“Le stagioni dell’antitrust”, un libro di Berti e Pezzoli sulla vita difficilissima della concorrenza in Italia. E sul pericolo che con la crisi torni di moda il cartello
“Allarme concorrenza”, titolava qualche giorno fa Il Sole 24 Ore, in riferimento all’ultima vittoria dei camionisti: fine della contrattazione libera, ritorno alla tariffa minima. La minaccia del blocco estivo contro la mancata attuazione delle promesse, il potere di contrattazione dei bisonti della strada, la presenza nello stato maggiore del Pdl dei loro rappresentanti: tutte ragioni che hanno portato il governo a cedere, e a restituire il beneficio – che va ad aggiungersi ai 3,5 miliardi di aiuti ricevuti in dieci anni, avverte lo stesso quotidiano di Confindustria. Che si allarma anche per il fatto che la “legge per la concorrenza” è ferma nel cassetto. Insomma, il mercato può attendere, anzi può andare a farsi benedire. Allarmi liberisti fuori tempo massimo, non adatti al momento della crisi?
La questione non è così semplice. Tanto per cominciare, tutto ciò succede mentre i vertici di tutte le autorità di controllo dei mercati sono sospesi, in balìa dei giochi governativi: la Consob è senza testa (con solerzia il suo ex presidente è stato mandato a presiedere le Ferrovie invece che in pensione, ma con tutta evidenza il governo non ritiene altrettanto urgente dare un vertice all’autorità di controllo della Borsa), la testa dell’Antitrust è in trasloco verso la Consob (ma il passaggio è congelato, causa disaccordo sulla postazione che a catena si libera), l’Agcom non ne parliamo. La concorrenza non interesserà il governo, ma le sue poltrone certamente fanno gola. Ma c’è anche un’altra questione, che dovrebbe interessare ancor di più a sinistra, ed è in un nodo teorico e politico: l’antitrust, la concorrenza, sono un lusso che non ci si può permettere in tempi di crisi? Dobbiamo salutare con gioia, insieme all’ubriacatura neoliberista, anche il declino della concorrenza? Affrontano la questione di petto, in un libro appena uscito per Egea, Lapo Berti ed Andrea Pezzoli, economisti, che dell’Antitrust sono dirigenti. Il libro si intitola “Le stagioni dell’antitrust”, e lascia intendere che siamo all’inverno di un’istituzione arrivata in Italia con un secolo di ritardo rispetto agli Usa, mai digerita dalla politica e dalle imprese, comunque protagonista di una tiepida primavera, di una breve estate e poi, adesso, di una lunga collezione autunno-inverno. Fuor di metafora, il libro sceglie appassionatamente la tesi opposta a quella che oggi pare prevalente: no, dicono gli autori, la tutela della concorrenza non è un lusso. Anzi, il suo abbandono ai tempi della Grande depressione fece grandi danni (su quest’aspetto, si veda anche l’articolo di Andrea Pezzoli su questo stesso sito). Semmai, oggi possiamo chiedere, e introdurre, politiche di accompagnamento e sostegno per le “vittime” dell’antitrust, quando queste sono tra le categorie più deboli e non tra i big dell’economia. Ma la lotta ai cartelli deve restare un obiettivo, e un cartello di oligopolisti non è più “buono” solo perché c’è la crisi. E’ questo uno dei punti-chiave del libro, che con confronti storici e riferimenti teorici cerca di dimostrare che la concorrenza non è un mito o un assunto ideologico, ma un bene comune. E il bene comune è nella garanzia che, in un sistema di regole, pesi e contrappesi funzionanti, nessun pesce grosso diventerà troppo grosso, e nessun potere economico troppo potente: se alla prima tempesta si dà al pesce grosso licenza di uccidere, tutta la filosofia (e la pratica) dell’antitrust vanno in fumo.
Il libro ha il grande pregio di calare questo quadro generale nella realtà concreta della storia dell’antitrust italiano, raccontando come ha funzionato, le difficoltà della sua nascita ed evoluzione, cosa è cambiato, come e perché (non) funzionano le sanzioni, quali sono i rischi delle novità introdotte negli ultimi anni: la possibilità per i partecipanti al trust di denunciare il cartello, beneficiando di una sorta di programma-pentiti; e quella di evitare i rigori di un procedimento dell’Autorità, attraverso “impegni” contrattati tra controllori e controllati. Si tratta di innovazioni di rilievo, che non sono invenzioni italiane, ma provengono dall’esperienza giuridica internazionale; che pure in Italia sono state declinate in modo che suscita più di una preoccupazione tra gli addetti ai lavori, tra i quali gli autori del libro. In particolare, è stato lo strumento degli “impegni” a riscuotere grande successo: in tre anni, si legge nel libro, si è fatto ricorso a questa procedura in 12 casi su 27 di intese restrittive della concorrenza, e in 17 su 21 riguardanti presunti abusi di posizione dominante. Una sorta di processo breve, un “pochi, maledetti e subito”, che però non ha liberato risorse e forze per aumentare il ruolo dell’antitrust su altri fronti: è vero che così si evitano lunghe e costose procedure per arrivare a sanzioni che, in media, sono poi dimezzate dal Tar o dal Consiglio di Stato; ed è anche vero, sottolineano gli autori, che questa tendenza è coerente con uno slittamento progressivo dell’immagine dell’antitrust come “sceriffo” dei consumatori, che dunque in tempi rapidi può convincere le imprese a prendere – e annunciare pubblicamente – impegni di riduzione dei prezzi, senza che però cambino strutturalmente le condizioni che le avevano portate a far cartello. Ma nell’analisi del libro si evidenziano tutti i pericoli di questa deriva, di una sorta di contrattazione continua dentro l’antitrust; preoccupazione accentuata dal fatto che questa trasformazione coincide con la fase della crisi nella quale più forte è la pressione a non tagliare le unghie alle imprese, e la sospensione della concorrenza avviene per scelta politica esplicita (si veda il caso Alitalia) o più nascosta (il cedimento alle lobby più potenti che via via riescono a imporre la loro linea).
Tutto ciò non vuol dire che l’antitrust debba vivere e continuare in una torre eburnea, come se niente di nuovo accadesse al di fuori. Ma gli strumenti che ha sono già abbastanza pragmatici e flessibili, si argomenta nel libro, per adattarsi alle realtà in movimento; il fatto è che vanno coniugati con altri, a partire da quelli della politica industriale: che non vuol dire (non dovrebbe) far fare agli industriali tutto quel che vogliono in barba alle regole antitrust. Non solo. Bisogna rendersi conto, scrivono gli autori, che la concorrenza costa, in termini di crisi di imprese non più protette e posti di lavoro: finché non si daranno ammortizzatori sociali potenti per assorbire i relativi shock, non si riuscirà mai a far “vincere” l’antitrust – cosa che nel lungo periodo converrebbe a tutti, o certamente di più alle fasce meno protette e forti nella contrattazione politico/economica.
Eccesso di ottimismo? Qui vale la pena di rivelare l’outing che Berti e Pezzoli fanno in premessa del libro: autedefinendosi “degli inguaribili ottimisti, schiavi delle ultime righe della Teoria generale di J. M. Keynes per cui, come noto, prima o poi, nel bene e nel male, saranno le idee ad avere la meglio sugli interessi costituiti”. E l’idea forte sostenuta nel libro germoglia in una convinta adesione etica al “bene comune” della regolazione del mercato: che – come qualsiasi richiamo a qualsivoglia regola – di questi tempi è messo a rischio in Italia, più che dalla crisi del sistema, dal sistema dalla cricca. Che in fondo cos’è, se non un gigantesco trust pubblico/privato?
Lapo Berti, Andrea Pezzoli, Le stagioni dell’antitrust. Egea, 2010, euro 16 (con una prefazione di Salvatore Bragantini)