La discussione sulle misure “necessarie” del governo Monti divide il campo tra favorevoli, contrari e riservisti (quelli del “sì, ma”). Perfino l’allungamento del tempo di lavoro delle donne potrebbe portare a effetti insperati
Ovvio che, nel dibattito che si è avviato con la presentazione del programma di governo, ci siano letture e posizioni contrastanti. Quelli che, anche se solo parzialmente soddisfatti, dichiarano di essere disponibili ad appoggiarne le politiche. Quelli che dichiarano la loro intransigente opposizione. Per non dire dei rappresentanti “istituzionali” delle categorie sociali più colpite che, pur riconoscendo al nuovo governo impegno e credibilità, si mobilitano chiedendo aggiustamenti e revisioni.
Già c’erano stati commenti, e anche critiche, sul carattere “tecnico” della compagine governativa e sull’impostazione del programma, tutta dettata da criteri “economici”; adesso si passa a valutarne le ricadute “sociali”. Ricadute complesse: si porta l’attenzione sulla popolazione, plurale e diversificata, dei destinatari; sulle forti disuguaglianze esistenti nella nostra società; sui differenti contesti in cui si interviene. E su possibili effetti non detti, “inattesi” forse (e anche su quelli che, negli studi sulle politiche sociali, si definiscono effetti “perversi”) delle misure adottate.
Complesso è riuscire a cogliere, addirittura ad anticipare, un quadro completo delle possibili ricadute. Valutare se e come misure accettabili, o anche vantaggiose, per certe categorie, possano risultare negative per altre.
Difficile fare politica. Particolarmente arduo in una fase come quella che stiamo attraversando.
E anche questo va messo in luce: come la stessa percezione, e denuncia, di possibili conseguenze negative spesso rifletta letture e analisi di impostazione tradizionale, poco capaci di cogliere modifiche di sistema, processi di cambiamento. In una prospettiva che va necessariamente rivolta anche al futuro sarebbe necessario portare l’attenzione, appunto, a modifiche di sistema; o con un linguaggio meno tecnico, ai possibili (auspicabili, in certi casi) scossoni che possono derivare dal passaggio di fase che stiamo vivendo.
Segnali di questo tipo, controcorrente rispetto alle letture prevalenti, è bene metterli in luce. Chissà se sapremo leggere la “crisi” anche come un evento potenzialmente utile per il nostro sistema sociale poco disposto a cambiamenti. Se saremo capaci di entrare in una fase inevitabilmente in contrasto con “modelli” e “pratiche” del passato.
Nello stesso giorno, il 9 dicembre, due studiosi importanti hanno affrontato, in sedi diverse, una delle misure più impopolari del programma di governo: l’allungamento della vita lavorativa per le donne. Si tratta di due dei sociologi più autorevoli: Chiara Saraceno (un articolo sul “Venerdì di Repubblica”), Marzio Barbagli (un’intervista a Maria Novella De Luca, pubblicata su “Repubblica” quello stesso giorno). Si colgono possibili implicazioni positive di quella che è letta, nei commenti fino a qui messi al centro del dibattito, come pesantemente negativa per i diritti e le condizioni di vita delle donne.
Certo, per molta parte della popolazione interessata, sono ricadute difficili. Si mette in luce però come abbia senso segnalare anche possibili cambiamenti che potrebbero derivarne (“processi virtuosi”, dice Barbagli). Saraceno si chiede se sia “davvero conveniente per le donne andare in pensione a un’età più bassa rispetto agli uomini”, in questo modo continuando a dare per scontato che abbiano “carriere reddituali mediamente più piatte e di livello inferiore rispetto a quelle degli uomini a parità di qualifica”, e che le loro pensioni siano più basse; e che a loro sia attribuito tutto il lavoro “non pagato” (domestico e familiare), nella fase adulta e in quella anziana della vita. Così funziona il nostro sistema della “cura”.
È chiaro che in mancanza di necessari adeguamenti dei sistemi di sostegno alle famiglie – sia pubblici che privati, a cui nell’articolo si fa con precisione riferimento – inevitabilmente questa resta la soluzione.
E immodificata rimane la nostra “cultura della cura”.
Un sistema, dunque, che continua a essere discriminatorio. E chiuso rispetto a processi di cambiamento (da tempo affrontati in altri paesi) che, nella prospettiva degli anni che abbiamo davanti, non si possono non mettere in luce.
Un “alibi per non cambiare”, dice Barbagli. E rivolge attenzione al modello della divisione dei compiti di cura anche tra le generazioni, con accenni ai “nipoti e nonni del futuro”.
Si tratta – ovvio – delle donne e degli uomini. Ci siamo dentro tutti.
Prospettive cui cominciare a pensare: modelli di vita, e politiche, che inevitabilmente si modificheranno, forse con innovative forme di utilizzo delle risorse disponibili; e orientati a ridurre le disuguaglianze.
“Cambiamenti lenti e invisibili” e c’è ”impreparazione della società italiana”: così Marzio Barbagli.
In questo momento le condizioni e le aspettative riflettono problemi concreti, urgenze. Per alcuni molto più che per altri si prospettano difficoltà e costi, e comprensibile è il rifiuto ad accettarli.
E però cominciamo a portarli all’attenzione, i possibili effetti degli scossoni che, in questi anni, ci troveremo ad affrontare. Il passaggio da cogliere è la spinta a cambiare modi di vivere e a utilizzare “risorse” che sono modelli organizzativi, rapporti, capacità, differenti e molteplici. Anche usi dei tempi – individuali e collettivi – da ripensare, riorganizzare: una risorsa fondamentale.
Guardiamo in questa chiave gli interventi, le politiche, anche le pratiche della vita quotidiana. Abbiamo di fronte spinte che cambieranno il nostro vivere e la nostra società (non “italiana”, non “europea”: riferimenti, anche questi, che richiedono ridefinizioni e riformulazioni).