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Per un’assemblea dei pacifisti italiani

Oggi la mobilitazione contro le guerre e il riarmo è centrale. Dobbiamo allargare il campo il più possibile in una visione “orizzontale” della mobilitazione (e della sua gestione) che ha bisogno di essere diffusa in “case comuni”. Inoltre la costruzione di una cultura politica deve essere capace di innervare la protesta in proposta. 

Un’assemblea dei pacifisti italiani sarebbe un’occasione importante di fronte a quello che sta succedendo nel mondo – la guerra in Ucraina, il massacro di Gaza, il riarmo globale – per rafforzare la capacità e la forza di mobilitazione del movimento pacifista nella protesta trasversale e più larga contro il riarmo e la guerra. C’è una politica della pace e della nonviolenza che ha fondamenti solidi e proposte concrete frutto di decenni di pratiche e di riflessioni.

La politica della pace e della nonviolenza non è solamente la necessaria mobilitazione contro (la guerra e il riarmo), ma anche la capacità di lavorare per un modello alternativo (economico, sociale, della sicurezza) nella costruzione della pace, come ci ha insegnato Aldo Capitini: la nonviolenza come aggiunta della politica. E’ l’insegnamento che ci viene da Padre Ernesto Balducci e Lidia Menapace, ma anche da Enrico Berlinguer che soprattutto negli ultimi anni della sua vita fece della pace, la chiave del suo impegno politico ed internazionalista.

Oggi la mobilitazione contro le guerre e il riarmo è fondamentale, centrale. Dobbiamo allargare il campo il più possibile. Ma proprio in una visione “orizzontale” della mobilitazione (e della sua gestione) – che proprio per questo non ha bisogno di essere domiciliata in una “casa comune”, ma piuttosto diffusa in “case comuni”-  la costruzione di una cultura politica deve essere capace di innervare la protesta in proposta politica e culturale. 

Il pacifismo è una di queste “case comuni”, fatta di comitati locali, reti, campagne. In questi anni il pacifismo è stato capace di creare cultura politica più che con le oceaniche manifestazioni (sempre fondamentali) con un’azione molecolare e diffusa, perdurante, forse poco visibile ma efficace. E’ quello che ricordava don Tonino Bello nell’articolo sull’Avvenire del 13 giugno 1992 (Noi pacifisti latitanti) di fronte ai rimproveri di Veltroni che ci chiedeva di organizzare manifestazioni come ai tempi del Vietnam. I lasciti (di cultura politica ed identità) più importanti che dagli anni ‘90 i pacifisti hanno lasciato non sono le grandi manifestazioni, ma dieci anni di mobilitazione diffusa durante le guerre in ex Jugoslavia – e prima in Palestina – e quello straordinario lavoro fatto dalle marce Perugia-Assisi sull’educazione dei giovani, la democrazia internazionale, le Nazioni Unite. E poi, tutto il lavoro per il disarmo, che ha sedimentato competenze e saperi diffusi.

Quindi, i movimenti e le mobilitazioni siano le più larghe possibili contro la guerra e il riarmo. Ma il pacifismo sia capace di sviluppare una sua autonoma capacità di elaborazione, proposta e di organizzazione per fare della politica della nonviolenza (a cui non rinunceremo mai) e delle politiche della pace la strada su cui camminare insieme – con tutti gli altri – nei prossimi mesi. Ci serve un po’ di orgoglio e di convinzione in più: dopo la marcia Perugia-Assisi del 12 ottobre, torniamo a parlarne.