Top menu

Consultori, antidoto collettivo al patriarcato

Cinquanta anni fa la legge che istituiva i consultori, poco dopo veniva approvata la legge n. 194 per l’aborto; oggi i loro assunti, le istanze di autodeterminazione delle donne, i servizi pubblici previsti, sono messi in forte discussione e sono sotto attacco. Il caso del Lazio.

Cinquanta anni fa, il 29 luglio 1975, la legge n. 405 istituiva i consultori familiari sulla scia delle esperienze del movimento femminista. Fu una conquista di grande importanza, frutto delle lotte degli anni Settanta, quando i consultori vennero concepiti come spazi autogestiti, luoghi “delle donne per le donne”, in cui si elaborava collettivamente l’esperienza del corpo, della salute e della sessualità. Si sperimentava un servizio gratuito improntato all’etica della cura, rivolto a tutte, in grado di rispondere ai bisogni e alle istanze delle donne, nel segno del loro benessere sessuale, psichico e fisico, della tutela e promozione del diritto alla salute. Le competenze mediche venivano socializzate, si praticava una medicina delle e per le donne, si producevano conoscenze e informazione sui temi della contraccezione e dell’aborto, si offriva supporto anche alle giovani generazioni, così come strumenti di contrasto alla violenza maschile sulle donne. In quegli anni, le pratiche di autocoscienza ridefinirono i confini tra pubblico e privato, affermando la libertà sessuale e di scelta delle donne, incidendo sui rapporti sociali di produzione e riproduzione e sui nessi tra diritti, bisogni e servizi garantiti.

La stagione trasformativa degli anni Settanta portò a più conquiste su questo terreno, tra esse la legge n. 194/1978 che, tra difficoltà e compromessi, regola l’interruzione volontaria di gravidanza. Dagli anni Ottanta, il Coordinamento nazionale donne per i consultori continuò l’impegno nel monitorare il servizio pubblico e nel garantire effettiva applicazione della 194, che conferiva a questi presidi pubblici una funzione centrale di “tutela”, informazione, prevenzione, accompagnamento. Oggi quel modello è stato messo in forte discussione ed è sotto attacco.

Le politiche neoliberali hanno portato al ridimensionamento della spesa e dei servizi pubblici, all’introduzione di modelli di mercato e logiche di profitto nell’ambito del welfare, con l’aggravamento delle diseguaglianze sociali e delle disparità territoriali. Le attuali politiche (e retoriche) nazionaliste e identitarie riaffermano un modello “naturale”, tradizionale, normativo e patriarcale, di famiglia.

Già lo scorso anno era arrivato un chiaro segnale di messa in discussione dell’impianto progettato negli anni Settanta, presente nella normativa di riferimento. Significative le note vicende dell’emendamento proposto da Fratelli di Italia a uno degli articoli della legge n. 56/2024 contenente “Norme in materia di servizi consultoriali”, volto a veicolare la presenza delle associazioni antiabortiste nei consultori, modificandone compiti e competenze, reiterando tentativi di colpevolizzare le donne e metterne in discussione la loro libertà di autodeterminazione. Si è trattato di un attacco alla legge 194 giunto nello stesso periodo in cui la Francia inseriva il diritto all’aborto nella Costituzione.

La recente proposta di legge regionale n. 207 (15 maggio 2025) concernente “Interventi a favore della famiglia, della natalità e della crescita demografica”, adottata dalla Giunta regionale del Lazio guidata da Francesco Rocca, conferma e accentua questa tendenza. Il provvedimento si propone di affrontare la questione della denatalità, riaffermando logiche allarmanti. La stessa espressione della salvaguardia “del nascituro dal concepimento alla nascita” tenta ancora una volta di mettere in discussione la legge 194. La norma regionale del Lazio diventa così uno strumento di pressione sulla fisionomia dei consultori e sul diritto all’interruzione volontaria di gravidanza. Al contempo, il riferimento al coinvolgimento dell’“associazionismo familiare” nella realizzazione di attività e servizi a sostegno delle famiglie apre la possibilità di intervento anche a realtà che non garantiscono laicità e pluralismo. Più articoli della proposta si muovono nella direzione della privatizzazione dei servizi di welfare pubblico, del rafforzamento di modelli di welfare aziendale, dell’esternalizzazione dei servizi al terzo settore, ricorrendo a formule come la valorizzazione della “figura dei nonni” o la promozione di “forme di auto-organizzazione familiare, quali: i nidi domestici e l’istruzione parentale”. Vengono così messi in discussione servizi collettivi, presidi della sanità pubblica, facendo delle famiglie e delle imprese il perno di tutele che stanno perdendo la forma e la sostanza di diritti garantiti dal welfare pubblico (che certo non possono essere garantiti neanche dall’erogazione di voucher o da altre misure occasionali e individualistiche).

Come evidenziato da più parti, nel Lazio – ma lo stesso vale per altre Regioni – i consultori e i servizi per l’infanzia sono insufficienti. I nidi pubblici non riescono a coprire la domanda, i consultori risentono di più problematiche: dal loro scarso numero (in base alla popolazione residente nel Lazio ce ne vorrebbero più di 280 e sono invece circa la metà, 137), alla carenza di personale nella forma di équipe multiprofessionali, alle difficoltà di organizzazione delle varie attività previste, al mancato ampliamento di esse, alla problematica erogazione di alcuni servizi (come la pillola RU486 in tempi congrui), alla differenziazione regionale. Con ogni evidenza, la Regione non si è adeguata agli standard riconfermati nel DM n. 77/2022, tra cui quello che richiede la presenza di un consultorio ogni 20.000 abitanti (con la possibilità di 1 ogni 10.000 nelle aree interne e rurali). Le stesse finalità indicate nel decreto n. 77, che individua nel consultorio familiare (e nell’attività rivolta ai minori nell’ambito dell’assistenza territoriale) la struttura «a libero accesso e gratuita» deputata «alla protezione, prevenzione, promozione della salute, consulenza e cura rivolte alla donna in tutto il suo ciclo di vita (comprese quelle in gravidanza), minori, famiglie all’interno del contesto comunitario di riferimento», rischiano di restare lettere morta. Lo stesso vale per le modalità di lavoro che dovrebbero caratterizzare le attività dei consultori, ispirandosi al modello dell’integrazione socio-sanitaria. Nello specifico, secondo «un approccio multidisciplinare e olistico», con una «attenzione alla complessità dello stato di salute della popolazione» mediante la stessa qualità dell’accoglienza, dell’ascolto e della comunicazione e la loro capacità di realizzare programmi di promozione della salute e assistenza volti anche alla presa di consapevolezza delle persone e delle comunità». La possibilità infine che l’attività consultoriale possa svolgersi all’interno delle Case della Comunità resta ancora, in tanti contesti, una partita aperta legata alle sorti più complessive di queste ultime.

Il dibattito che si è svolto in Consiglio regionale del Lazio nella discussione della proposta di legge della Regione ha evidenziato i suoi forti limiti ideologici, più carenze strutturali, rimarcate in vari modi dall’opposizione. Numerose reti associative e professionali – femministe e transfemministe, coordinamento delle assemblee dei consultori, famiglie arcobaleno, centri antiviolenza, sindacato – hanno chiesto il ritiro o la revisione profonda della proposta. Da più parti si è fatto presente che la questione della denatalità non si affronta con retoriche familiste, patriarcali, identitarie, né con soluzioni affidate all’iniziativa delle famiglie e del mondo del privato. Servono politiche di de-mercificazione e ripubblicizzazione partecipata e qualificata, affinché la cura non sia considerata lavoro gratuito svolto dalle donne o dai soggetti più svantaggiati; affinchè la tutela e promozione dei diritti non sia subordinata alle logiche di mercato, né alla posizione occupata nel mondo del lavoro.

Si tratta di fare scelte politiche che rilancino e potenzino i consultori pubblici, servizi educativi accessibili universalmente, servizi socio-sanitari territoriali, tutela e miglioramento dei salari, garanzie di condizioni dignitose di lavoro e di vita, adeguati congedi paritari e obbligatori. Cinquant’anni fa i consultori nacquero come spazi di libertà e autodeterminazione, come servizi pubblici garantiti e accessibili universalmente, all’insegna della partecipazione e dell’interdipendenza, della centralità politica ed etica della cura. Oggi si tenta di andare nella direzione opposta, mettendo in discussione i diritti sociali e di libertà, il diritto fondamentale alla salute, la laicità dello Stato, l’equità di accesso ai servizi socio-sanitari pubblici, la rilevanza politica della cura, l’intreccio profondo tra responsabilità individuali e collettive e, su tutto, l’autodeterminazione delle donne.