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La mancata riforma della cittadinanza italiana

La legge sulla cittadinanza in Italia risale al 1992, quest’estate il tema è tornato d’attualità e si stanno raccogliendo le firme per un referendum (entro il 30 settembre). Il dibattito politico è invece ancora schiacciato sulla confusione tra status giuridico e pretesa “italianità”, un concetto molto pericoloso.

Una legge vecchia, e un dibattito fuorviante

La legge che regola l’acquisizione della cittadinanza italiana risale all’ormai lontano 1992: fu concepita e approvata in un periodo in cui i flussi migratori dall’estero erano relativamente contenuti, e in cui questioni che negli ultimi anni hanno acquisito grande rilevanza – come quella dei figli di stranieri nati sul suolo italiano, ma non riconosciuti come cittadini italiani – non erano ancora oggetto di un ampio dibattito pubblico.

Si tratta dunque di una legge vecchia, del tutto inadeguata a regolare fenomeni profondamente mutati nel tempo. Non a caso da almeno due decenni associazioni, movimenti di base, intellettuali ed esponenti politici (questi ultimi soprattutto di centro-sinistra) invocano una riforma complessiva della cittadinanza. Il dibattito degli ultimi anni, tuttavia, è stato segnato da almeno due rilevanti limiti: il primo di carattere – per così dire – «tematico», l’altro di natura più ideologica.

In primo luogo, la discussione si è concentrata quasi esclusivamente sui minori nati in Italia da genitori immigrati, e dunque sull’ampliamento del cosiddetto «ius soli». Si tratta di un tema di indubbia rilevanza, se solo si pensa che, oggi, quasi un quinto degli stranieri residenti sono nati e cresciuti nel nostro Paese (sono quindi «stranieri» unicamente in base a una forzatura giuridica…): e tuttavia, la questione dell’accesso allo status civitatis e ai diritti che gli sono connessi è assai più ampia, come vedremo tra poco, e meriterebbe di essere affrontata in tutta la sua complessità.

In secondo luogo, la cittadinanza italiana (che è, o dovrebbe essere, nient’altro che uno status giuridico) è stata sistematicamente confusa con l’«italianità», nozione dai contorni quanto mai vaghi che indicherebbe un insieme di (presunti) caratteri identitari nazionali. A loro volta, questi caratteri identitari vengono rintracciati talora nella lingua («è italiano chi parla italiano»), talora nella «cultura» o nelle «tradizioni», ma non sono rari i casi di esplicita razzializzazione della nazionalità, per cui sarebbe italiano solo chi può vantare una discendenza tutta italiana (o addirittura chi ha i tratti somatici «giusti», cioè chi è bianco e caucasico…).

L’accesso allo status di cittadino, d’altra parte, è pensato come il risultato ultimo di un processo di «italianizzazione», cioè di acquisizione di una identità e di un modo di essere compiutamente italianiSe questa «identità» è definita in termini culturali, il percorso di progressiva acculturazione è ritenuto possibile (uno straniero può benissimo acquisire gli usi, i costumi o i «valori» della società ospitante), e magari anche auspicabile. Al contrario, per chi pensa che siano i tratti somatici o la discendenza a decidere chi è davvero cittadino, l’assimilazione è un obiettivo irraggiungibile quasi per definizione: i genitori e i nonni non si possono cambiare, la pelle nera non può diventare bianca, e i lineamenti «esotici» (o presunti tali) non possono trasformarsi in fattezze «caucasiche» o «ariane». È per questa motivazione razziale che le destre sono restie a riconoscere la cittadinanza agli immigrati lungo-residenti, o ai loro figli nati e cresciuti nel territorio nazionale. Ed è sempre per questo motivo che il generale Vannacci si ostina a considerare straniera la pallavolista afrodiscendente Paola Egonu, che pure ha un regolare passaporto italiano e per di più rappresenta il nostro Paese nelle più prestigiose competizioni sportive.

Torneremo tra poco su questa razzializzazione della nazionalità, e sulle sue conseguenze. Qui ci interessa soffermarci sulla confusione tra uno status giuridico (la cittadinanza, appunto) produttore di diritti e di doveri, e una identità personale – comunque definita – associata ad una appartenenza collettiva. Nel dibattito pubblico questa confusione è molto frequente, tanto da essere entrata ormai nel senso comune. Si sente dire spesso, ad esempio, che i bambini nati in Italia da genitori stranieri meritano la cittadinanza perché anche loro in fondo, sono «come noi»: mangiano gli spaghetti (o la pizza), parlano in dialetto, tifano per la Juventus (o per l’Inter, il Milan, il Torino o l’Atalanta…), guardano Sanremo e la domenica vanno alla partita. Come se lo status giuridico e i diritti che ne derivano dovessero dipendere dall’adozione di usi e costumi «da italiani».

Questa sovrapposizione tra identità e status produce effetti deleteri. Il primo effetto è una ingiustificata discriminazione tra coloro che sono italiani dalla nascita (la maggioranza della popolazione), e gli stranieri che acquisiscono la nazionalità in un momento successivo: perché non è affatto vero che, per i primi, la cittadinanza si fonda sulla condivisione di caratteri identitari. Chi nasce da genitori italiani è italiano dal primo giorno di vita in base ad un automatismo di legge: a lui (o a lei) non viene chiesto di dimostrare la sua «italianità», la sua padronanza dell’idioma nazionale o la sua adesione a un particolare stile di vita. Se appartiene a una minoranza linguistica – ad esempio ai sud-tirolesi di lingua tedesca dell’Alto Adige – e non padroneggia la lingua italiana, nessuno gli toglierà la cittadinanza per questo. Se adotterà uno stile di vita «da straniero» (qualunque cosa ciò voglia dire), continuerà comunque a essere giuridicamente un cittadino italiano. Anni fa, in un articolo pubblicato sul settimanale Left, facevo notare scherzosamente che a Giorgio Gaber (che cantava «questa nostra Patria / non so che cosa sia / io non mi sento italiano…») nessuno propose mai di revocare la nazionalità. In altri termini, la pretesa di attribuire lo status civitatis a chi possiede specifici tratti identitari si applica solo ed esclusivamente agli stranieri: non serve per preservare una qualche omogeneità etno-culturale della popolazione (ammesso, e ovviamente non concesso, che tale omogeneità sia un obiettivo di per sé desiderabile) ma a gettare un’ombra di sospetto sull’«alterità» (vera o presunta) della componente straniera e immigrata.

Ancor più mistificante è l’idea secondo cui essere cittadini significherebbe condividere dei «valori»: chi non accetta i «nostri valori», si dice, non dovrebbe diventare italiano. A molti sembra un discorso di buon senso, e invece è carico di presupposti stigmatizzanti: quali sarebbero mai questi presunti «valori» dell’italianità? Spesso si fa riferimento all’uguaglianza di genere, o al rispetto dei diritti umani: ma davvero pensiamo che il nostro Paese si fondi su questi principi etici? Basta dare un’occhiata alle statistiche sul gender gap, o alla condizione in cui versano le nostre carceri, per nutrire qualche dubbio in proposito. Anche in questo caso, siamo di fronte a un discorso che non mira tanto a definire l’identità nazionale, quanto a etichettare negativamente chi viene da fuori: «loro non rispettano le donne, non sono come noi…». E questa funzione stigmatizzante diventa ancor più esplicita quando alla retorica dei «valori» si affianca il riferimento alla nostra (presunta) «civiltà»: quando cioè si allude alle «radici cristiane dell’Europa», o a una non meglio definita «cultura occidentale», rispetto alla quale gli immigrati sarebbero estranei e nemici; qui, evidentemente, l’appello alla dimensione valoriale serve soprattutto a escludere i musulmani, percepiti come un’alterità irriducibile e vagamente minacciosa.

Proprio la retorica dei valori ci introduce al secondo motivo per cui occorre respingere la facile equazione tra status giuridico e identità. In uno Stato compiutamente laico, quale l’Italia è o dovrebbe essere, le autorità pubbliche sono neutre non solo rispetto alle appartenenze religiose, ma anche rispetto alle opzioni etiche e politiche dei propri cittadini. Imporre dei «valori» o – peggio – gabellarli come fondamento dell’identità collettiva significa aprire le porte a uno Stato etico (non più laico). E significa anche espellere simbolicamente dalla nazione – cioè stranierizzare – tutti coloro che non condividono i «valori di Stato»: se il «vero italiano» è cattolico, i cittadini protestanti o ebrei diventano di colpo italiani di serie B; se l’Italia esiste in quanto ha radici «giudaico-cristiane», i non credenti, i musulmani o i buddisti si trasformano in ospiti sgraditi o a malapena tollerati, anche se hanno in tasca un passaporto del nostro Paese.

La cittadinanza andrebbe dunque svincolata dalla (presunta) identità etno-culturale, e ancorata semmai all’effettiva partecipazione del richiedente alla vita collettiva: ad esempio, in una Repubblica che nella sua Carta Fondamentale si proclama «fondata sul lavoro», dovrebbe essere cittadino chi col suo lavoro quotidiano contribuisce allo sviluppo economico e sociale del Paese. Il richiamo a una presunta omogeneità culturale o, peggio ancora, a caratteristiche etno-razziali, non fa che perpetuare il clima di avvelenato nazionalismo che stiamo vivendo in questi anni.

  • La versione completa del contributo sarà pubblicata in Lunaria (a cura di), Cronache di Ordinario Razzismo. VI° Libro bianco sul razzismo in Italia, 2024 di prossima pubblicazione.

Un referendum per cambiare la legge sulla cittadinanza è stato lanciato recentemente, servono 500mila firme entro il 30 settembre. 

ll quesito è semplice: riportare a 5 anni il termine per poter avanzare domanda di cittadinanza (oggi servono 10 anni). Serve a riconoscere 2,5 milioni di cittadini stranieri e ai loro figli che già oggi in Italia risiedono da almeno 5 anni, parlano la lingua, lavorano, rispettano le leggi.

Si può firmare online  tramite SPID dal sito www.referendumcittadinanza.it