Un accordo dell’ultima ora forse salva l’euro, almeno per ora. Ma politici e “tecnici” non sembrano in grado di far uscire il mondo dalla trappola in cui esso è stato spinto
“…anche se questo accordo funziona, …non c’è niente che risolva il problema di competitività che tocca i paesi più deboli dell’eurozona o che offra loro qualcos’altro che molti anni di dura austerità…” H. Stewart. “…questa, nella sostanza, è una crisi delle bilance dei pagamenti…” M. Wolf. “…noi non stiamo salvando i greci o gli italiani… noi stiamo salvando le nostre banche (quelle tedesche), noi stessi e le nostre poltrone… la questione è tutta qui…” F.-W. Steinmeier, leader della Spd tedesca. “…la percezione della minaccia di un disastro non sempre è sufficiente a impedire che esso poi accada…” The Economist, a.
Premessa
Appare ormai possibile, anche se non è certo, dopo le misure prese dal governo Monti, nonché gli accordi del vertice europeo del 9 dicembre, la nuova disponibilità ad ampliare i suoi interventi manifestata inoltre dalla Bce e infine la stessa stanchezza degli operatori, che il sistema dell’euro, almeno per il momento, non vada a pezzi e che la partita sia rimandata per qualche tempo. Certamente, comunque, ha probabilmente ragione Claude Junker quando afferma, appena conclusi i lavori, “…non penso che questo sia l’ultimo vertice per salvare l’euro…”.
Va comunque subito sottolineato al riguardo che, come c’era da aspettarsi, quando gli orizzonti della moneta unica sembrano schiarirsi almeno un poco, si trova sempre una qualche agenzia di rating che cerca di fare del sabotaggio; questa volta è toccato a Standard & Poor’s minacciare di degradare il rating di 15 paesi della zona euro, compresa la Germania e anche quello del fondo salva stati.
Vediamo in ogni modo con qualche dettaglio alcuni aspetti delle misure sponsorizzate dalla coppia Merkel-Sarkozy, certamente, come al solito, non clamorose ma che, unite agli altri interventi per il settore finanziario, potrebbero plausibilmente avere l’effetto di calmare un po’ le acque.
Le misure previste
Si era parlato qualche giorno fa di un possibile accordo Merkel-Sarkozy abbastanza impegnativo e che prevedeva che si arrivasse in tempi brevi a una vera e propria “unione fiscale”, con la quale in sostanza i paesi dell’eurozona, con una parziale perdita di sovranità, avrebbero ceduto i loro poteri di decisione sui rispettivi budget pubblici a un’autorità europea, che avrebbe dovuto essere costituita in prima battuta da un commissario al bilancio; l’unione fiscale si sarebbe basata su delle norme molto stringenti e avrebbe previsto rilevanti sanzioni automatiche per i trasgressori, sanzioni che avrebbero dovuto essere incorporate nei trattati dell’Ue. Le violazioni e le relative penalità sarebbero state decise dalla corte di giustizia europea.
In realtà, l’accordo, frutto del solito compromesso al ribasso tra le esigenze politiche immediate dei due attori principali del gioco, divisi come sempre alla meta, appare per molti versi abbastanza più blando di quanto si era detto. Esso si riduce, nella sostanza, ad alcuni aggiustamenti al patto di stabilità, aggiustamenti che erano in parte stati già previsti nei mesi scorsi anche se resta, tra l’altro, il coordinamento dei bilanci pubblici a livello europeo e la modifica ai trattati. La novità dell’ultimo minuto consiste nel molto discutibile inserimento della golden rule del pareggio di bilancio nella carta costituzionale di tutti gli stati membri.
Sul fronte finanziario si sta intanto portando avanti un intervento di un certo rilievo, anche se un po’ raffazzonato, che prevede contemporaneamente di aumentare, attraverso il ricorso all’indebitamento, il livello delle risorse dell’attuale fondo salva-stati (Efsf), portandolo presumibilmente a circa 1.000 miliardi di euro, di dotare il nascente fondo permanente (Esm), di cui si accelera il varo al luglio 2012, di ulteriori 500 miliardi di euro e di far intervenire, con risorse aggiuntive europee per almeno 200 miliardi di euro, anche il Fondo Monetario Internazionale.
Comunque la novità più impegnativa, che si è manifestata parallelamente all’accordo dell’8-9 dicembre è quella che la Bce, l’unica istituzione che può portare un soccorso immediato alla situazione, si sente a questo punto autorizzata a intervenire in maniera più decisa a soccorso dell’euro. La banca, oltre a tagliare i tassi di interesse, estenderà le modalità di finanziamento a favore del sistema bancario, oggi in grandi difficoltà, intervenendo, tra l’altro, con prestiti sino a tre anni, contro l’anno attuale, mentre potrebbe forse incrementare – ma non è certo – il livello di acquisti di titoli pubblici italiani e spagnoli sul mercato secondario.
Niente peraltro ruolo di prestatore di ultima istanza, così come niente eurobond, tema che dovrebbe forse essere affrontato fra qualche mese in qualche altro vertice.
Si mette comunque alla fine in campo, tra intervento dei fondi e azioni della Bce, un volume di risorse tali da bloccare, almeno per qualche tempo, la speculazione.
Si tratta, complessivamente, alla fine, di misure ancora al di qua di quanto sarebbe veramente necessario, ma appare a questo punto plausibile che tutti, almeno per il momento, compresi i cosiddetti mercati, si dichiarino contenti. Salvo ricominciare ad agitarsi fra qualche tempo.
I problemi della Germania
Sullo sfondo dei nuovi accordi sta, tra l’altro, il problema che l’euro è oggi sballottato tra le rigidità e gli errori della Merkel da una parte e la gravità della crisi italiana dall’altra.
Vediamo un po’ meglio alcuni aspetti di tali questioni.
Sono certamente molte le colpe che sin dall’inizio della crisi si possono attribuire alla Germania e al suo primo ministro per la cattiva gestione della vicenda. In particolare la Merkel si rifiuta di riconoscere l’estensione e la profondità del panico finanziario (The Economist, 2011, a) e sembra gestire gli avvenimenti con molta calma, puntando apparentemente su di una visione di lungo termine, che contrasta comunque con la velocità di reazione dei mercati; la sua strategia di stanare i paesi “canaglia” ha certo prodotto la caduta di cinque governi della zona euro e l’avvio in tutti di piani di austerità molto duri, ma, d’altro canto, con tale tattica dilatoria (troppo poco troppo tardi, come si sottolinea da più parti) si rischia un cattivo calcolo e il precipitare degli eventi a ogni momento. Nella sostanza “la Merkel non sta proponendo un’“…unione fiscale, ma un club dell’austerità, un patto di stabilità in pillole…” (Munchau, 2011) e poco altro. E la crescita?
C’è comunque, per altro verso, da riconoscere che i dubbi tedeschi su di un possibile intervento più incisivo per salvare la costruzione del sistema della moneta unica hanno a che fare con almeno quattro ordini di questioni.
La prima riguarda specificamente il possibile ricorso agli eurobond. È stato calcolato che, in caso di un loro varo, il bilancio pubblico tedesco si vedrebbe gravato di un carico di interessi passivi in più all’anno stimabile, ai tassi attuali, intorno ai 30-35 miliardi di euro.
D’altro canto, l’opinione pubblica tedesca appare molto restia, per alcuni aspetti comprensibilmente, a venire in soccorso di stati supposti “canaglia” come l’Italia e la Grecia, paesi visti come scialacquatori di risorse pubbliche. Essa ha paura che, una volta dato il via all’intervento della Bce e/o degli eurobond, tali paesi possano riprendere tranquillamente le loro pratiche antiche.
Inoltre, memori della repubblica di Weimar, i tedeschi temono lo scatenarsi di una nuova ondata inflazionistica all’allentarsi dei cordoni della borsa.
Infine non bisogna dimenticare che la Corte Costituzionale del paese è un severo custode della sovranità nazionale e che essa appare molto restia a concedere la cessione di poteri e competenze ad autorità sovranazionali.
In ogni caso, l’ultimo accordo di Bruxelles segna un passo in avanti nella affermazione della Germania come leader incontrastato dei paesi dell’euro.
… e quelli dell’Italia
Intanto certamente nelle scorse settimane è stato rimosso, almeno per il momento, uno dei più grandi ostacoli che si frapponevano al superamento della crisi dei mercati, quello dell’anomalia italiana. La caduta di Berlusconi e le misure prese dal governo Monti, con la quinta manovra economica dell’anno, creano un presupposto che era indispensabile per andare avanti. Il governo Monti ha in effetti “normalizzato” con la sua stessa presenza e con le sue misure di intervento la situazione italiana; esso ha svolto diligentemente il compitino che gli chiedevano i cosiddetti mercati, ma la manovra annunciata non è certamente equa, né pone basi adeguate alla crescita dell’economia, come pure era stato promesso. E non ci hanno certo commosso a questo proposito le lacrime della professoressa Fornero.
E non è tutto, perché il governo sta preparando il secondo atto della manovra, quello che prevederà probabilmente un attacco pesante al mondo del lavoro, con delle misure che per ragioni di opportunità non ha ritenuto di includere nel primo pacchetto: troppa grazia.
Monti presenta le sue misure come un prendere o lasciare, come un programma senza alternative rispetto ad un possibile precipitare nel baratro. In realtà c’era un potenziale piano B, basato tra l’altro sull’imposta patrimoniale, sulla vendita delle frequenze tv, sul taglio ai costi della politica e alle agevolazioni del Vaticano, sulla riduzione delle spese militari, su di una rigorosa spending review per quanto riguarda i vari organismi che sono compresi nel settore pubblico, infine su di un molto più convinto intervento sul fronte della lotta all’evasione fiscale.
Che, in ogni caso, la situazione italiana sia drammatica è sottolineato in un recente articolo di N. Roubini (Roubini, 2011), il quale valuta che con i tassi di interesse in essere sul debito pubblico del nostro paese e con gli attuali tassi di crescita del suo pil l’Italia sia condannata a breve termine alla ristrutturazione del suo debito, con il taglio più o meno forzoso intorno al 25% del valore nominale dei suoi titoli.
E in effetti Roubini ha il merito, con il suo intervento, di mettere l’accento sull’insostenibilità della situazione attuale. Non c’è dubbio che se il tasso di crescita del pil si mantenesse agli attuali valori e i tassi di interesse facessero lo stesso, in assenza anche di un livello di inflazione più significativo, i possibili rimedi alla situazione sarebbero confinati a quanto delineato dallo studioso. L’intervento di Bce, Fmi e fondi salva-stati vecchio e nuovo potrebbero dare un po’ di respiro per qualche mese o al massimo per qualche anno alla situazione, ma non risolverebbero quasi niente.
Noi possiamo solo sperare che la crisi nel frattempo si attenui e i tassi di interesse scendano di qualche punto da una parte, dall’altra che si riesca in qualche modo a far ripartire la crescita. Senza sviluppo non sembra esserci scampo; un tasso di aumento del pil di “solo” il 2,5% annuo, accompagnato da un livello di inflazione un po’ più marcato (2,5-3,0%), risolverebbe con il tempo almeno una parte del problema.
Peraltro, conoscendo un poco la situazione del sistema imprenditoriale italiano e valutando i primi atti di questo governo, mi sembra che si tratti di obiettivi molto difficili da raggiungere.
Anche per questo bisogna insistere sulla necessità che a livello di eurozona o di unione europea si riesca a varare un grande piano di sviluppo per i paesi del Sud Europa, il cui problema fondamentale appare ormai quello della scarsa competitività delle loro economie, di quelle difficoltà delle bilance dei pagamenti di cui parla Wolf. Senza un intervento di lungo termine su tale fronte apparentemente nulla salus.
Intanto, comunque, la realtà incalza. Nel gennaio del 2012 vanno in scadenza titoli pubblici italiani per 33 miliardi di euro e in febbraio per altri 48 miliardi (The Economist, b, 2011). Chi sottoscriverà i rinnovi? Basteranno gli accordi appena conclusi a Bruxelles per risolvere il problema?
Punti deboli e questioni irrisolte
Come afferma un autorevole commentatore, ridurre i problemi dell’euro a una questione di scarsa disciplina budgetaria da parte dei singoli stati è probabilmente la ragione per cui tutti gli sforzi per risolvere la crisi sono sino a oggi falliti (Munchau, 2011).
Così l’ennesimo accordo in realtà non fa nulla per risolvere i sottostanti problemi economici dell’Europa, legati alla scarsa crescita, alle difficoltà specifiche dei paesi del sud, all’estendersi della disoccupazione e delle diseguaglianze. Porta soltanto sollievo allo stato di prostrazione del sistema bancario.
In relazione a tutto questo, la crisi europea non passa e appare plausibile che fra qualche mese ci ritroveremo a temere di nuovo per le sorti dell’euro e per quelle del nostro paese. Questi politici e questi “tecnici” non sembrano in grado di far uscire il mondo dalla trappola in cui esso è stato spinto. Il problema dell’Italia, dell’Europa, del mondo sviluppato è in prima battuta la crescita, non il debito. Intanto, in effetti, l’economia reale continua a deteriorarsi.
Così, in mancanza di un serio cambiamento di rotta, ci aspettano probabilmente molti anni di recessione. Gli ingredienti che portano a tale risultato ci sono oggi tutti: tagli alla spesa pubblica, stretta creditizia, crollo della fiducia degli operatori (The Economist, b,2011).
Testi citati nell’articolo
Munchau W., France and Germany look set to fudge it again, www.ft.com, 4 dicembre 2011
Roubini N., Italy’s debt must be restructured, www.ft.com, 29 novembre 2011
Stewart H., Which eurozone countries will survive fiscal union?, www.guardian.co.uk, 2 dicembre 2011
The Economist, Is this really the end?, 26 novembre 2011, a
The Economist, Beware of falling masonry, 26 novembre 2011, b
Wolf M., Merkozy failed to save the eurozone, www.ft.com, 6 dicembre 2011