Iniziata da Trump, la strategia anticinese americana prosegue con Biden e crescenti pressioni verso alleati europei e imprese restii a recidere i legami con il paese asiatico. Ursula von der Leyen esegue, passando però dal “decoupling” – sganciamento economico – al “derisking”.
I risultati del decoupling di Trump
Secondo le informazioni pubblicamente disponibili, è stato a suo tempo sotto la presidenza Obama, di cui ricordiamo il suo slogan Pivot to Asia, che il governo statunitense ha cominciato a preoccuparsi fortemente per la crescita cinese e da allora i tentativi di bloccare, o almeno di frenare, l’emergere del paese asiatico sulla scena mondiale sono diventati sempre più aggressivi, mentre ancora oggi non mostrano certo segni di indebolimento.
E’ con Trump che apparentemente si comincia a tentare di fare sul serio; il presidente, mentre invitava, peraltro con molto scarso successo, le imprese Usa a lasciare la Cina, introduceva dazi rilevanti su una parte consistente delle merci cinesi, mentre cercava al contempo di bloccare le tecnologie Huawei e ZTE nel 5G, spingendo i paesi alleati a fare altrettanto.
Ma le sue azioni non hanno portato apparentemente a grandi risultati, come mostrano ad esempio le cifre e le valutazioni tratte da un recente articolo apparso sul South China Morning Post (Yukon Huang, 2023). Il deficit commerciale Usa – secondo le cifre avanzate dall’autore – è stato nel 2022 superiore a quello dell’anno in cui Trump si è insediato. Il peso delle importazioni cinesi sul Pil è passato dal 31% del 2017 al 34% del 2022. E’ vero che la quota della Cina è scesa nel periodo considerato dal 22% al 17%, ma le esportazioni complessive della Cina verso il mondo sono sempre cresciute e in particolare verso quei paesi (Vietnam, Messico, India ed altri) che hanno sostituito la Cina su alcune tipologie di merci. Nella sostanza questi paesi hanno riesportato verso gli Usa semilavorati forniti loro da Pechino. Incidentalmente molte imprese cinesi hanno aperto delle fabbriche in tali paesi, da dove esportare poi negli Stati Uniti.
La quota della Cina sulle esportazioni globali è comunque passata nel periodo dal 13% al 15%. Anche le esportazioni high-tech sono aumentate, mentre quelle attribuibili alle imprese straniere presenti nel paese sono passate dal 70% del totale nel 2011 al 25% nel 2020. Intanto la quota delle produzioni manufatturiere cinesi sul totale mondiale è passata dal 26% al 31%. Nella sostanza – commenta l’articolista – dal 2017 ad oggi il mondo è diventato più dipendente dalla Cina, mentre la Cina appare adesso meno dipendente dal mondo.
Arriva il derisking
Di fronte al palese fallimento della strategia del decoupling (sganciamento dalla locomotiva cinese), rifiutata da diversi paesi alleati e da molte grandi imprese anche statunitensi e considerata come un progetto estremo e senza speranza, il presidente Biden ha inventato un nuovo approccio che ha fatto enunciare sotto dettatura dall’ineffabile Ursula von der Leyen, sempre pronta a obbedire a qualsiasi richiesta dell’amico americano. La signora ha così parlato di derisking, una parola che sembra più prudente e dall’estensione più limitata di quella precedente. Tale approccio sarà poi approvato nel bellicoso documento finale del G-7 di Tokyo. Ma, a ben vedere, per Biden si tratta di una vera ritirata “strategica” o solo di una mossa tattica?
Dietro tale espressione si possono distinguere due tipi di azioni, come ci ricorda un articolo del Financial Times (Rachman, 2023). La prima riguarda la “necessità” di imporre limiti alle esportazioni di tecnologie avanzate verso la Cina che comportassero possibili applicazioni militari (almeno questa appare la narrativa ufficiale sulla questione). La seconda comporta la volontà di liberarsi da alcune “pericolose” dipendenze dai prodotti cinesi, in particolare, ma non solo, nel campo delle tecnologie per l’economia verde e in quelle dei chip. Le azioni messe in campo da Biden a tal riguardo sono state il varo dell’Inflation Reduction Act e del Chip Act, di stampo sostanzialmente protezionistico e anti-cinese, nonché varie disposizioni minori e pressioni forti sugli alleati perché si adeguassero sui vari fronti ai diktat statunitensi.
Al posto della chiusura totale e progressiva alle importazioni dalla Cina di manufatti, come si tendeva a teorizzare nella fase precedente, farneticando anche di friendshoring e di nearshoring, si è varata la strategia cosiddetta del “Cina+1”, in base alla quale, senza abbandonare totalmente le produzioni nel paese asiatico, le imprese sono chiamate a costruire almeno una seconda base produttiva in qualche altro paese.
Emergono però alcune difficoltà di non poco peso rispetto a questa strategia del derisking.
Intanto appare netta la divergenza tra gli interessi delle imprese, molte di esse fortemente interessate al mercato cinese oltre che alle grandi possibilità di attingere alle imbattibili forniture di materie prime, e gli interessi dei vari paesi occidentali, in particolare degli Stati Uniti. Inoltre bisogna mettere in conto le grandi difficoltà e i costi elevati imposti nell’allentare la dipendenza dalla Cina (Rachman, 2023), soprattutto in alcuni settori e per alcuni aspetti di tale questione si veda il paragrafo seguente.
Infine non è del tutto chiaro di cosa in particolare gli Usa si preoccupano: se della libertà di Taiwan, delle applicazioni militari delle tecnologie o invece semplicemente di allentare la penetrazione dei cinesi nei settori avanzati nonché di frenare la loro crescente concorrenza alle imprese occidentali su quasi tutti i fronti.
Si potrebbe ancora aggiungere che esistono molti dubbi su quali possano essere le tecnologie specifiche legate al termine derisking: l’interpretazione dei rischi infatti può essere molto elastica; al limite tutti i prodotti possono essere dichiarati rischiosi, incorporando crescenti quote di elettronica e quindi di informazioni al loro interno.
Bisogna considerare che le misure prese o in via di preparazione da parte di Washington e dei suoi fedeli alleati sotto l’ombrello del decoupling o del derisking puzzano da lontano di protezionismo e vanno contro diversi accordi internazionali e anche contro i proclamati principi del libero commercio e del libero movimento dei capitali. Evidentemente tali principi andavano bene soltanto sinchè favorivano i paesi occidentali.
Alcune controdeduzioni sul derisking
A questo punto può essere utile analizzare alcune delle possibili difficoltà specifiche del derisking.
Come afferma il responsabile di una società asiatica di trasporto marittimo (Chan Ho-him, 2023), il peso economico e la capacità del sistema cinese di adattarsi appaiono tali che è facile esagerare le potenzialità della politica del “Cina+1”. Si tratterà di un movimento che certamente andrà ancora avanti, ma che rimarrà complessivamente abbastanza modesto, viste le dimensioni e la capacità delle attività cinesi.
Gli Stati Uniti e quindi anche l’UE si vogliono staccare dalla Cina per le batterie delle auto; ma si può fare a meno del paese? Se lo è chiesto ad esempio il New York Times (Chang, Bradsher, 2023) e la sua risposta è: no. Nell’articolo, tra l’altro, un esperto del settore dichiara che non c’è modo di produrre con successo dei veicoli elettrici senza mantenere qualche forma di collaborazione con la Cina, direttamente o indirettamente. Non solo, l’Occidente potrebbe impiegare decenni per avvicinarsi a Pechino. Ancora nel 2030, secondo le analisi di una società di consulenza riportate dal giornale, la Cina produrrà più del doppio delle batterie di tutti gli altri paesi del mondo messi assieme e continuerà a controllare tutto il ciclo della filiera, dall’estrazione della materia prima alla sua raffinazione, alla produzione dei singoli componenti e all’assemblaggio finale.
Intanto il direttore dell’AIEA, Fatih Birol, afferma che è inutile competere con la Cina sulle energie rinnovabili, settore nel quale il paese asiatico è leader indiscusso in tutti i comparti (Bellomo, 2023). Meglio da una parte collaborare e dall’altra percorrere strade diverse che non ci vedano sconfitti in partenza, concentrandosi su alcuni comparti specifici.
Per quanto riguarda invece la minaccia di esclusione di Huawei da tutte le reti europee, secondo un rapporto di Oxford Economics di qualche anno fa, questo comporterebbe un aumento nei costi degli investimenti nel 5G fino a decine di miliardi di euro, e a pagarli sarebbero i consumatori europei.
Un autore (Goldman, 2023, a) sottolinea un aspetto paradossale dello sforzo statunitense volto a reindustrializzare il paese; tale sforzo richiede una grande disponibilità di beni capitali (macchinari ed impianti), ma la produzione interna nel settore appare largamente insufficiente alla bisogna e si tratta quindi di ricorrere alle importazioni e la Cina è certamente uno dei principali fornitori, anzi, il principale se consideriamo anche le importazioni indirette (in effetti molte produzioni messicane hanno in realtà origine dal paese asiatico).
Va sottolineato come i fedeli dirigenti di Bruxelles non mancano di mettere in campo quasi settimanalmente delle punture di spillo verso i paesi del continente riluttanti alla volontà Usa. Una volta si tratta di incitare tali paesi a bandire il 5G cinese, un’altra di mettere dei dazi sulle auto elettriche provenienti dal paese asiatico, un’altra ancora di bandire Tik Tok, un’altra di varare in sede comunitaria uno screening sistematico degli investimenti dei paesi dell’Unione sempre verso la Cina: uno spettacolo di desolante asservimento agli Stati Uniti quale non di vedeva forse da decenni. Comunque una parte consistente dei paesi del continente appare al momento molto riluttante a seguire tali indirizzi.
La rivolta silenziosa
Sul tema dei rapporti con la Cina si manifesta da qualche tempo in maniera sempre più evidente, come abbiamo già accennato, un potenziale conflitto tra i governi occidentali (o meglio, alcuni di essi) e i grandi gruppi dei vari paesi. Le manifestazioni più evidenti di tale contrasto si hanno da una parte con dichiarazioni pubbliche dei responsabili di molte grandi imprese occidentali, frequentemente impegnati in visite spesso molto cordiali a Pechino, dove incontrano Xi Ji Ping o le personalità della sua cerchia, per il proseguimento dei loro investimenti nel paese. L’obiettivo delle visite appare in sostanza quello di ribadire da parte dei dirigenti occidentali l’impegno a continuare nelle loro attività in Cina e di ricevere assicurazioni dal governo.
Per citare soltanto gli imprenditori e manager statunitensi, ricordiamo in particolare le visite recenti di Bill Gates di Microsoft, quella di Tim Cook della Apple, di Jeff Bezos di Amazon ed ancora di Elon Musk di Tesla, di Mary Barra di General Motors, di Pat Gelsinger di Intel, di Cristiano Amon di Qualcomm, di Jamie Dimon di Morgan, di David Salomon di Goldman Sachs, e altri.
Per quanto riguarda la Germania, si potrebbe anche in questo caso fare un elenco delle visite recenti degli imprenditori tedeschi in Cina, ma qui vogliamo solo ricordare le dichiarazioni rese da alcuni di essi.
Il capo della Basf, Martin Brudenmuller, afferma più o meno: “Non potete dire che la metà del mercato mondiale non vi interessa” e, in termini più generali, “si sottostima in Germania sino a che punto la nostra prosperità è in parte finanziata dalla Cina”. Ola Kallenius, presidente del Consiglio di amministrazione del gruppo Mercedes-Benz, dichiara che per la Germania non appare né realistico né possibile tagliare i ponti con la Cina e che il solo tentativo rischierebbe di mettere a repentaglio quasi tutto il comparto manufatturiero tedesco. Lo stesso cancelliere Olaf Scholz afferma che “bisogna ballare con quelli che ci sono nella stanza, questo si applica alle discoteche come alla politica mondiale”, mentre sottolinea come nel mondo si stia verificando una zeitwende, una svolta epocale, che vede i paesi emergenti assumere un’importanza e un peso crescente sullo scacchiere mondiale; più di recente Scholz ha anche sottolineato che derisking non deve significare de-cinesizzazione.
D’altro canto, dietro la facciata di dura contrapposizione anticinese indicata nel documento del G7 di Tokyo bisogna in realtà distinguere tra la posizione rigida di Usa e Giappone e quella di Francia e Germania, molto più aperta e possibilista. Questi ultimi sono paesi che nella sostanza non concordano con la politica di isolare la Cina e non vogliono essere coinvolti oltre misura nei giochi politici degli Usa in Asia (Goldman, 2023, b).
L’Italia
Incidentalmente si può ricordare la posizione del nostro paese sulla questione, almeno per alcuni aspetti. L’Italia, dopo la parentesi del governo Conte che si era mostrato molto amichevole nei confronti del paese asiatico, appare da qualche tempo, con il governo Draghi e ora con quello Meloni, il più zelante esecutore dei diktat di Biden. Così il primo ministro Draghi a suo tempo ha bloccato l’acquisizione da parte dei cinesi della Iveco, che si trova in un’impasse strategica, date le sue ridotte dimensioni rispetto ai concorrenti e la necessità di grandi risorse finanziarie per star dietro all’evoluzione del settore. Sempre il governo Draghi ha fermato l’acquisto da parte di Syngenta del gruppo alimentare Verisem, che controlla molte società in Italia, nonchè di alcune altre aziende minori di non grande rilevanza strategica. Ora è il turno della presidente del Consiglio Meloni, la quale ha messo a punto una direttiva che impedisce al socio di maggioranza cinese di Pirelli di esercitare i suoi diritti di proprietà sull’azienda, affidando il potere di comando all’azionista di minoranza. Il tutto per una presunta rilevanza strategica delle attività dell’azienda. Si attende la contromossa cinese, che non dovrebbe mancare.
Il governo minaccia anche di ostacolare in tutti i modi un’eventuale acquisizione da parte cinese della svedese Electrolux, azienda che possiede sei stabilimenti in Italia.
Conclusioni
Appare del tutto evidente che gli Stati Uniti stanno sviluppando azioni sempre più decise, su tutti i fronti e con tutti i mezzi possibili, per cercare di frenare l’ascesa della Cina sul fronte commerciale, economico, finanziario, tecnologico, militare. Sembra anche evidente che tale offensiva non si fermerà quali che siano gli incontri di buona volontà tra i due attori, o le dichiarazioni dal tono più o meno moderato di qualche responsabile politico Usa, né i vari slogan usati, né infine di fronte alle pressioni contrarie che molti grandi gruppi del paese esercitano sul governo.
In questa crociata anticinese l’amministrazione Biden cerca in tutti i modi di arruolare anche gli altri paesi occidentali, con risultati non del tutto conseguenti. Palesemente in Europa, mentre Biden trova appoggi incondizionati da parte dei dirigenti di Bruxelles, deve affrontare invece le grandi reticenze di Germania e Francia, che hanno fortissimi interessi economici nel paese asiatico. Gli Usa cercheranno comunque di trovare vie per indebolire tali resistenze, appoggiandosi anche ad una parte delle classi dirigenti del nostro continente.
Si sta comunque andando verso una separazione strisciante tra i due contendenti, che non appare chiaro sin dove approderà. Si apre un periodo di grande confusione nei rapporti economici e politici tra Cina e Occidente, che speriamo non portino a conseguenze negative sulla pace mondiale.
Testi citati nell’articolo
-Bellomo S., Energia green, “è inutile competere con la Cina”. Parla Birol, direttore Aiea, www.ilsole24ore.com, 25 maggio 2023
-Chan Ho-him, Shifting production from China is impossible, says shipping boss, www.ft.com, 23 aprile 2023
-Chang A., Bradsher K., Can the world make an eletric car battery wirhout China ?, www.nytimes.com, 16 maggio 2023
-Goldman D.P., US reliance on China’s capital goods rules out decoupling, www.asiatimes.com, 18 giugno 2023, a
-Goldman D. P., The G7 anti-China facade shows cracks in Europe, www.asiatimes.com, 9 giugno 2023, b
-Rachman G., De-risking trade wirh China is a risky business, www.ft.com, 29 maggio 2023
-Yukon Wang, Amid US de-risking talk…, www.scmp.com, 13 giugno 2023