L’Italia è il Paese europeo con la maggiore presenza di aree interne. La Strategia nazionale per le aree interne non ha prodotto fin qui risultati apprezzabili. Occorrerebbe potenziare il welfare e le infrastrutture soprattutto al Sud, e favorire la fusione dei piccoli comuni.
L’Italia è il Paese europeo più dualistico per estensione e persistenza, e quello con la maggiore presenza di aree interne. Le aree interne ospitano oltre il 20% della popolazione italiana e ne fanno parte quasi il 50% dei comuni italiani (Palomba, 2019). L’Italia si è dotata di una Strategia nazionale per le aree interne (SNAI) solo in tempi recenti, quando si è reso palese il loro spopolamento, per il combinato delle emigrazioni e della denatalità. La gran parte della popolazione dei Paesi OCSE risiede nelle città (circa il 55%), così come quella europea (circa il 59%). Viene rilevato, nel caso italiano, che la gran parte del valore aggiunto nazionale è prodotto nelle città metropolitane, con percentuali in crescita dai primi anni Duemila (Simone, 2024).
L’intervento a favore delle aree interne ha fondamentalmente due motivazioni: in quei luoghi risiedono prevalentemente anziani, che hanno difficoltà a spostarsi, e che ovviamente dovrebbero godere degli stessi diritti di cittadinanza di chi risiede in città. In secondo luogo, le aree interne italiane sono aree nelle quali si conserva la storia locale, la tradizione gastronomica e si custodisce un rilevante patrimonio paesaggistico, naturale e culturale. In altri termini, le aree interne vanno difese per la riproduzione dell’identità collettiva, contrastando l’omologazione culturale associata alla globalizzazione. Gli esempi più evidenti di omologazione riguardano i fenomeni di “gentrificazione” dei centri storici delle città oggetto di “overtourism”.
L’impoverimento delle aree interne ha molteplici cause:
- La prima, che è un risultato spontaneo dell’operare dei meccanismi di mercato, fa riferimento ai meccanismi di polarizzazione che, in Italia (e in gran parte del continente europeo, secondo le analisi della Commissione), seguono un triplo movimento: la polarizzazione intorno alle aree centrali del continente, l’aumento delle divergenze regionali all’interno dei singoli Paesi e l’incremento, all’interno di queste, delle divergenze fra città e aree interne. Questi meccanismi di disequilibrio si riproducono soprattutto attraverso la mobilità dei lavoratori 1. L’ultimo Rapporto SVIMEZ (novembre 2024) certifica che negli ultimi dieci anni sono emigrati dal Sud circa 200.000 individui. Due studenti meridionali su dieci – dunque circa 20.000 studenti all’anno – si iscrivono in una sede universitaria del Centro-Nord e quasi quattro su dieci a una laurea magistrale in un ateneo del Nord. Istat, nel Rapporto 2024, calcola che “si sono complessivamente spostati dalle aree interne verso i centri poco meno di 330 mila giovani laureati di 25-39 anni, mentre appena 45 mila verso l’estero. Nello stesso periodo, sono rientrati nelle aree interne 198 mila giovani laureati”, così che “la perdita di capitale umano è pari a 132 mila giovani, risorse qualificate a favore dei centri e di 28 mila a favore dei Paesi esteri”.
- C’è anche da considerare un aspetto storico. Le aree periferiche del Mezzogiorno – e ancor più le aree interne meridionali – non hanno mai avuto un’ampia base industriale e, per conseguenza, non hanno storicamente sperimentato lotte operaie e conflitti sociali. Una ragionevole congettura porta a ritenere che questa parte della dimensione storica dei rapporti città-aree interne, nell’esperienza italiana, può dar conto del minore sviluppo economico di queste ultime. Non è casuale il dato per il quale la maggiore crescita economica al Sud si ha e si è avuta nelle città portuali-industriali (Romeo, 2019). Non a caso, inoltre, i flussi migratori dalle aree interne si rivolgono, in larga misura, alle città (Simone, 2024). L’ultimo Rapporto ISTAT quantifica in oltre il 40% il valore aggiunto nazionale prodotto nelle aree interne.
A ciò si aggiunge la constatazione in base alla quale la strategia nazionale per le aree interne (SNAI) secondo l’ufficio di valutazione del Senato, ha prodotto risultati modesti, pure a fronte delle ingenti risorse stanziate. Questo esito viene imputato all’eccessivo decentramento per la gestione dei finanziamenti, confermando che, in molti casi, un assetto centralizzato è più efficiente di una forte decentralizzazione istituzionale. Il problema è accentuato dalla carenza di personale, dall’elevata età media dei dipendenti pubblici, dalla carenza di fondi per i piccoli comuni interni del Mezzogiorno.
Su questa linea, si possono avanzare – e sono state avanzate – alcune proposte per il rilancio produttivo delle aree interne, e dunque per contrastarne l’abbandono. Si fa qui riferimento a tre assi di intervento. Il primo attiene al potenziamento delle infrastrutture materiali e del sistema dei trasporti. Il secondo riguarda il potenziamento quantitativo della pubblica amministrazione per la fornitura di servizi di welfare e il loro miglioramento qualitativo, per l’obiettivo di agevolare la natalità, di migliorare la qualità della vita della popolazione (in larga misura anziana) residente, di accrescere la produttività del lavoro tramite fornitura di migliore sanità e migliore istruzione. Il terzo riguarda l’introduzione ope legis di normative che impongano la fusione dei comuni, per realizzare, contestualmente, economie di scala e accelerazione dei tempi di decisione.
Nel primo caso, come è noto, vi sono ampi margini di miglioramento sul piano qualitativo e di potenziamento quantitativo dell’infrastrutturazione materiale italiana e soprattutto meridionale. Si stima, a riguardo, che solo una regione meridionale su 8 (la Campania) è collocata fra le prime 100 regioni europee per competitività infrastrutturale.
Il secondo problema è collegato al notevole sottodimensionamento della PA italiana, e ancor più meridionale, quantificato come rapporto fra numero di dipendenti pubblici e residenti. La PA italiana è attualmente quella con il perimetro più ristretto fra i principali Paesi europei, con i salari più bassi per i suoi dipendenti e con la più elevata età media (circa 60 anni). la Legge di Bilancio 2025 accentua il problema, disponendo un nuovo blocco del turnover nella misura del 75%, dopo quello che va dal 2007 al parziale sblocco del 2019.
Il terzo problema riguarda l’elevata frammentazione istituzionale, dunque l’esistenza di troppi comuni, ciascuno dei quali è troppo piccolo. La fusione dei comuni potrebbe portare benefici in considerazione dei seguenti effetti. In primo luogo, si produrrebbe riduzione dei costi per gli enti locali attraverso l’unificazione delle strutture amministrative e la soppressione della duplicazione degli uffici comunali; in secondo luogo, si determinerebbero economie di scala nella gestione amministrativa nelle aree interne. La teoria economica e l’esperienza amministrativa stabiliscono, infatti, a riguardo, un principio di ordine generale: il grado di divisione del lavoro, e dunque la specializzazione dei lavoratori, aumenta all’aumentare delle dimensioni dell’unità produttiva, implicando maggiore efficienza amministrativa.
Riferimenti bibliografici:
Miotti, D. (2019) La demografia come destino? Il futuro di un’Italia sempre più piccola, meno ricca e invariabilmente duale, “Rivista economica 3-4, settembre-dicembre, pp. 723-737.
Romeo, S. (2024). La parabola delle aree portuali-industriali in Italia, “Italia contemporanea”, agosto, n.305
Palomba, M.A. (2024). Un pezzo d’Italia che si va svuotando: piccoli paesi addio, “Il Fatto Economico”, 10 agosto, p.13.Sergio, L. (2023). La fusione dei comuni tra risparmi di spesa pubblica e inventivi finanziari. Roma: Carocci.
Simone, G. (2024), The polarisation of Italian metropolitan areas, 2000–2018: structural change, technology and growth, “Cambridge Journal of Regions, Economy and Society”, 2024, XX, 1–25
Note:
1 Che implica un continuo aumento dell’età media nel Mezzogiorno e nelle aree interne. Miotti (2019) rileva come questa dinamica contribuisce (e contribuirà ad accrescere) i divari regionali in Italia.