I contrasti sulla costruzione europea si concentrano sulle politiche di bilancio da attuare nei vari paesi e l’esperienza greca si avvia ad assumere una valenza dimostrativa
Come era prevedibile, l’annuncio delle elezioni anticipate in Grecia e i sondaggi che indicano al primo posto Syriza, la sinistra di Alexis Tsipras, hanno fatto scattare la strategia dell’allarmismo economico, una risposta conservatrice che, tuttavia, rischia di essere negligentemente alimentata anche da chi la subisce
Il processo d’unificazione europeo si sta pericolosamente involvendo e si avvicina la resa dei conti sul se e sul come potrà andare a compimento.
Una ipotesi ottimistica è che l’inasprirsi delle posizioni tedesche (e collegate) indichi l’inizio dalla Grande Contrattazione su come definire la costruzione dell’UE. Le considerazioni che le banche tedesche sono oggi (rispetto al 2012) molto meno esposte verso il debito greco e che le piccole dimensioni dell’economia greca la rendano non “troppo grande per poter fallire”, potrebbero farla ritenere la vittima ideale nella logica di “colpire uno per educarne cento”. Ma sarebbe una visione miope, da apprendista stregone. Chi è tentato da questa strategia, ma anche i critici “da sinistra” del processo unitario, dovrebbero riflettere su due questioni. La prima è che per ognuno dei paesi europei è difficile immaginare un’alternativa economica e politica migliore alla permanenza nell’Unione. La seconda è che oggi non è in discussione se costruire ex novo l’Unione europea e/o la moneta unica, ma se procedere alla necessaria riqualificazione delle scelte fatte – improntate ad un iniquo e controproducente liberismo austero – tenendo conto che anche solo recedere ordinatamente dalla moneta unica richiederebbe molta più cooperazione tra gli attuali paesi membri che non per avanzare verso una unione economica e politica più organica e coesa. Ma non sarebbe facile tornare indietro senza aggravare crisi col rischio di estenderla oltre la dimensione economica.
I contrasti sulla costruzione europea si stanno concentrando sulle politiche di bilancio da attuare (o imporre) nei paesi dell’Unione e l’esperienza greca si avvia ad assumere una valenza dimostrativa. Peraltro, emerge una paradossale convergenza nell’enfatizzare il debito pubblico: tra chi lo considera una “colpa” da rimuovere a tappe forzate per poter riavviare una crescita “sana” (la logica del fiscal compact) e chi tout-court lo vuole ripudiare come scelta politica riparatrice dell’economia iniqua che l’ha creato. In entrambe le posizioni si tende ad attribuire un ruolo simbolico al debito pubblico che pregiudica le possibilità di disinnescarne gli effetti negativi.
Elevati e persistenti debiti pubblici possono generare problemi per la crescita e per la distribuzione del reddito, ma per non cadere in demonizzazioni controproducenti è necessario anche tener presente che essi non hanno tutti le stesse origini e la stessa composizione dei creditori.
Ad esempio, il debito tedesco ricontrattato nella conferenza del 1953 originava da riparazioni di danni di guerra imposti dai paesi vincitori e riguardava rapporti tra stati; l’accordo fu una scelta politica lungimirante (diversa da quella successiva alla prima guerra mondiale che alimentò l’avvento del nazismo).
La questione del debito greco che Syriza vuole ridiscutere riguarda essenzialmente le condizioni imposte nel 2012 dalla troika (FMI, BCE, UE) al governo greco per il piano di salvataggio delle finanze pubbliche elleniche improntato alla logica dell’austerità che non solo sta opprimendo le condizioni economico-sociali del paese, ma sta minando la crescita dell’intera UE e le sue stesse prospettive d’esistenza. Anche in questo caso si tratta di una richiesta di ricontrattazione tra istituzioni che andrà valutata in un contesto politico.
Il debito pubblico italiano, che da decenni condiziona la nostra economia, riguarda prestiti contratti dallo stato italiano sui mercati che ogni anno vengono rinnovati per i titoli che arrivano a scadenza. Anche solo evocare forme di consolidamento da parte dei responsabili politici ed economici italiani provocherebbe reazioni dei mercati, degli altri stati, delle istituzioni internazionali e nella società ben più concrete di generici allarmismi; cosicché, prima di parlarne, sarebbe opportuno almeno confrontare preventivamente questi effetti con quelli di altre possibili politiche di rientro del debito.
A scopo esemplificativo, ricordiamo che il fiscal compact prevede che il rapporto debito/Pil sia ridotto in 20 anni entro il 60%. Per l’Italia, ciò implicherebbe avanzi annuali del bilancio pubblico primario (al netto delle uscite per interessi sul debito) la cui entità dipende dalla crescita nominale del Pil (comprensiva dunque dell’inflazione) e dal tasso medio d’interesse sul debito. Se nel prossimo ventennio ci fosse costantemente una crescita reale dell’1%, inflazione allo 0,5%, e un tasso medio d’interesse nominale sul debito del 3% (condizioni tutte più favorevoli di quelle attuali), astraendo dalle condizioni di compatibilità di queste ipotesi, per ridurre il nostro debito al 60% del Pil occorrerebbe ogni anno un avanzo primario del 6% del PIl (più di 3 volte quello programmato per il 2015) cioè una manovra annuale corrispondente a 90 miliardi attuali. E’ del tutto evidente che manovre di questa entità non sarebbero nemmeno lontanamente sostenibili né economicamente né socialmente e comunque avrebbero effetti peggiorativi sulla crescita e sul rapporto debito/Pil.
Se invece ci fosse una crescita reale del 3%, inflazione al 3% e un tasso d’interesse sul debito del 4% (valori attualmente molto ottimistici, ma non anomali) sarebbe sufficiente ogni anno un avanzo primario dell’1,8% (valore leggermente inferiore a quello programmato dal governo per il 2015; il quale, però, non consentirà né di rilanciare la crescita né di ridurre l’incidenza del debito perché inserito in un quadro di politiche “austere” che interagiscono negativamente). L’esercizio serve ad evidenziare come il rientro del debito pubblico richiederebbe oneri molto minori e comunque sostenibili se inserito in un circolo virtuoso alimentato da politiche rivolte alla crescita del Pil, a bassi tassi d’interesse e a una moderata inflazione che dovrebbe essere accompagnata da misure di salvaguardia del potere d’acquisto dei redditi da lavoro. Una politica di questo tipo – che ripagherebbe il debito con la crescita evitando gli effetti imprevedibilmente rischiosi e conflittuali di un default – avrebbe molte chance di successo proprio se effettuata a livello europeo, dove favorirebbe la crescita generale (anche della Germania), la distribuzione del reddito e la riduzione delle disomogeneità nazionali. La maggiore dimensione e la minore apertura verso l’estero dell’intero sistema economico continentale consentirebbero maggiori margini di scelta anche rispetto al necessario miglioramento della qualità sociale ed ecologica della crescita, attenuando i vincoli posti dall’equilibrio della bilancia dei pagamenti, dai mercati e dalla speculazione internazionali. Questi sarebbero aspetti strutturali del New Deal europeo necessario a ribaltare la visione liberistico-austera che sta trascinando l’UE nella crisi e verso la sua dissoluzione. E’ in questa direzione di cambiamento concreto – e non con quello genericamente “strillato” funzionale all’allarmismo conservatore – che dovrebbero convergere tutte le forze progressiste europee, a cominciare – per quanto ci riguarda più da vicino – da quelle della sinistra italiana.