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Nucleare nuovo, scorie vecchie

Il nuovo programma nucleare italiano sfida le decisioni di due referendum popolari (non populisti) del 1987 e del 2011, e dimentica i problemi irrisolti delle scorie nucleari che già ci sono, colpiscono la salute e non sappiamo dove metterle.

Il professor Giovanni Guzzetta insegna diritto pubblico alla seconda Università di Roma. Chi meglio di lui è minutamente informato dei fatti e dei misfatti dell’energia nucleare? Il ministro dell’ambiente e delle cose analoghe Gilberto Picchetto Fratin gli ha perciò affidato il compito di dirigere l’intera fase di rinascita dell’energia nucleare italiana, colpita e affondata dal voto popolare del 1987. 

Si trattava di un referendum ispirato dal disastro sovietico di Chernobyl, con pericoli e conseguenze in gran parte d’Europa. Il disastro di Chernobyl, cioè l’esplosione del quarto reattore della centrale nucleare, impiantata in Ucraina, repubblica facente parte dell’Unione sovietica di allora, al confine con la Bielorussia, regione della madre sovietica di allora, si è determinato il 26 aprile del 1986, un anno prima del referendum. 

Il ministro Picchetto, la cui esperienza ambientale è ben nota, pur sacrificata dall’attività di dottore commercialista nella vita civile prima di essere chiamato a più alti destini, è sicuro di mettere in funzione un programma di ripresa e rilancio del nucleare italiano, forsanche con uso di micro centrali di nuovissima concezione, per non parlare di un futuro radioso, ormai quasi raggiungibile: la fusione nucleare, quella del sole e delle altre stelle. 

Un convinto dissenso, sia pure tardivo, alle intenzioni del referendum del 1987 l’ha dettato di recente il senatore Carlo Calenda che nella sua intervista a Emilia Patta sul Sole 24 ore (“Senza il nucleare la decarbonizzazione è impossibile”, 26 ottobre 2024) con queste parole: “l’abbandono del nucleare, senza ragionare e sull’onda dell’emozione, è stato il primo atto di vero populismo di questo Paese”.

Come è comprensibile, non si vuole farla facile, molto meglio approfondire programmi e futuri. Il populismo “emozionale” di cui questo becero paese è intriso è tale da essere perfino ribadito con un secondo referendum, un quarto di secolo dopo, (nel ben più recente 2011), sull’onda di una nuova emozione, causata dal disastro giapponese (alla centrale di Fukushima). Sarà sufficiente la rinuncia al populismo, auspicata dal senatore Calenda per consentire al commercialista Pichetto e al giurista Guzzetta di elaborare una strategia vincente nel settore nucleare? I tempi non sono facili ed esistono grandi scogli da aggirare.

Un primo scoglio

Un primo scoglio riguarda lo sgradevole residuato, notoriamente indicato con il nome onnicomprensivo di “scorie”: quanto rimane dell’attività nucleare civile con diversa durata e pericolosità. Le scorie sono una inopportuna conseguenza dell’uso di materiali nucleari per costruire energia o per altri usi; un’energia nucleare che come nota il già citato senatore Calenda, è indispensabile se si vuole alla data prefissata “decarbonizzare” l’Unione europea. Altrimenti usando, come propongono alcuni, le energie verdi, per esempio il solare, si trascura l’ordine di grandezza. Acutamente, osservava Calenda nella sua puntigliosa intervista, nascerebbe la necessità di coprire un’area come la Liguria di pannelli solari. Difficile realizzazione, ammesso che i conti siano corretti, la spesa non troppo elevata e la geografia delle montagne degli altri rilievi non si ribelli. Se non si ribellerà la geografia per il costo troppo elevato, lo farebbero senza dubbio i genovesi e tutti gli altri, ben noti nel mondo per essere molto attenti al soldo e poco disposti a regalare la buona terra. Genovesi a parte, sorge un’ingenua domanda, da inesperti del ramo atomico: carbonizzare è certo un guaio, ma nuclearizzare è davvero meglio? 

Un governo di sedicente centrosinistra, confuso e disperato, aveva cercato di organizzare un meccanismo capace di eliminare i disturbi lasciati indietro, in Italia, nella breve stagione nucleare, dopo che il referendum del 1987 aveva detto basta.  Era la fine del secolo scorso. Infatti, una volta decisa, populisticamente, come insegna Calenda, l’uscita dal nucleare e dalle sue centrali, occorreva disperdere i residui di quella, pur se ridotta, attività di Caorso, unica centrale nucleare significativa in Italia, e delle sue sorelline. 

Apriamo una parentesi. Erano due le centrali neonate, centrali piccolette, prima ancora della più nota e potente centrale di Caorso, nel piacentino, Quelle due, erano nate più al Sud. Molto vicine tra loro; erano due perché facevano parte di due gruppi industriali o famiglie concorrenti: l’una era messa in campo dall’Eni, Ente nazionale idrocarburi, che cercava alternative ai petroli, in grande anticipo sui tempi. L’Eni passava per essere vicino ai socialisti del Psi; e viceversa; la sua centrale era localizzata a Cisterna di Latina. Per ostacolarlo, gli altri poteri forti, raccolti nell’Iri, democristiano e correntizio, ottennero per l’Iri un quarto di quella centrale di Latina e se ne attribuirono (o spartirono?) un’altra, assai vicina geograficamente, a Sessa Aurunca, alle foci del Garigliano. Nacque una nuova società, spartita tra le società maggiori dell’Iri, Finelettrica, Finmeccanica, Finsider, tutte presenti nella società nuova nata, Senn. Tutte volevano essere presenti e facevano a spallate per comandare, assumere, nuclearizzare secondo gli schemi preferiti.  Nacque allora, era ormai in vista il nuovo secolo, una nuova società, tutta governativa. Nuova nata era la società Sogin, totalmente a capitale pubblico e dipendente dal ministero del Tesoro: essa aveva il compito di ripulire (e rimediare ai guasti). Questo nel 1999. Subito dopo, fatte le elezioni e cambiato il governo, il vittorioso centro destra berlusconiano confermò la Sogin che si dette da fare; imparò dalle imprese simili esistenti in tutta Europa e scelse un luogo, Scanzano Jonico, in Basilicata, che riteneva appropriato – molto lontano dal centro del mondo e poco disposto alla lotta – per versarvi le scorie della centrale di Caorso, unica ad aver svolto un ruolo significativo in Italia e delle altre attività minori, del nucleare nazionale (centrale del Garigliano, centrale di Latina, poco distante dalla precedente, ma, come si è detto,  con ben altri natali). La risposta a Scanzano fu una mobilitazione generale, con occupazioni della miniera di salgemma e di ogni luogo intorno, e della spiaggia; e poi di ogni genere di uffici pubblici esistenti nei dintorni. Tutto fermo, tutto lo Stato reso impossibile; e infine un corteo di centomila persone; tipico esempio di populismo, tanto per dar un po’(centomila) di ragioni a Calenda. 

Scanzano per tutti

La provincia di Matera che si sentiva di nuovo presa di mira e tutta la Regione, era in marcia, con pieno consenso del resto del Meridione italiano. Era la “rivolta sociale”, per dirla con un’espressione che la destra di governo oggi non apprezza. La scelta di Scanzano fu accantonata una volta per tutte. Sogin però non perse tempo e in una ventina d’anni individuò una cinquantina di posti italiani, avendo l’accortezza di tenerli segreti, per decidere una volta per tutte il luogo profondo per farne il deposito finale, valido per trecento anni o anche per centomila anni futuri e nel frattempo aver modo di proporre elargizioni cospicue alla regione-provincia-città-comunità che avesse alla fine accettato l’ingombro. Sempre nel frattempo partivano e partono ancora treni di rifiuti nucleari dall’Italia, verso  la vicina  Slovenia o l’attrezzata Francia, tanto per ridurre i pesi maggiori. Anche questo, senza dirlo troppo in giro. 

Sogin, naturalmente non fece mancare la sua competenza. “Sì. Nei 300 anni necessari a far decadere la radioattività dei rifiuti a molto bassa e bassa attività (fase di controllo istituzionale) la struttura sarà monitorata per (…) assicurare la massima efficienza delle barriere. Resterà inoltre operativa una rete di monitoraggio ambientale e radiologico nei dintorni del sito”. Il fatto che ci sia un controllo sicuro dopo i primi 300 anni, ci può tranquillizzare. 

E ancora: Le ultime informazioni, attendibili, spiegano:

“Il deposito geologico è una struttura per la sistemazione definitiva dei rifiuti radioattivi a media e alta attività, realizzata nel sottosuolo a notevole profondità (di solito diverse centinaia di metri), in una formazione geologica stabile (argille, graniti, salgemma). Questo consente l’isolamento dei radionuclidi dall’ambiente per periodi molto lunghi (fino a centinaia di migliaia di anni). L’unico deposito di questo tipo in esercizio è il WIPP (Waste Isolation Pilot Plant) a Carlsbad (New Mexico – USA) che ospita rifiuti a media e alta attività di origine militare. In Europa, Svezia e Finlandia hanno già individuato il sito (rispettivamente nelle municipalità di Östhammar e Olkiluoto) per il deposito geologico; mentre in Francia il deposito è stato localizzato a Bure ed è in corso la fase di licensing. Germania, Regno Unito, Repubblica Ceca, Svizzera e Ungheria hanno già avviato il processo di localizzazione.” 

Tra 100 mila anni che lingua si parlerà?

Sono processi che presentano spesso difficoltà. Ne riferiscono Elena Stramentinoli e Luigi Mastropaolo nel loro libro “Ritorno al nucleare”, pubblicato dalle edizioni Dedalo. Sembra non si tratti di un ritorno tranquillo quello di cui i due autori sono testimoni: dopo aver ottenuto l’accesso al sotterraneo finlandese di Onkalo, prima citato, essi riportano una considerazione della direttrice del luogo, Tiina Jalonen: “il fatto di non aver più accesso a queste scorie sarà, secondo i costruttori, una sicurezza per tutti, anche per chi verrà dopo di noi. Si è deciso infatti di non lasciare nessuna indicazione riguardo al deposito. Che lingua si parlerà qui tra 100 mila anni? Nessuno può rispondere a questa domanda. Nel dubbio meglio non dire niente”.

Ma cosa abbiamo seppellito che è meglio non sapere? Quale paura perenne stiamo costruendo? Ne vale la pena, o sarebbe meglio rinunciare a una tale energia?

Il fastidio – chiamiamolo così – di una presenza di scorie radioattive nei dintorni non è l’unico inconveniente che accompagna l’industria nucleare. C’è anche la paura, o il sospetto, per i tumori. Ha effetti deleteri sulla salute umana la vicinanza con un’attività connessa all’atomo, questo sconosciuto? I negazionisti, ai tempi dei due referendum nucleari, han fatto la storia, altro che quegli straccioni di populisti, rimproverati con severità dal senatore Calenda. Così, per rimettere la verità al suo posto, si sono mobilitati gli scienziati del ramo assicurazioni per tranquillizzare il pubblico timoroso dell’assoluta innocuità dell’attività atomica nelle vicinanze. Di nuovo è Il Sole 24 Ore a fornirne con dovizia le prove. Lo studio è del 2017 ed è segnalato da Jacopo Giliberto sul quotidiano citato. Un primo aspetto è che sono finalmente elencate tutte le aree sospette, tanto per mostrare che non ci sono gravi conseguenze medicali. L’elenco è utilissimo: sappiamo finalmente la consistenza del nucleare made in Italy: sono in tutto nove installazioni che vengono tutte indicate per precisare meglio l’assenza di conseguenze significative per la gente dei dintorni. Ma ecco l’elenco: 

Bosco Marengo (Alessandria) dove vi sono diverse istallazioni come la Fn Fabbricazioni nucleari

Caorso (Piacenza) con la centrale atomica

Ispra (Varese) con il centro ricerche ex Cnrn-Cnen-Enea poi Euratom e ora Irc della commissione europea, nel quale ci sono due reattori atomici e uno stoccaggio di rifiuti nucleari

Latina con la centrale atomica di Borgo Sabotino

Rotondella (Matera) con il centro ricerche della Trisaia dell’Enea

Saluggia (Vercelli) con diversi impianti atomici tra i quali lo stoccaggio nucleare dell’Eurex

Sessa Aurunca (Caserta) con la centrale nucleare del Garigliano

Trino Vercellese (Vercelli) dove c’è la centrale atomica

Roma-Casaccia dove ci sono le istallazioni dell’Enea e gli impianti Nucleco.

Ridiamo voce al tranquillizzante Sole. “In sintesi, in questo studio di analisi della mortalità delle popolazioni residenti nei comuni sedi di impianti nucleari sono stati osservati alcuni eccessi di mortalità per alcune patologie che possono essere legate alla esposizione a radiazioni ionizzanti. Da rilevare che tali eccessi si verificano solo in alcuni comuni e in singole decadi di osservazione e che si rilevano anche un numero simile di difetti di mortalità, rispetto ai valori medi delle regioni di appartenenza. Gli eccessi di mortalità osservati non possono essere direttamente attribuibili, se non in piccola parte, all’esposizione della popolazione a dosi di radiazioni ionizzanti causate da rilasci di radioattività dagli impianti….” E così via.

Una storia finale

Un’ultima storia è quella relativa ai proiettili a uranio impoverito. Una meritoria recente invenzione bellica visto che data dalla prima guerra irachena dell’esercito americano – primi anni novanta del secolo scorso – ma i nostri non hanno perso tempo e se ne sono serviti nella guerra jugoslava degli ultimi anno novanta. Meritoria, perché sarà presto trovato un ritrovato dell’uranio impoverito a fin di bene. I medici populisti hanno dato un nome al nuovo morbo nucleare: “Sindrome dei Balcani”, “una lunga serie di malattie –  per lo più linfomi di Hodgkin e altre forme di cancro – che hanno colpito i soldati italiani al ritorno dalle missioni internazionali”.  Manca un’informazione precisa, è ovvio, ma perlopiù si indica in qualche decina o centinaia di morti a carico di missioni che non dovremmo fare. Ma trascuriamo per questa volta, la Costituzione italiana. Trascuriamo anche gli effetti sui soldati che fronteggiano i nostri o le popolazioni civili nel mezzo dello scontro. Quale impianto italiano costruisce questi aggeggi, questi maledetti proiettili a uranio impoverito? Sulla base di quale disposizione, data da chi?

Un carico da novanta

Siamo curiosi, ma non solo noi; c’è anche un personaggio formidabile, un vero e proprio carico da novanta, dietro al quale ci ritiriamo in buon ordine: “Nel 2019 viene riconosciuta la gravità della contaminazione e le reticenze dei vertici militari. A tal proposito sono significativi i due esposti, presentati alla Procura militare e alla Procura ordinaria di Roma, da parte del generale Roberto Vannacci, comandante dell’Operazione “Prima Parthica” in Iraq, al fine di denunciare le gravi e ripetute omissioni nella tutela della salute del contingente italiano”.