tecnica per la produzione fosse data, una e immodificabile (o una frontiera orami prossima alla maturità definitiva), allora la logica dei vantaggi comparati dovrebbe portare a una semplice e chiara conclusione: bisogna mettersi a produrre qualcosa di diverso. Lasciare ai cinesi, ai serbi o ai polacchi la produzione di automobili e mettersi a fare ciò che essi non sono capaci di fare o gli costerà troppo tempo apprendere. Politici o opinion-makers, coloro che hanno simbolicamente sottoscritto contratti in bianco con Marchionne dovrebbero mostrare il coraggio di fare quel discorso. Non è decente offrire a lavoratori e alle loro famiglie una prospettiva di sistematica erosione del loro livello di vita o di aggrapparsi alla speranza che i sindacati cinesi e serbi siano meno salottieri e accondiscendenti. Meglio essere realisti e confessare che bisogna favorire la riallocazione produttiva.
En passant, in questo discorso di grande franchezza, abbiano anche la lungimiranza di spiegare ai lavoratori come mai si producono auto in Germania, dove notoriamente i salari non sono di poco al di sopra della soglia della povertà. Si tratterebbe del primo caso di “discorso afasico”: in effetti, sospetto che una spiegazione di questo semplice fatto manchi. La motivazione è, invece, alquanto semplice: innovazione. L’automobile può essere al centro di una ripresa produttiva verso la nuova frontiera tecnologica “verde”. Garantirebbe rendite che possono alimentare politiche di welfare più estese (il vero segreto del Nord Europa) e salari più alti. Sarebbe anche un segnale “europeista”: sebbene manchi una visione del futuro, l’unico briciolo di strategia a lungo termine (Europa 2020) individua uno dei cardini proprio nella crescita sostenibile. Significherebbe seguire davvero l’esempio americano, dove il boom della nuova economia affonda le sue radici negli investimenti strategici fatti dallo Stato (come accuratamente documentato nel bel libretto “The Entrepreneurial State” di M. Mazzucato).
Il problema dell’innovazione è che bisogna fare investimenti, bisogna metterci soldi e faccia. In Italia si è scelta una strada diversa: i margini di utile sono stati garantiti da una parte con l’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori, precarizzazione lavorativa e flessibilità interna – si lavora di più a parità di salario; dall’altra con una politica miope di rendite pubbliche elargite al capitale nazionale e occhi semichiusi sull’evasione fiscale. La linea che il Paese sta seguendo avrà ulteriori effetti negativi sulla produttività, ammazzando sul nascere qualsiasi prospettiva a lungo termine di messa in sicurezza dei conti.