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Stop a UsAid, l’altra faccia del disordine mondiale

Ginevra vive ore drammatiche e con lei il mondo della cooperazione per il blocco repentino dei fondi Usa: licenziamenti in massa nelle ong e sgretolamento del sistema multilaterale intorno all’Onu. E anche l’Europa taglia la cooperazione per gonfiare i bilanci della Difesa.

Definitivo collasso o possibile rigenerazione della cooperazione internazionale? 

Ginevra è in preda a una crisi esistenziale in queste settimane. Letteralmente. La più importante sede delle Nazioni Unite, la città che vanta una tradizione piuttosto impareggiabile di accoglienza e solidarietà verso i popoli, vive oggi con laceranti contraccolpi il collasso del sistema di cooperazione internazionale scaturito dagli ordini esecutivi della nuova amministrazione americana. In pochi giorni, licenziamenti in massa tra le organizzazioni non governative, drastico ridimensionamento dei programmi sul terreno, la paura di un altrettanto imminente sgretolamento del sistema multilaterale che abita la città con molte agenzie dell’ONU e non solo. Insomma, un immane senso di incredulità, e di incertezza. Il Cantone di Ginevra ha stanziato dieci milioni di dollari per sopperire alle esigenze delle persone che con inattesa rapidità hanno perso il lavoro. I tellurici ordini esecutivi di Trump hanno scosso il sistema, un sisma che “rischia di alimentare più competizione che solidarietà”, mi racconta un’amica che da anni vive e lavora nel terzo settore a Ginevra, e che di punto in bianco si trova disoccupata. 

L’America del MAGA – Make America Great Again – ha dichiarato guerra aperta al mondo della solidarietà internazionale. Il 20 gennaio, terminata la cerimonia di investitura e rientrato alla Casa Bianca, il presidente Donald Trump ha firmato tra molti un ordine esecutivo che congelava (a partire dal 24 gennaio) gli aiuti esteri statunitensi per 90 giorni. Secondo la vulgata ufficiale, questo era il tempo necessario per una complessiva revisione di conformità alle politiche che la nuova amministrazione intende perseguire, con attenzione maniacale ai programmi sui diritti sessuali e riproduttivi delle donne e/o sulla diversità e l’inclusione. Trump è da sempre un critico feroce della cooperazione allo sviluppo. A pochi giorni dall’insediamento, sul suo social Truth ha scritto che “le spese di USAID (la agenzia indipendente per la cooperazione internazionale, ndr) sono totalmente inspiegabili…chiudiamola!”. Non meno agguerrito il sudafricano Elon Musk, che su X ha definito l’agenzia “un’organizzazione criminale”, un’invettiva forse correlata all’impegno di USAID contro l’apartheid.  La Casa Bianca ha stilato un elenco di progetti USAID stigmatizzati come “sperpero e abuso”, tra cui un finanziamento di 1,5 milioni di dollari ad un gruppo LGBTQ in Serbia, un altro di 2,5 milioni di dollari per veicoli elettrici in Vietnam, e 6 milioni di dollari per sviluppare il turismo in Egitto – quest’ultimo, pare, approvato durante il primo mandato di Trump!

La società civile americana, sotto shock, non si è data per vinta e ha attivato immediatamente proteste e contenziosi. L’ondata di azioni legali intentate dall’American Federation of Government Employees (il maggiore sindacato dei lavoratori pubblici), dall’American Foreign Service Association, da Public Citizen e Oxfam America, in rappresentanza di ong, lavoratori e altri beneficiari dei fondi per gli aiuti, a metà febbraio è stata recepita dal giudice federale Amir Ali, il quale riusciva a impugnare l’ordine esecutivo di Trump e a congelarlo, dando alla amministrazione due giorni per liberare nuovamente i fondi bloccati su scala globale. La Corte Suprema, messa alle strette dalle inadempienze e non-collaborazione della Casa Bianca, è intervenuta il 23 febbraio per bloccare a sua volta questa ingiunzione. Così, nell’incedere alterno dell’iter legale, e con il piede sull’acceleratore della verifica dei programmi di cooperazione internazionale da parte del suo dipartimento, il segretario di Stato Marco Rubio, cui fa capo USAlD, ha deciso di dare la svolta e portare a compimento – numeri alla mano – il piano di eliminazione dei contributi umanitari e di sviluppo americani nel mondo, cancellando 60 miliardi di dollari di progetti, il 90% dei fondi complessivamente allocati all’azione umanitaria e di sviluppo. 

La tagliola sui fondi della cooperazione internazionale ha innescato un effetto slavina su vasta scala, così dirompente sul diritto alla vita di popolazioni del pianeta che, al confronto, la pur grave crisi del “sistema Ginevra” appare un esito tutto sommato gestibile e secondario. Il 27 febbraio –  sconcertante ai miei occhi la velocità degli eventi – l’amministrazione Trump ha definitivamente chiuso i contratti che riguardano circa 10.000 progetti di salute finanziati da USAID (5.800) e dal Dipartimento di Stato (4.100). La repentina interruzione del finanziamento annovera nella fattispecie centinaia di programmi di organizzazioni africane impegnate nella lotta alle malattie infettive, con interventi di diagnosi e terapie per HIV, tubercolosi e malaria. Ma coinvolge anche progetti di assistenza umanitaria e servizi di approvvigionamento di nutrizione, acqua e strutture di igiene nel mondo, interventi a popolazioni in pericolo per via di conflitti armati. Tanto per fare un esempio, il congelamento dei fondi umanitari ha prodotto la chiusura repentina dell’80% delle cucine comunitarie di emergenza in Sudan, con conseguenze molto serie per 2 milioni di persone che si trovano più esposte alla fame, la crisi di cibo più diffusa nel mondo in questo momento, in almeno cinque aree del paese in guerra.  “Questo finanziamento viene interrotto per convenienza e interesse del governo americano”, è l’argomento ufficiale, nero su bianco, nel testo della mail inviata il 26 febbraio alle migliaia di organizzazioni interessate. Ad alcune di esse era stata annunciata la prospettiva di un waiver, una sospensione dei tagli in virtù della funzione salvavita del loro lavoro. Ma la comunicazione di fine febbraio è tassativa: il cordone della borsa è reciso per tutti, senza eccezione, ivi compresa UNAIDS, il programma dell’ONU su HIV/AIDS e UNFPA, il fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione. Così 4.700 impiegati sono stati messi in congedo amministrativo dal 23 febbraio (per essere possibilmente ricollocati), 1.600 sono stati licenziati in tronco. Il sito ufficiale dell’agenzia presenta una fredda burocratica nota di istruzioni pratiche: il 27 e 28 di febbraio erano i due giorni validi per prelevare gli oggetti personali, o per riconsegnare quanto di proprietà USAID. 

Confesso di non aver mai nutrito nella mia esperienza professionale una sperticata simpatia per USAID, nata nel 1961 durante la amministrazione di J.F. Kennedy, nel bel mezzo della guerra fredda, con il compito di contenere l’influenza sovietica nel mondo. Maschera dell’impero? Certo, ma va detto che gli Stati Uniti non sono stati certo gli unici ad abusare la agenda della cooperazione per mantenere sfere di influenza nel Sud globale. I governi europei sono stati maestri nel metter a buon frutto la cattiva coscienza di colonizzatori – salvo fare della cooperazione un creativo strumento di neocolonialismo. I numeri sono però inequivocabili: con i 40-43 miliardi di dollari distribuiti più o meno ogni anno in 130 paesi (cioè lo 0,6% della spesa totale americana per anno), e 10.000 persone dislocate per due terzi nei paesi in via di sviluppo, USAID rappresentava da sola il 42% di tutti gli aiuti di cooperazione globali. La maggior parte dei finanziamenti erano indirizzati a programmi sanitari, ad es. i programmi di vaccinazione contro la poliomelite, ma grande sforzi erano rivolti pure alla distribuzione del cibo in situazioni di emergenza, con il più avanzato sistema di identificazione della fame nel mondo, considerato da tutti gold-standard. Quindi il danno è semplicemente irreparabile.

Di che cosa parliamo, concretamente? Il New York Times è riuscito ad ottenere conferme su alcuni tra i principali programmi umanitari e di salute globale che sono stati del tutto cancellati dai tagli della nuova amministrazione. Ne riportiamo qui l’elenco per dare un senso dimensionale, e soprattutto delle conseguenze umane, dell’operazione: 

  • 131 milioni di dollari per il programma di vaccinazione antipolio dell’UNICEF, che finanziava la pianificazione, la logistica e la consegna dei vaccini a milioni di bambini.
  • Un contratto di prevenzione della malaria da 90 milioni di dollari che forniva regolarmente zanzariere, test e trattamenti per la malaria a 53 milioni di persone.
  • Un progetto nella Repubblica Democratica del Congo, che gestiva l’unica fonte di acqua per 250.000 persone sfollate che vivono in zone di conflitto.
  • Tutti i costi di funzionamento del Global Drug Facility, insieme al 10% del budget per le terapie per il più grande programma di fornitura di farmaci contro la tubercolosi al mondo, rivolto a quasi 3 milioni di persone, tra cui 300.000 bambini, nel 2024.
  • Tutti i progetti di assistenza e trattamento dell’HIV in Lesotho, Tanzania ed Eswatini gestiti dalla Elizabeth Glaser Pediatric AIDS Foundation, che serviva 350.000 persone, tra cui 10.000 bambini e 10.000 donne in gravidanza a cui venivano prestate le cure per prevenire la trasmissione materno-fetale.
  • Un progetto in Uganda per condurre la sorveglianza e identificare i contatti delle persone con Ebola, e seppellire i morti a causa del virus.
  • Un contratto di gestione delle forniture mediche da 34 milioni di dollari in Kenya.
  • 87 rifugi in Sud Africa, a sostegno di 33.000 donne sopravvissute a stupri e violenze domestiche.
  • Il programma di salute comunitaria in Yemen per la identificazione dei bambini malnutriti.
  • I servizi sanitari pre e post-natali in Nepal, con assistenza a 3,9 milioni di bambini e 5,7 milioni di donne.
  • Un programma in 6 nazioni dell’Africa occidentale gestito da Helen Keller International che forniva medicine a più di 35 milioni di persone per prevenire e curare le malattie tropicali dimenticate.
  • Un progetto di trattamento della malnutrizione acuta grave in Nigeria, per 5,6 milioni di bambini e 1,7 milioni di donne. L’esito è che 77 strutture sanitarie hanno smesso di curare i bambini gravemente malnutriti, mettendo 60.000 bambini con meno di 5 anni a rischio immediato di morte.
  • Cliniche sanitarie in Sudan, che tagliano tutti i servizi sanitari in una delle più grandi aree della regione del Kordofan.
  • Un progetto contro la malnutrizione e per la salute materna in Bangladesh rivolto a 144.000 persone, che forniva cibo alle donne in gravidanza malnutrite e vitamina A ai bambini.
  • Il programma REACH contro la malaria che forniva farmaci antimalarici ai bambini, proteggendo più di 20 milioni di persone in 10 paesi africani.
  • Un programma di Plan International che garantiva forniture mediche, supporto nutrizionale e acqua potabile a 115.000 persone sfollate o colpite dal conflitto in Etiopia.
  • Oltre 80 milioni di dollari in finanziamenti a UNAIDS, la agenzia dell’ONU a sostegno dei programmi globali di trattamento dell’HIV, compresa la raccolta di dati.
  • Un programma della Iniziativa del Presidente contro la Malaria per il controllo delle zanzare in 21 paesi.
  • Il programma di cura dell’HIV e della tubercolosi in Uganda, gestito dalla Baylor College of Medicine Children’s Foundation, per il trattamento di 46.000 persone.
  • Consorzio di ricerca Smart4TB, il principale gruppo di ricerca mondiale che sviluppa strategie per la prevenzione, la diagnostica e il trattamento della tubercolosi.
  • Il progetto Demographic and Health Surveys, il principale programma di raccolta dati in 90 paesi, che fornisce dati vitali sulla salute materna e infantile, la nutrizione e altro ancora.

La dottoressa Natasha Davies, attiva in Sudafrica sul fronte dell’HIV da due decenni tramite i progetti del Programma del Presidente contro l’HIV, PEPFAR, mi racconta il trauma del limbo in cui è entrata il 24 gennaio, con la prima notifica di Trump, che l’ha costretta “a disconnettermi improvvisamente dai pazienti e dal personale sanitario con cui ho sempre lavorato, e che dal 3 marzo non ha ufficialmente più un lavoro: sono 2.800 persone”. Il suo lavoro era focalizzato sui casi complessi che richiedono cure speciali, soprattutto donne in gravidanza e adolescenti: “nella quotidiana confusione mescolata di speranza, casi legali, e mancanza di notizie certe, è stato difficile anche solo pianificare un futuro, visto che non avevamo idea di ciò che sarebbe accaduto nelle 24 ore successive”. Prevede un destino di morte per i suoi pazienti.  Lo ribadisce anche Catherine Kyobutungi, direttrice esecutiva del Centro Africano di Ricerca su Popolazione e Salute: “Moltissima gente morirà, eppure non la sapremo mai quantificare, perché anche i programmi per contare i morti sono stati tagliati”. 

La gran parte dei fondi americani erano investiti in Africa Sub-Sahariana, Asia, ma anche Europa: per lo sforzo umanitario in Ucraina. La chiusura dei rubinetti USAID rappresenta un’altra rovinosa manifestazione della crisi, accanto a quella negoziale. Dall’inizio dell’invasione russa nel febbraio 2022, Kiev è stata la principale destinataria degli aiuti americani, per una cifra che ammonta a 37, 6 miliardi di dollari (2,6 miliardi assegnati all’emergenza, 5 miliardi ad interventi di sviluppo, 30 miliardi a sostegno del bilancio ucraino). Gli scenari sono sconfortanti per la popolazione, che ha già pagato un prezzo altissimo al cinismo geopolitico internazionale. 

Si celebrano quest’anno gli 80 anni delle Nazioni Unite, in un clima mondiale a dir poco imbarazzante. I principi fondativi di quel processo di ricostruzione della convivenza subito dopo la Seconda guerra mondiale – la solidarietà, la coesistenza, la responsabilità, la cooperazione internazionale, la reciprocità – si stagliano come un polveroso ideale ricordo del passato, in collisione frontale con il piglio nazionalista e immobiliarista del nuovo presidente e dei suoi accoliti, potenti in ragione dei capitali che impersonano, bastanti a sé stessi. L’internazionale sovranista, che interpreta a suo modo gerarchie di popoli e di diritti, ha moltitudine di corifei anche in Europa, dove dall’inizio della nuova legislatura si imbandisce la tavola di tutta un’altra cooperazione, sempre più egemonica e in mano ai privati, sempre meno a favore dei popoli. Gran Bretagna, Francia, Germania, Olanda, hanno già ridimensionato in misura significativa i rispettivi bilanci di aiuto pubblico allo sviluppo, pronti a gonfiare i bilanci per la difesa. 

Che lo tsunami trumpiano possa offrire la sponda per una profonda e quanto mai necessaria mutazione al sistema di cooperazione internazionale, fuori controllo, pieno di difetti e disfunzioni, e ancora troppo colonialista malgrado le buone intenzioni, è troppo presto per dirlo. Domina per ora un devastante senso di smarrimento.  La lezione americana tuttavia – uscita dalle agenzie dell’ONU e interruzione della cooperazione internazionale – per quanto dolorosa libera spazi che potrebbero essere occupati da nuovi protagonisti, nuove idee, nuove prospettive ed epistemologie. Forse dovremmo tornare sui passi della pandemia e della cogente pedagogia di Covid, che solo cinque anni fa arrivava in Europa dettando l’evidenza della fragilità umana e della nuova autentica solidarietà planetaria da mettere in campo.  Non si vedono per ora cavalieri bianchi all’orizzonte.