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Come ti smonto il Green Deal

Agricoltura, tutela della natura, rendicontazione ambientale e sociale delle imprese, emissioni di industria e trasporti, biodiversità. Pezzo dopo pezzo, in Europa viene disarticolata l’architettura del Green Deal: una scelta sbagliata che non conviene a cittadini e imprese. E che può essere ribaltata.

In Europa non discutiamo più se il cambiamento climatico esista o meno: quella fase è superata. Oggi lo viviamo direttamente, tra ondate di calore che infrangono record, siccità che si prolungano, incendi ricorrenti d’estate e inondazioni invernali sempre più violente. Il clima ci sta inviando un messaggio inequivocabile. Tuttavia, proprio mentre gli effetti diventano più evidenti, negli ultimi diciotto mesi abbiamo assistito a un fenomeno preoccupante: un arretramento progressivo e dichiarato di alcuni pilastri fondamentali del Green Deal europeo.

Non si tratta di un rigetto esplicito, nessuno osa farlo apertamente, ma di qualcosa di più sottile e altrettanto dannoso: flessibilizzazioni, rinvii, eccezioni e revisioni che ne erodono l’ambizione originaria e che si susseguono a un ritmo che in questo fine 2025 diventa frenetico. Una sorta di “cupio dissolvi” che porta i leader della Commissione europea a disfare ciò che era stato costruito, senza alcun reale studio di impatto per capire le conseguenze che avrà fermare un processo in atto di trasformazione economica, industriale e sociale. Una trasformazione indispensabile, dato che l’emergenza climatica rimane, anche se si fa finta di non vederla più.

Dietro questo cambio di rotta agiscono diversi attori: una parte dell’agroindustria, segmenti dell’industria automobilistica tradizionale, il settore del gas, alcuni governi di destra attirati da un facile consenso, movimenti populisti ed estremisti. Le loro strategie sono note: sfruttare crisi economiche e geopolitiche, enfatizzare i costi immediati della transizione e occultare quelli ben più alti dell’inazione. Insieme, stanno attivamente contribuendo a frenare il Green Deal, ma senza offrire un orizzonte alternativo di crescita e stabilità sociale o economica.

È bene precisare che questa “deregulation” indiscriminata non risponde ad alcuna richiesta precisa da parte di cittadini, amministrazioni locali e attori economici innovativi, ma è il frutto di una sorta di furia ideologica e di pressioni di alcuni settori di “incumbent” particolarmente vicini alla destra politica, che hanno trovato facile accesso in Commissione e governi. Oggi c’è il rischio reale di svuotare il Green Deal della sua forza trasformativa se non si mette in atto un’azione forte e coesa per contrastare questa dinamica. Questo non è impossibile, ma bisogna recuperare innanzitutto una mancanza di reazione da parte delle imprese che hanno già fatto la scelta della trasformazione ecologica, e da parte della politica, che deve tornare a ridare priorità a questo tema.

Il Green Deal è nato dopo le elezioni del 2019 come una strategia di crescita per l’Unione europea: modernizzare l’industria, ridurre le emissioni, restaurare la natura e trasformare l’agricoltura in modo equo e sostenibile. Con tre grandi obiettivi: la neutralità climatica entro il 2050, almeno il 55% di riduzione delle emissioni entro il 2030, e il disaccoppiamento tra crescita economica e uso delle risorse. In pochi anni l’Europa ha approvato un pacchetto legislativo senza precedenti. Ma oggi quell’edificio normativo mostra crepe profonde: ciò che un tempo era eccezionale, cioè la riapertura di leggi già negoziate, sta diventando routine.

Tutto ciò invia un segnale molto negativo a imprese, investitori, amministrazioni, cittadini: la stabilità regolatoria europea, uno dei suoi tratti distintivi, non è più garantita. Peraltro, Commissione e Consiglio si sono organizzati per fare in modo che questa operazione sia il più staccata possibile dalle priorità e dalla logica che aveva portato al Green Deal: il Commissario incaricato della Semplificazione è Valdis Dombrowskis, un falco non solo dal punto di vista dell’austerity, che durante il mandato precedente era stato fra i più scettici sulla svolta “verde” della Commissione e che oggi ha un mandato molto ampio, che tocca competenze di molti suoi colleghi, in particolare Teresa Ribera e Jessica Roswall.

Ci sono anche crescenti problemi di metodo nel modo in cui si sta portando avanti questa operazione. Il Gruppo di lavoro del Coreper incaricato della Semplificazione, che riunisce i rappresentanti permanenti degli Stati membri, non è infatti composto dai funzionari che normalmente seguono queste materie, di competenza del Coreper I. Le proposte di semplificazione della Commissione vengono infatti trasmesse, spesso all’ultimo momento, al cosiddetto “gruppo Antici”, formato dagli assistenti personali degli ambasciatori e da un rappresentante della Commissione, e incaricato di preparare, la sera precedente, le riunioni del Coreper II. Quest’ultimo, composto direttamente dagli ambasciatori, si occupa di affari generali, affari interni e relazioni esterne dell’Unione europea.

In questo modo, i tecnici competenti per materia vengono di fatto esclusi dalla discussione di proposte di semplificazione che incidono su politiche settoriali – ambientali, agricole, industriali – normalmente trattate in altre sedi del Consiglio. L’obiettivo dichiarato di questa impostazione è, formalmente, quello di evitare che chi aveva negoziato le norme precedenti possa esitare nel momento di modificarle. Lungi dall’essere un dettaglio procedurale, tale scelta appare invece indicativa della volontà di smantellare il quadro normativo prescindendo dalle considerazioni di merito e dalle stesse procedure che la Commissione europea si è data.

Il caso dell’agricoltura e del ripristino della natura

Il caso dell’agricoltura è emblematico. Nella primavera del 2024, il ritiro da parte della Commissione della proposta SUR (Sustainable Use Regulation) che mirava a ridurre del 50% l’uso e il rischio dei pesticidi entro il 2030 è stato il primo grande arretramento. Dopo un’intensa pressione da parte dell’agroindustria e il voto negativo del Parlamento europeo, si è scelto di abbandonare un regolamento considerato cruciale per la transizione ecologica del settore agricolo invece che negoziare un compromesso.

Parallelamente, la Politica Agricola Comune (PAC) è stata progressivamente privata dei suoi elementi ambientali: nel 2024 la condizionalità verde è stata resa più flessibile, e nel 2025 il Parlamento europeo ha ulteriormente indebolito i requisiti ambientali. In questi giorni, la plenaria di Strasburgo approverà definitivamente alcune di queste modifiche negoziate fra Parlamento, Consiglio e Commissione, che per fortuna non hanno raccolto le peggiori domande del Parlamento stesso, mantenendo però una spinta alla rinazionalizzazione e un indebolimento certo dei requisiti richiesti in precedenza.

Questo arretramento, al netto di semplificazioni utili che di certo sono possibili, non risponde tanto alle esigenze reali degli agricoltori, che si preoccupano soprattutto della valorizzazione dei loro prodotti e del reddito che ne possono ottenere, quanto a quelle di una potente agroindustria da sempre vicina alla destra oggi maggioritaria, che si basa sull’utilizzo intensivo delle risorse e del suolo ed è molto dipendente dai combustibili fossili; e questo nonostante il fatto che la dipendenza eccessiva dai pesticidi stia minando le basi stesse della produttività agricola, attraverso la degradazione dei suoli, la contaminazione delle acque e il declino dei pollinatori.

Sappiamo che la perdita di impollinatori riduce i rendimenti del 7-8% e il reddito delle aziende agricole di circa il 10%. A breve termine i pesticidi sembrano una soluzione economica, ma a medio termine generano costi ecologici ed economici enormi. Le alternative esistono e funzionano, ma ovviamente devono essere sostenute: gestione integrata dei parassiti, controllo biologico, rotazioni e agricoltura di precisione permettono di ridurre l’uso di pesticidi dal 30 al 50% senza perdita di produttività e talvolta aumentando la redditività.

Anche la Legge sul Ripristino della Natura, concepita per restaurare ecosistemi su una scala mai vista in Europa, ha subito un forte indebolimento durante il processo legislativo. La proposta prevedeva obiettivi vincolanti per suoli agricoli, torbiere, foreste, fiumi, impollinatori e aree urbane, inclusa la restaurazione del 20% degli ecosistemi degradati entro il 2030.

La versione approvata nel 2024, tre giorni dopo le elezioni europee di giugno, e dopo lunghi scontri politici e pressioni di alcuni settori agricoli e governi, è molto più debole: molti obiettivi sono stati resi indicativi, gli impegni per l’agricoltura sono stati quasi azzerati, è stata introdotta una clausola di “emergenza alimentare” che permette di sospendere gli obblighi, la Commissione ha perso capacità di supervisione, e non esiste una linea chiara di finanziamento dedicato.

La struttura della legge sopravvive, ma in una forma molto diluita, ed è ancora oggetto di pressioni per cambiarla: solo la settimana scorsa pare che la Presidente von der Leyen in persona abbia sventato il tentativo del Commissario Dombrovskis, vera anima (nera) del travolgente trend di deregolamentazione in corso, di proporre modifiche anche a questa direttiva, cosa che ne avrebbe sicuramente determinato la fine.

Competitività ad ogni costo

A partire dallo scorso febbraio, con il pretesto di “facilitare la competitività” delle imprese, la Commissione europea ha iniziato a usare in modo sistematico lo strumento dell’“Omnibus” per riaprire e modificare normative chiave del Green e del Digital Deal, spesso ancora in fase di applicazione.

A differenza delle procedure legislative ordinarie, queste riaperture non passano da valutazioni di impatto, consultazioni strutturate e iter trasparenti, ma da contatti diretti tra vertici della Commissione, alcuni alti funzionari, alcuni Stati membri e grandi interessi economici, tenendo spesso all’oscuro perfino le Direzioni generali competenti. Secondo il Commissario Dombrovskis, finora il totale previsto delle economie amministrative – vale a dire i risparmi stimati sui costi di compliance e sugli obblighi di rendicontazione per le imprese – da Omnibus e altre iniziative già presentate è di quasi 11 miliardi di euro, con un obiettivo complessivo di 37,5 miliardi annui entro il 2029.

Ma il punto è che non c’è alcuna valutazione dell’impatto della revisione di queste normative sull’economia in generale, sul processo di decarbonizzazione, sui cittadini, sull’ambiente. Non a caso, la Mediatrice europea Teresa Anjinho ha riscontrato che la gestione da parte della Commissione europea dell’Omnibus I sulle norme di sostenibilità delle imprese e della “semplificazione” della PAC prevista per il 2024 ha violato i principi fondamentali di buona amministrazione, tra cui “la trasparenza, l’inclusività e l’elaborazione di leggi basate su dati concreti”.[1] Non è dato di sapere se questa presa di posizione della Mediatrice avrà un qualche effetto.

Il problema non è solo il contenuto delle proposte, ma il fatto che, una volta riaperta una norma, Parlamento e Consiglio possono spingersi molto oltre le modifiche originarie. Dopo le elezioni del 2024, una parte consistente del Partito Popolare Europeo ha fatto del Green Deal un bersaglio prioritario, rompendo il tradizionale “cordone sanitario” e accordandosi con l’estrema destra climato‑scettica. La Commissione europea, che ha il monopolio dell’iniziativa legislativa, sa perfettamente che ogni sua decisione di riaprire fascicoli implica mesi di negoziato aggiuntivo, costi ingenti e il rischio concreto di smontare pezzo per pezzo il suo patrimonio normativo.

La Commissione appare così come una Penelope che disfa la tela del Green Deal da lei stessa cucita nella legislatura precedente. Un grave errore strategico, che punisce le imprese che già avevano cominciato a adeguarsi dentro e fuori la Ue, ostacola la creazione di filiere più robuste, investimenti più sicuri e un vantaggio competitivo reale in un mercato che va nella direzione di richiedere sempre più trasparenza e sostenibilità. Al contempo, questo favorisce chi non ha alcuna intenzione di ridurre la pressione su risorse e clima, nell’illusione che tirando la corda per qualche anno in più si possa rimanere “competitivi” senza cambiare modello di business, magari accedendo a risorse pubbliche per mantenersi a galla.

Una scelta non inevitabile, perché se il problema è davvero quello di semplificare l’attuazione e ridurre i doppioni e le sovrapposizioni, la Commissione dispone di strumenti molto efficaci per ottenere lo stesso risultato attraverso l’emissione di linee guida per l’applicazione e regolamenti attuativi, senza dover riaprire la normativa e diventare del tutto dipendente da lobbies, umori e maggioranze volatili nel Parlamento europeo e nel Consiglio.

Le direttive sulla sostenibilità delle imprese

Le prime vittime di questa ansia di “deregolamentazione” sono state la direttiva sulla “due diligence” delle imprese (CSDDD/CRDDD) e la direttiva sulla rendicontazione di sostenibilità (CSRD), inserite nell’Omnibus I e poi ulteriormente indebolite nel Trilogo con Parlamento e Consiglio. L’accordo finale tra questi due attori è stato approvato lo scorso 16 dicembre alla sessione plenaria a Strasburgo.

Sulla CSDDD, le soglie sono state innalzate a 5.000 dipendenti e 1,5 miliardi di euro di fatturato globale per le imprese europee (o 1,5 miliardi di fatturato nell’Ue per le imprese extra‑Ue), escludendo circa i due terzi delle aziende inizialmente previste: parliamo di oltre 10.000 società che avrebbero dovuto mappare e gestire i rischi lungo la catena del valore. È stato anche abbandonato l’approccio specifico relativo ai “settori ad alto rischio”, pur sapendo che in comparti come tessile, agricoltura, minerario ed elettronica si concentra la maggior parte di deforestazione, violazioni dei diritti umani e inquinamento scaricato sugli anelli più deboli delle filiere globali.

La revisione della CSRD segue lo stesso schema: l’obbligo di reporting viene limitato alle imprese con più di 1.000 dipendenti e fatturati molto elevati (circa 450 milioni di euro), lasciando fuori l’80-90% del tessuto produttivo medio‑grande europeo, che pesa in modo decisivo sulle emissioni, sull’uso di risorse e sui rischi di transizione. Ciò riduce fortemente la disponibilità di dati comparabili per investitori, banche e assicurazioni, proprio mentre le istituzioni finanziarie chiedono più trasparenza per valutare rischi climatici, di reputazione e di filiera.

Non sorprende che Ong come SOMO e il Business&Human Rights Resource Centre, al pari di coalizioni di imprese all’avanguardia, denuncino il fatto che così facendo la “due diligence” diventi un esercizio per pochi grandi gruppi, spesso limitato al solo “tier one”, in aperta contraddizione con i principi ONU su imprese e diritti umani che richiedono una visione dell’intera catena del valore. Organizzazioni della società civile e imprese impegnate nella transizione ricordano che molte aziende hanno già investito in sistemi di due diligence, tracciabilità e piani climatici proprio in vista delle direttive, e ora si trovano esposte a concorrenza sleale da parte di chi continua a esternalizzare i costi sociali e ambientali delle sue attività.

Non è un caso che nell’opera di revisione e deregolamentazione abbia avuto un impatto rilevante la “Round Table on Competitiveness”, potente piattaforma di lobbying che riunisce grandi gruppi fossili europei e statunitensi e che ha saputo sfruttare le tensioni sui dazi con la nuova amministrazione Usa per amplificare la pressione a favore dello smantellamento delle regole sulla rendicontazione ambientale[2]. Ripetiamo che il problema non è trovare modi di semplificare ed evitare doppioni e burocrazia inutile, ma il fatto che la “semplificazione” abbia preso – in questo come in altri “Omnibus” – la forma di un arretramento strutturale: campo di applicazione ristretto, strumenti di enforcement attenuati.

Peraltro, non è affatto detto che questi compromessi producano vantaggi, a fronte di danni potenzialmente consistenti. I risparmi amministrativi per le imprese escluse sono modesti, limitati nel tempo e concentrati su costi di compliance che molte aziende avrebbero comunque dovuto sostenere per soddisfare banche, investitori o clienti globali. In cambio, la Ue indebolisce la prevedibilità regolatoria, rimanda alle norme nazionali complicando la vita per le imprese, invia un segnale di marcia indietro proprio a chi aveva scommesso sulla transizione, e si priva di strumenti cruciali per ridurre rischi che già oggi costano decine di miliardi l’anno in danni climatici sul territorio europeo.

In buona sostanza, la Ue ha appena trasformato due pilastri del suo Green Deal in norme per pochi grandi gruppi, riducendone drasticamente l’impatto sistemico. Il messaggio è chiaro: in nome della “riduzione degli oneri” si accetta di svuotare una parte centrale dell’architettura verde, proprio mentre aumentano i costi economici del clima impazzito.

Il Regolamento sulla deforestazione

Stessa sorte è toccata anche al Regolamento europeo contro la deforestazione (EUDR), nato per ridurre l’impronta globale della Ue su filiere come soia, carne bovina, cacao, caffè, olio di palma, gomma e legno. Insieme alle direttive su rendicontazione ambientale e sociale e sulla “due diligence” delle imprese, questo Regolamento rappresenta un punto di riferimento mondiale per un’industria e agricoltura sostenibili. Sebbene la norma resti formalmente in vigore, a Strasburgo è stato appena approvato il rinvio della sua applicazione e la possibilità di rivederla entro qualche mese: un caso inedito, ma che temiamo non rimarrà tale, di una norma che viene rivista prima ancora che sia applicata.

Ad ogni modo, come per le direttive incluse nell’Omnibus 1, il problema non è solo il rinvio dell’applicazione. La Commissione ha deciso di riaprire questa normativa, cedendo alle pressioni di parte dell’industria e della politica, e senza valutare l’impatto di tale revisione: si tratta di un errore, anche perché l’Europa con la EUDR stava creando uno standard internazionalmente riconosciuto e che sarebbe potuto essere benefico, come già successo in altri campi con il famoso “effetto Brussels”, cioè la capacità dell’Unione di orientare le normative a livello globale.

Ricordiamo che la Ue è responsabile di circa il 10% della deforestazione globale legata al consumo (principalmente olio di palma, soia, legno, carne); ogni anno il mondo perde circa 10 milioni di ettari di foreste e la deforestazione genera circa il 10% delle emissioni globali di CO₂, con effetti diretti sulla qualità dell’aria, sulla salute e sulla stabilità delle filiere, come emerso con forza alla COP30 in Brasile. Più foreste vengono distrutte, più aumentano incendi, malattie e instabilità dei mercati delle materie prime: condizioni che rendono le catene di approvvigionamento europee più fragili e costose.

La deforestazione ha impatti economici, oltre che climatici, enormi, ed è spesso opera della criminalità organizzata, che trova ancora il modo di penetrare il mercato europeo in assenza di regole chiare e di sanzioni sulla tracciabilità dei prodotti: elementi che erano previsti nella versione attuale della legge, ma che verranno sicuramente rivisti.

Le emissioni di industria e trasporti

Anche il settore industriale e dei trasporti è stato coinvolto nell’opera di indebolimento generale del Green Deal. La revisione dello standard Euro 7, pensata per ridurre le emissioni nocive e migliorare la qualità dell’aria, è stata approvata in una versione molto più debole rispetto a quanto proposto dagli esperti sanitari e ambientali. Ancora più significativa è la riapertura del dibattito sullo stop alla vendita di auto a combustione dal 2035, proposta dalla Commissione il 16 dicembre: un obiettivo che era stato concordato con i produttori di auto e che sembrava consolidato, ma che è stato rimesso in discussione anche potendo contare su una potente campagna di disinformazione. Tutto ciò sta minando un percorso industriale che avrebbe dovuto dare certezza a produttori, investitori, consumatori e rispondere – anche se in grande ritardo – a gravi errori strategici di produttori e governi legati alla mancanza di auto elettriche accessibili in Europa.

Eppure i dati sono chiari: l’auto elettrica riduce del 73% le emissioni lungo il ciclo di vita, è tre volte più efficiente, abbassa la dipendenza dalle importazioni energetiche e rappresenta già una quota importante delle nuove immatricolazioni (intorno al 20%). Senza contare che la data del 2035 si riferisce alla vendita di nuove auto a combustione interna e non ovviamente al loro utilizzo fino a fine vita. Nel Pacchetto Automotive presentato dalla Commissione il quadro formale non cambia: resta il target di riduzione del 100% delle emissioni di CO₂ per le nuove immatricolazioni nel 2035, ma nei fatti viene abbassato a circa il 90%. Ciò avviene attraverso la disposizione di tre leve: crediti gratuiti legati all’uso di e‑fuels e biocarburanti, crediti extra per chi usa acciaio “verde” europeo e “supercrediti” per le piccole auto elettriche prodotte in Europa.

Combinando queste flessibilità, fino a circa il 23-25% delle nuove auto vendute nel 2035 potrebbe ancora essere costituito da ibride plug‑in con motore a combustione, che in condizioni reali emettono solo circa il 19% in meno delle auto a benzina o diesel. Nel complesso, il quadro che emerge è di una politica che si ferma a metà strada: da un lato investe nell’industria e tutela la produzione europea, dall’altro attenua la pressione regolatoria su CO₂, qualità dell’aria e sicurezza, rischiando di rallentare la transizione proprio mentre la concorrenza globale accelera.

Sempre in materia di emissioni, l’entrata in vigore dell’ETS2 – il nuovo mercato del carbonio per edifici e trasporti – è stata recentemente rinviata al 2028, riducendo la capacità del Fondo Sociale per il Clima di sostenere le famiglie vulnerabili in una situazione in cui non c’è alcuna vera strategia alternativa per affrontare la povertà energetica se non quella di spingere su ristrutturazioni e decarbonizzazione. Inoltre, il rinvio al 2028 dell’ETS2 porta con sé come conseguenza il minor incentivo per consumatori e imprese nel passare a forme di riscaldamento e raffreddamento meno “fossili”.

Nel frattempo, la proposta di revisione del Regolamento dell’Ecodesign sugli apparecchi di riscaldamento degli ambienti, aperto il 25 novembre scorso alla consultazione pubblica, elimina la messa al bando delle caldaie a gas dal 2029 e fissa standard di efficienza troppo poco ambiziosi rispetto a quelli attuali: siamo nuovamente di fronte a marce indietro che ritardano e ostacolano l’uscita ordinata da combustibili e prodotti fossili.

Il Pacchetto Omnibus sull’ambiente

Un altro duro colpo alla normativa europea, questa volta in materia ambientale, è arrivato con l’Omnibus Ambiente presentato dalla Commissione il 10 dicembre 2025: un pacchetto di “semplificazione” che interviene a cascata su molte norme comunitarie, sempre in nome del taglio della burocrazia e secondo una logica che privilegia la decarbonizzazione alla biodiversità e alla protezione della natura.

Secondo l’esecutivo europeo questa operazione potrebbe valere un miliardo di euro, tutto a vantaggio delle imprese di alcuni settori industriali e agricoli: le vere destinatarie di tutte queste misure. Ispirato dal Rapporto Draghi che richiedeva la riapertura di alcune norme ambientali per accelerare le procedure di permitting – senza tuttavia interessarsi delle conseguenze su inquinamento, ambiente e salute –, questo pacchetto contiene sei proposte legislative che intervengono su regolamentazioni già in vigore.

Si tratta di proposte che dovranno essere esaminate, emendate, votate, approvate da Parlamento e Consiglio europei: un processo lungo, dispendioso, che potrebbe ulteriormente indebolire misure a favore di cittadini, salute e ambiente, piegando ancora una volta le normali procedure legislative e con valutazioni d’impatto insufficienti e consultazioni limitate. La Commissione, dal canto suo, insiste sul previsto risparmio per le imprese e sul fatto che non si mettono in discussione gli obiettivi del Green Deal, ma si cerca piuttosto di renderli più “gestibili” per amministrazioni spesso sottodotate di personale e per imprese chiamate a investimenti massicci.

Il pacchetto propone di modificare la direttiva sulle emissioni industriali e zootecniche (IED 2.0) e il regolamento sul portale delle emissioni, cancellando l’obbligo di cercare alternative più sicure alle sostanze pericolose e di spiegare come gli impianti intendano arrivare a produzioni climaticamente neutre e circolari. Al contempo, si consentono ulteriori rinvii nell’applicazione delle migliori tecniche disponibili, si escludono gli allevamenti avicoli biologici dal campo di applicazione, si riduce la trasparenza su consumi di risorse per grandi allevamenti di polli e suini, e si apre a deroghe ai limiti emissivi per la combustione dell’idrogeno senza un’analisi preventiva adeguata.

Anche la direttiva quadro rifiuti è inserita nell’Omnibus: la cancellazione della banca dati SCIP sulle sostanze “estremamente preoccupanti” (“of high concern”) nei prodotti lascia, per ora, un vuoto sui tempi per l’introduzione di strumenti digitali alternativi, con effetti potenziali sulla capacità di tracciare le sostanze chimiche pericolose nei flussi di materiali. Sul fronte della responsabilità estesa del produttore, la sospensione dell’obbligo di nominare un rappresentante autorizzato in ogni Stato membro per batterie, imballaggi, RAEE, plastica monouso e altri flussi è presentata come un alleggerimento per le imprese, ma potrebbe tradursi in un indebolimento delle garanzie sul rispetto degli obblighi ambientali e sulla qualità di riparabilità e durabilità, in particolare per i mezzi leggeri elettrici.

Il capitolo sulle valutazioni di impatto ambientale e sulle autorizzazioni per infrastrutture energetiche, reti, stoccaggi e progetti rinnovabili è forse il più delicato. Le procedure accelerate, il ricorso esteso a sportelli unici e controlli ridotti possono effettivamente sbloccare investimenti fermi da anni, soprattutto nel campo delle rinnovabili. Ma il rischio è che l’eccezione diventi la regola, che nelle corsie preferenziali finiscano anche infrastrutture fossili, e che nuovi impianti si concentrino su aree già sensibili, dai siti Natura 2000 ai grandi corridoi fluviali. Inoltre, l’uso ricorrente della nozione di “interesse superiore” per giustificare deroghe generalizzate viene visto come un possibile varco all’indebolimento strutturale delle salvaguardie ambientali e sanitarie: in Italia abbiamo avuto esattamente questa esperienza con l’inserimento di opere controverse come la TAV in Valsusa fra le opere “strategiche”.

Sul fronte prodotti, il pacchetto tocca anche il regolamento batterie e altre norme sulla responsabilità estesa del produttore, sospendendo l’obbligo per chi non è stabilito in uno Stato membro di nominare un rappresentante autorizzato: l’obiettivo è semplificare, ma è chiaro che così diventa più difficile far rispettare gli obblighi ambientali, indebolendo al contempo le garanzie su riparabilità e durabilità dei mezzi leggeri elettrici.

Oltre alla presentazione delle proposte legislative appena descritte, la Commissione ha anche annunciato “verifiche” imminenti per la direttiva quadro sull’acqua e la direttiva nitrati sull’uso del letame e dei digestati, così come uno “stress test” per direttive Uccelli e Habitat nel 2026. Lo scopo è capire se anche queste fondamentali normative dovranno essere “ritoccate”: vengono infatti presentate come parte di un continuum di monitoraggio e aggiornamento, non come un arretramento. Tuttavia, già si può vedere che il combinato disposto di queste revisioni e delle semplificazioni dell’Omnibus, pur mantenendo in teoria gli obiettivi del Green Deal e del principio di precauzione, introduce nei fatti una logica di deroga permanente, in cui la promessa di più investimenti verdi – o semi-verdi – giustifica un abbassamento di salvaguardie e limiti ambientali.

Peraltro, la Commissione ha presentato il 16 dicembre scorso anche il pacchetto Omnibus su alimenti e mangimi, che propone modifiche mirate a un’ampia gamma di normative Ue, tra cui i regolamenti sui pesticidi, gli additivi per mangimi, gli organismi geneticamente modificati (Ogm), l’igiene alimentare, i biocidi, il benessere degli animali al momento della macellazione, i livelli massimi di residui di pesticidi e i controlli ufficiali alle frontiere. Sebbene sia presentata come una “semplificazione” volta a facilitare l’accesso al mercato di biopesticidi più sicuri, l’elemento più significativo e profondamente preoccupante è la proposta di passare ad approvazioni e autorizzazioni illimitate, con eccezioni strettamente definite.

Inoltre, la proposta elimina l’obbligo per gli Stati membri di tenere conto delle più recenti prove scientifiche indipendenti al momento di autorizzare prodotti fitosanitari a livello nazionale. Queste modifiche – proposte ancora una volta senza valutazione d’impatto – sono del tutto sproporzionate rispetto all’obiettivo dichiarato dell’esercizio Omnibus, che è quello di “semplificare la legislazione esistente”.

Conclusioni

Un aspetto da sottolineare ancora una volta è che non pare proprio che i cittadini e le cittadine europee chiedano un arretramento sull’azione climatica. I sondaggi mostrano che l’81% sostiene la neutralità climatica, l’84% considera il clima una priorità anche dal punto di vista della salute, e il 90% chiede più investimenti per l’adattamento.

Insomma, l’Europa non si trova di fronte a un “lusso ideologico” chiamato Green Deal, ma ha più che mai l’obbligo di rimettere al centro la priorità di proteggere vite, posti di lavoro, biodiversità e anche democrazia in un continente già colpito da fenomeni climatici estremi: tutto ciò va fatto non andando contro gli attori economici e le imprese, ma nemmeno assegnando ad alcune di queste ultime un ruolo assolutamente sproporzionato e ingiustificato nella decisione delle priorità dell’Unione.

La domanda fondamentale non è se possiamo permetterci la trasformazione energetica ed ecologica avviata dal Green Deal, quanto piuttosto se possiamo permetterci di fare marcia indietro a metà strada. Tutti i dati – economici, scientifici, sociali e politici – puntano nella stessa direzione: arretrare ora è un’incomprensibile perdita di tempo e risorse. Si tratta di un processo profondamente irrazionale dai vantaggi non provati. Realizzare il Green Deal e renderlo socialmente giusto non è solo una sfida ambientale: è la condizione perché l’Europa resti un luogo vivibile, prospero e democratico.

Note

[1] https://www.ombudsman.europa.eu/en/press-release/en/215989

[2] https://www.somo.nl/the-secretive-cabal-of-us-polluters-that-is-rewriting-the-eus-human-rights-and-climate-law/