Naviganti senza bussola, gli improbabili eredi della sinistra italiana hanno prima divorziato dal pacifismo politico e giuridico e poi sposato un inquietante fondamentalismo etico-democratico. Un estratto dal laboratorio politico fuoricollana.it.
La prima guerra fredda aveva prodotto, a suo modo, un ordine mondiale. La seconda si presenta sotto il segno dell’incertezza, come momento particolarmente intenso del disordine che caratterizza il declino del globalismo e dell’ordine internazionale neoliberali. Oggi a differenza del passato il mondo non è propriamente diviso in due. Molti Stati, lungi dall’essere marginali, sono lontani dai due contendenti della prima guerra fredda ma sono più importanti dei “non allineati” del passato. E questo vale per giganti come Cina e India, ma anche per interi continenti come l’Africa e parti del Medio Oriente. Niente di paragonabile ai monoliti granitici dei due blocchi del passato. Indebolendo la Cina e rafforzando l’alleanza occidentale, gli Usa vogliono mostrare al mondo che la loro egemonia non è in declino. E qui si apre la possibilità tragica di un conflitto aperto tra una potenza discendente e una potenza ascendente. Nel concetto strategico statunitense il baricentro del confronto egemonico è, infatti, ormai da tempo, l’Indo-Pacifico e non più l’Atlantico. La lotta contro la Russia è un fronte importante, ma tutt’altro che l’unico. Il convitato di pietra di ciò che accaduto dal 24 febbraio 2022 continua ad essere la Cina. È la seconda guerra fredda. “Freddo-calda”. E Taiwan potrebbe diventarne uno dei simboli (…).
C’era una volta in Italia
Se il pacifismo politico piange, il pacifismo giuridico non ride (…). L’inequivoco “ripudio” della guerra contenuto nell’art. 11 della nostra Carta fondamentale (un prius che orienta la postura internazionale e il profilo identitario dell’Italia) e il principio pacifista codificato nell’ordinamento internazionale (l’impegno degli Stati a regolare i loro conflitti mediante negoziati e accordi) sono sempre più frequentemente sottoposti a “interpretazioni” che ne relativizzano il valore al fine di subordinarli alle logiche di potenza. Un capovolgimento delle finalità perseguite dal pacifismo giuridico. Da tempo le operazioni di intervento armato vengono rappresentate e qualificate come prassi ordinaria di risoluzione delle controversie internazionali.
Le ragioni della messa all’angolo del pacifismo giuridico sono analoghe a quelle del pacifismo politico. La normatività dei principi costituzionali si fonda sulla diffusa convinzione sociale che essi costituiscano un indispensabile tassello di un programma etico-politico fondamentale, di un progetto di umanizzazione e civilizzazione che va da ogni generazione inverato nella prassi. Ma è proprio la ‘giustezza’ di questa convinzione ad essere diventata problematica. Sostituita da un nuovo senso comune che giustifica il ricorso alla guerra con “considerazioni storiche” sul mutato contesto e con “argomentazioni di principio”, con verità morali globali. Presunto realismo versus presunto utopismo pacifista. Un orientamento diffuso tra i media, presente anche in parte della cultura giuridico-filosofica e propagandato con stucchevole enfasi dagli “eredi” di quella sinistra che aveva a lungo interloquito con le ragioni universalistiche del pacifismo (…).
Durante della guerra in corso questo capovolgimento di senso intorno al significato della guerra ha raggiunto il suo apice. Da parte russa, da parte ucraina, da parte occidentale. A vacillare è il presupposto che l’unica posizione moralmente seria non potesse essere che quella politica, altamente politica, per cui le guerre, se si vuole essere fedeli al dovere giuridico-costituzionale di perseguire la giustizia tra le Nazioni, vanno ripudiate e fermate il più presto possibile (…). L’origine autentica della guerra, lo scontro tra potenze antagoniste, è stata occultata a vantaggio di una rappresentazione di essa come esito di un irriducibile conflitto tra il Male e il Bene. Nel lessico di Putin, tra nazificazione e denazificazione, tra purezza dei valori sacri della tradizione e valori degenerati di un Occidente corrotto. Nel lessico ucraino-occidentale tra democrazie e autocrazie, tra liberalismo e regimi illiberali. Entrambi i lessici, fautori di una morale globale senza politica, fautori dell’esistenza di un unico “dentro” che dipinge i nemici come criminali. E come complici coloro che provano a ragionare sulle origini della guerra. In un profluvio di rappresentazioni denigratorie e caricaturali sul pacifismo, sempre e in ogni caso dipinto come cinico. Pacifismo da portafoglio, quello di coloro che osano avanzare riserve sulla ragionevolezza ed efficacia dell’’invio di armi all’Ucraina. Pacifismo a senso unico, quello dell’antiamericanismo per principio che non sottolinea mai abbastanza il ruolo bellicoso della Russia in Afghanistan, Siria, Cecenia, Georgia, Crimea e adesso Ucraina. Pacifismo dell’indifferenza e della viltà, quello di coloro che dimenticano che le vittime vanno sempre e comunque soccorse. Pacifismo senza memoria, quello di coloro che hanno rimosso le guerre di resistenza al nazifascismo e di liberazione nazionale “senza mai piegarsi alla brutale legge del più forte”. Rappresentazioni in larga misura caricaturali alle quali è tuttavia sbagliato rispondere con rappresentazioni caricaturali di segno opposto. È necessario invece interrogarsi sulla natura divisiva, ancora oggi, dell’evento guerra. L’operazione militare speciale di Putin e la resistenza Ucraina hanno prodotto lacerazioni profonde persino nei rapporti con persone con le quali abbiamo sempre pensato di condividere un inscalfibile sentire comune, una comunanza di giudizio, di sentimenti. Uno smarrimento sul quale il pacifismo deve interrogarsi, se vuol essere all’altezza dei tempi (…).
Prima e seconda guerra fredda, analogie e differenze
Lo scarto tra la mistica della guerra e il desiderio di pace non va rimosso, ma messo a tema. È necessario adoperarsi in tutti i modi per accorciare questo scarto, per far sì che non diventi un abisso incolmabile. Capire le ragioni di entrambi questi due opposti sentimenti. Questa è la prima e fondamentale bussola che abbiamo smarrito e ritrovarla è tutt’altro che facile. Ma non impossibile. Nei primi decenni del secondo dopoguerra, il conflitto tra guerra e pace è stato dialettizzato e messo in forma dal pacifismo (da quello italiano, ma non solo). Ciò è stato possibile anche grazie ad una postura bellicista dei due principali protagonisti della guerra fredda che avevano nel loro Dna anche le ragioni della pace e della giustizia delle nazioni. Una storia dimenticata, quanto mai istruttiva.
Lo scorso 17 maggio, nel Gran Anfiteatro della Sorbona si è svolto un colloquium sulla guerra in Ucraina. Una delle cose più interessanti l’ha detta nell’incipit del suo intervento Georges-Henri Soutou, storico delle relazioni internazionali: “Questo non è un ritorno alla guerra fredda. E aggiungo: ahimè!”. Non ha detto altro, ma avrebbe potuto aggiungere: “ahimè per l’Europa!”. La mia deduzione è lo sviluppo della sua principale affermazione: “Non siamo assistendo ad un semplice ritorno alla guerra fredda”. Siamo di fronte ad una seconda guerra fredda, come poche settimane dopo l’avrebbe definita Carlo Galli. Una seconda guerra fredda che condivide tratti di rilevante analogia con la prima, ma anche cruciali differenze che stanno pesantemente penalizzando il Vecchio continente.
La prima analogia è che anche la guerra in atto si presenta come uno scontro tra blocco eurasiatico e blocco atlantico, un scontro dipinto con tinte fortemente fondamentalistiche. Il sano mondo slavo-ortodosso contro il decadente occidente, democrazia liberale contro autocrazia. Ma con una differenza cruciale. La prima guerra fredda si svolge ancora nell’era delle grandi ideologie universaliste aperte con le rivoluzioni americana e francese del 18° secolo. Il liberalismo e il comunismo erano fratelli nemici. Nemici, ma con certi legami storici e filosofici. Le ideologie erano allora una garanzia di prudenza. Dato che la vittoria del comunismo era scientificamente provata e dunque inevitabile, si poteva essere pazienti perché, in ogni caso, alla fine il comunismo avrebbe prevalso. Annota Henri Soutou: Stalin era davvero iper cauto. Krusciov viene licenziato per il suo avventurismo nella crisi cubana del 1962. Putin viceversa è un uomo di fretta, decide da solo. I leader sovietici decidevano collettivamente e associavano i partiti fratelli delle democrazie popolari. L’intervento in Ungheria nel ‘56 è oggetto di acceso dibattito all’interno del Politburo, come quello in Cecoslovacchia nel ’68, in Afghanistan nel ’79, in Polonia nel 1980.
Geopolitica, economia politica, ideologia politica avevano ciascuna – annota Carlo Galli – una doppia dimensione. Fu il confronto imperturbabile, bloccato ma in un certo senso equilibrato di due universalismi progressisti, che vedevano ciascuno nel proprio nemico un concorrente nell’impresa umanistica di razionalizzare il mondo, di costruire giustizia, pace e prosperità. La prima guerra fredda è stata certo combattuta in un clima di angoscia (la minaccia nucleare) e talvolta d’isteria (l’anticomunismo occidentale era forte, l’anticapitalismo era terroristico in altre parti del mondo), ma anche di fiducia nelle risorse di sviluppo sociale che ciascuno dei due mondi si attribuiva. Putin è molto più imprevedibile. Un indecifrabile nazionalismo e uno strumentale anti leninismo hanno preso il posto della coerenza ideologica del comunismo. Mentre noi occidentali nel frattempo abbiamo perso, anche a livello di intelligence, ogni capacità di decifrazione e di decodificazione di quale sia la razionalità che guida oggi la politica russa.
La seconda analogia è che anche la seconda guerra fredda vorrebbe essere un intreccio di ideologia e realismo. Stalin non separava ideologia e geopolitica. Lo stesso facevano gli Stati Uniti e sono i loro interessi concreti, strategici ed economici, che li portano dal 1945 a reagire fermamente ma con prudenza contro Mosca. Con prudenza ancora sino all’inizio dagli anni novanta. Prudenza che viene progressivamente meno quando Washington comincia a pensare che è nel suo interesse una separazione completa tra Russia e Ucraina. È in questo quadro che si capisce la Georgia nel 2008, la Crimea nel 2014. E che si coglie un’altra cruciale differenza della seconda guerra fredda rispetto alla prima. Oggi, e non solo a Washington, alcuni pensano che dovremmo andare fino in fondo e sradicare il tumore: cacciare i russi dal Donbass, dalla Crimea, il regime russo.
In questi mesi autorevoli esperti di geopolitica si sono guadagnati un meritato successo con un volume dal titolo La Russia cambia il mondo. Questo successo sarebbe stato ancor più meritato se fosse stato accompagnato da un sottotitolo che recitava che anche il mondo atlantico/occidentale ha contribuito a cambiare la Russia. E che l’Unione ci ha messo del suo in tempi recenti per un eccesso di furore e sciagurato revisionismo. Basti pensare alla risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 che equipara nazismo e comunismo e riscrive la storia della seconda guerra mondiale. Una risoluzione che rovescia quelle precedenti dello stesso Parlamento che aveva sino ad allora riconosciuto il contributo decisivo dato dall’URSS alla sconfitta del nazifascismo.
L’Unione forse sopravvivrà. E l’Europa?
Alla luce della postura bellicista con cui le attuali classi dirigenti europee stanno affrontando la guerra in Ucraina non si è tuttavia trattato solo di un grave errore di giudizio storico-politico, ma dell’annuncio di una correzione del paradigma con cui anche l’Unione aveva a lungo tematizzato la questione della pace e della guerra. L’ordine di Maastricht è infatti giunto a maturazione nell’epoca del dopo guerra fredda (il progetto era, in verità, in cantiere sin dai tempi dello Sme, 1978) e grazie al dopo guerra fredda. Grazie ad un contesto che rendeva plausibile declinare, in primis da parte della Germania, la ‘filosofia’ ordoliberalista della competizione economica come una ‘continuazione’ della politica di potenza con altri mezzi. Con mezzi non bellicisti, pacifici, cooperativi anche nei confronti dell’ex Unione sovietica, le cui forniture ai paesi del Vecchio Continente di gas e petrolio hanno costituito sino a ieri il concreto simbolo di un’apertura di credito anche geopolitico e non solo economico. Com’era chiaro alla – non a caso dimenticata e sempre più stigmatizzata – Angela Merkel (…).
Questa relativa autonomia dell’Unione europea è diventata sempre più problematica. Nei trent’anni dell’ordine di Maastricht sono maturati nel mondo processi che hanno minato alcuni dei presupposti a fondamento della postura pacifista dell’Unione. Processi di rimilitarizzazione dei rapporti tra gli stati che sono progressivamente diventati anche processi di rimilitarizzazione dei rapporti tra le principali potenze. Una seconda bipolarizzazione del sistema internazionale all’insegna della retorica dello scontro tra democrazie ed autocrazie che ha un suo chiaro antecedente nella guerra globale al terrore. Questa bipolarizzazione ideologica lungamente perseguita nei primi due decenni del XXI secolo dalla potenza statunitense spiazza la vocazione dell’Europa quale potenza civile e con essa la sua deontologia multilaterale nelle relazioni internazionali, la sua flessibilità diplomatica quale strumento privilegiato per la risoluzione dei conflitti. Con l’oggettiva, tutt’altro che innocente, conseguenza di intrappolare il Vecchio continente in una competizione regionale con la Russia e in una globale con la Cina, rendendo ulteriormente problematiche le sue deboli velleità di una autonomia politica e strategica. La seconda guerra fredda sta mettendo la parola fine all’illusione che l’annunciato nuovo ordine internazionale liberale del dopo prima guerra fredda ne avrebbe ulteriormente alimentato i margini. L’attuale guerra in Ucraina è l’apice di una seconda guerra freddo/calda che vuol mettere fuorigioco il progetto di un’occidente europeo alleato ma distinto dall’occidente atlantico. In nome di un altro progetto, un progetto di marca statunitense.
Guerra ucraina e disordine internazionale
I segnali rivolti alla Russia sono parte integrante di questo progetto. All’inizio sono stati segnali contraddittori. Da un lato non è mancata nel primo decennio del dopo guerra fredda la suggestione di coinvolgerla in un’architettura comune di sicurezza europea al fine di evitare lo spettro di una “Russia weimeriana”. Ma dall’altro lato i successivi allargamenti a est della Nato, la guerra unilaterale della Nato alla Serbia nel 1999, la ripetuta allusione al possibile ingresso dell’Ucraina nella Nato, hanno spinto sempre di più la Russia ai margini di quell’architettura. Ci abbiamo messo del nostro nel cambiare la Russia. Dopo l’adattamento del primo decennio del dopoguerra fredda, culminato nel concetto strategico del 1999, la Nato ha arrancato per trovare un posto nell’architettura della guerra globale al terrore e ha condiviso con gli Usa il clamoroso fallimento in Afghanistan. Il rilancio dell’alleanza in funzione antirussa è il sigillo finale del tentativo americano, oggi irresponsabilmente condiviso dalle attuali classi dirigenti dell’Unione europea, di riportare indietro le lancette della storia a prima dell’89. Una seconda rimilitarizzazione e bipolarizzazione del mondo, che intende riportare al punto di partenza le relazioni tra Occidente e Russia e improntare alla stessa logica quelle con la Cina. Questo c’è scritto nero su bianco nelle risoluzioni del Consiglio Nato di Madrid del giugno 2022.
La retorica unionista si sforza di rappresentare l’attuale rimilitarizzazione del mondo come l’occasione per un inedito e storico protagonismo dell’Europa come potenza geopolitica. Ma la nuova era glaciale, l’assoluta incomunicabilità nelle relazioni internazionali, fa oggi molto più male all’Europa di quanto accaduto nella prima guerra fredda. È la NATO dal punto di vista organizzativo e istituzionale che sta tornando in vita, con gli Usa al timone. La declamata autonomia strategica europea dei mesi precedenti la guerra in Ucraina è un pio desiderio se i Paesi dell’Ue non preservano un potere di valutazione autonoma e si acconciano a diventare i subappaltatori dell’industria della difesa americana.
Il conflitto tra oriente e occidente sembra riaffermarsi come un destino, con toni ancora più duri di quelli del passato. Ma le somiglianze sono, ha osservato Carlo Galli, più superficiali che sostanziali. A medio e lungo termine, ma anche a breve dal punto di vista strettamente economico, gli interessi degli Stati Uniti non coincidono più come nella prima guerra fredda con quelli europei. L’invasione dell’Ucraina ha fornito agli anglosassoni un’occasione d’oro per indebolire la Russia con una guerra di logoramento e accerchiamento e tentare di estrometterla dal grande gioco delle potenze mondiali, in cui vorrebbe reintegrarsi. Ha inoltre consentito agli Stati Uniti di esercitare un controllo più stretto sull’Europa a basso costo politico. Ma l’Europa a medio e lungo termine avrebbe bisogno di un rapporto costruttivo con la Russia per non essere squilibrata sulla dimensione atlantica e proiettata sul Nord-Est sul piano militare. E razionalmente dovrebbe essere nell’interesse russo continuare ad essere, come in epoca zarista e sovietica, una potenza europea. Bruciare i ponti non è nell’interesse né dell’Europa né della Russia. E di questo Putin porta grandemente la responsabilità storico-politica.
Il ritorno del rischio nucleare
È tempo di fare un primo bilancio. La NATO ha interesse ad estendere la sua azione al sistema di alleanze americane in estremo oriente. Il che naturalmente finirà presto o tardi per sconcertare i paesi europei, per i quali il compito di presidiare in armi il confine orientale è più che abbastanza. L’”amico americano” potrebbe, insomma, aver sbagliato a lungo termine i suoi calcoli con l’Europa, come tante volte è avvenuto in tante altre parti del mondo negli ultimi decenni. Oggi, ancor più di ieri, l’universo è un pluriverso sempre meno disponibile a piegarsi alla logica della bipolarizzazione a guida statunitense, a subire i suoi diktat. La tentazione di fronte a questo rifiuto di passare dalle minacce più o meno velate ai fatti, dalla minaccia dell’uso dell’arma nucleare al suo uso effettivo, potrebbe diventare una tragica e “realistica” opzione per un occidente sempre più apertamente contestato dai grandi paesi non occidentali nella sua pretesa di parlare a nome dell’intera comunità internazionale, di dettare la soglia di accesso alla piena appartenenza e i criteri di normalità politica, economica e culturale validi per tutti. Per questa ragione il rischio di una catastrofe nucleare globale potrebbe presto tornare di drammatica attualità. E se vogliamo farci trovare pronti, è necessario che il movimento pacifista ritrovi quegli interlocutori nelle istituzioni politiche e nella società civile che in passato hanno rappresentato una sponda per le sue mobilitazioni. È nell’interesse dell’intera umanità disporre di un movimento pacifista consapevole della complessità della posta in gioco, dei suoi tempi, dei pericoli a breve e medio breve termine (il rischio nucleare tattico) e di quelli a medio e lungo termine (la catastrofe nucleare globale) (…).
Questo testo è un estratto dell’autore dal laboratorio fuoricollana.it