A colpi di decreto, la scuola torna al passato. Mentre dovrebbe guardare al futuro, a partire dai problemi non risolti. Il primo: il peso del background familiare sugli esiti scolastici dei figli è rimasto immutato negli ultimi cinquant’anni. Così le diseguaglianze si perpetuano
L’incremento della mobilità sociale, ovvero l’allentamento del legame fra posizioni socio-economiche di genitori e figli, viene considerato auspicabile sia sotto il profilo dell’efficienza, sia sotto quello dell’eguaglianza di opportunità e l’istruzione viene generalmente ritenuta lo strumento più efficace per garantire la mobilità sociale e ridurre la persistenza intergenerazionale delle diseguaglianze nei redditi e negli status socio-economici. Dal momento che, in media, un maggior numero di anni di studio è associato ad un maggior salario e ad una mansione lavorativa più gratificante, si ritiene infatti che l’ampliamento delle possibilità di istruzione possa consentire in qualche misura agli individui di scindere le proprie prospettive da quelle della famiglia di provenienza.
In realtà, nonostante l’offerta di istruzione pubblica almeno fino al raggiungimento dell’obbligo scolastico (generalizzata perlomeno nei paesi più sviluppati), si osserva ovunque, seppure con un’elevata disomogeneità nelle performance dei diversi paesi paesi, una correlazione positiva (e spesso elevata) nei livelli di istruzione raggiunti da genitori e figli1. Tale correlazione è considerata una fondamentale misura del grado di trasmissione intergenerazionale delle diseguaglianze e viene spesso interpretata come segnale del fallimento della società nel raggiungere l’eguaglianza di opportunità. In generale, si nota inoltre come, benché il livello medio di istruzione sia ovunque cresciuto negli ultimi cinquant’anni, nella quasi totalità dei paesi il vantaggio relativo per chi proviene da famiglie più istruite non si sia ridotto significativamente.
Fra i paesi industrializzati, l’Italia si segnala come uno di quelli caratterizzati da maggior persistenza dei livelli di istruzione fra genitori e figli. In un recente lavoro2 la trasmissione intergenerazionale dei titoli di studio nel nostro paese è stata esaminata mediante i dati contenuti nell’indagine Isfol-Plus la quale registra, per un ampio campione di individui (25.727 individui di età compresa fra i 25 e i 64 anni), il titolo di studio, l’informazione relativa all’eventuale iscrizione al livello di istruzione successivo (senza conseguimento del titolo) ed il titolo di studio dei genitori.
Dai risultati di tale lavoro emerge evidente l’immagine dell’Italia come una società immobile dal punto di vista della trasmissione intergenerazionale dei titoli di studio. In esso si rileva infatti come – nonostante il lento, ma generalizzato, aumento della diffusione dei titoli di studio più elevati realizzatosi negli scorsi decenni – l’influenza del background familiare sugli esiti scolastici dei figli sia rimasta molto elevata e pressoché immutata negli ultimi cinquant’anni.
In tutte le coorti considerate nello studio, un figlio di laureato mantiene una probabilità di laurearsi doppia rispetto ai figli di diplomati e di circa 4 volte superiore rispetto ai figli di chi ha completato soltanto la scuola media. Nello specifico, fra i nati negli anni ’70 i figli di laureati si laureano nel 65% dei casi, mentre le probabilità di laurearsi per chi ha un padre diplomato o con un’istruzione secondaria inferiore o con un titolo primario sono, rispettivamente, del 31%, del 16% e inferiori al 10% . Si tratta, dunque, di differenze estremamente significative.
Nello studio si evidenzia inoltre come il vantaggio relativo per chi proviene da contesti familiari più acculturati non si manifesti in uno specifico punto del percorso formativo, ma si protrae in ogni fase della vita scolastica. Si osserva infatti che chi proviene da una famiglia “a più alto capitale umano” con maggiore probabilità prosegue gli studi oltre l’obbligo, consegue un diploma superiore – e sceglie con maggiore probabilità i licei –, si iscrive all’università e infine si laurea. Pertanto, chi ha vissuto in un background più svantaggiato, anche se supera i primi stadi di selezione (ad esempio il diploma), continua ad essere penalizzato in termini di probabilità di conseguimento della laurea. Differenze meno significative, in base al background di provenienza, si notano invece in relazione alla distribuzione dei tempi di conseguimento del titolo (la presenza di fuori-corso appare pervasiva, indipendentemente dalla considerazione del livello di istruzione dei genitori) e delle discipline in cui ci si laurea (anche se fra i figli di laureati è maggiore la quota di chi consegue titoli terziari in discipline tecnico-scientifiche). La quota di laureati con il massimo dei voti è, invece, molto più elevata fra i figli di genitori con il titolo di studio più elevato.
Uno snodo fondamentale della scelta individuale risulta, in particolare, il tipo di scuola superiore prescelto, dal momento che il conseguimento del diploma liceale condiziona fortemente non solo le probabilità di iscrizione all’università, ma anche quelle di ottenimento della laurea e di conseguimento del titolo con il massimo dei voti. Da questo punto di vista la riforma dei cicli realizzata ormai un decennio fa dal ministro Berlinguer (successivamente abrogata prima della sua entrata in vigore) che estendeva l’età dell’obbligo attraverso un primo biennio secondario superiore a contenuto comune, ritardando la scelta fra curricula differenziati avrebbe invece potuto contribuire a ridurre la dipendenza delle scelte formative dal contesto familiare di provenienza.
I risultati raggiunti nel percorso formativo appaiono dunque in Italia ancora strettamente legati al grado di capitale umano della famiglia di provenienza. Come visto in precedenza, la letteratura economica identifica l’investimento in capitale umano come lo strumento principale per accedere a salari e status sociali più elevati e ridurre la persistenza intergenerazionale delle disuguaglianze nei redditi e negli status socio-economici. I risultati qui ricordati sembrano invece portare alla conclusione che la prospettiva di affidare alla sola istruzione il compito di contrastare la persistenza intergenerazionale delle disuguaglianze economiche, immaginando che l’incremento dei livelli di istruzione sia condizione sufficiente per realizzare una società meritocratica, è ben lungi dall’essere realizzata, soprattutto in Italia.
Nel dibattito sulle politiche di welfare – e, più in generale, sulle forme di contrasto delle disuguaglianze – la questione della mobilità sociale ha d’altronde ricevuto, almeno sinora, un’attenzione molto limitata. Al contrario, risultati come quelli qui presentati ripropongono la necessità di comprendere a fondo come e perché si realizzi la persistenza intergenerazionale, anche per la rilevanza che tale spiegazione riveste rispetto all’opportunità di contrastarla e all’individuazione delle modalità più appropriate per farlo.
1 I principali studi che, con un’ottica comparativa, confermano la persistenza dei livelli di istruzione in numerosi paesi sono: P. de Broucker, K. Underwood (1998), “La mobilité intergénérationnelle du niveau de scolarité : comparaison internationale axée sur les études postsecondaires”, Revue trimestrielle de l’éducation, vol. 5, n. 2; T. Hertz, T. Jayasundera, P. Piraino, S. Selcuk, N. Smith, A. Veraschangina (2007), “The inheritance of educational inequality: international comparisons and fifty-year trends”, The B.E. Journal of Economic Analysis and Policy, vol. 7, n. 2; S. Gabriele, M. Raitano (2008), “La trasmissione intergenerazionale dei titoli di studio nell’Unione Europea”, Rivista delle Politiche Sociali, n. 2.
2 M. Franzini, M Raitano M. (2008), “L’istruzione dei genitori e dei figli. Disuguaglianze che persistono”, Meridiana, n. 59-60.