Da dove viene il ritorno dell’inflazione e che politiche sono possibili? Un confronto con gli anni Ottanta, sui prezzi delle materie prime, instabilità internazionale, conflitti, ristrutturazione produttiva. E sull’antica questione del contenimento dei salari.
Da un po’ di tempo serpeggia sulla stampa quotidiana, non solo su quella economica, l’apprensione per la crescita dei prezzi, dell’inflazione. La possibilità che la pressione inflattiva possa acuirsi e, radicandosi in una spirale prezzi-salari, passare «da un regime di bassa inflazione a un regime di alta inflazione» è esplicitamente considerato nel recente Rapporto annuale della Banca dei Regolamenti internazionali (BIS, No Respite, Annual Economic Report, June 2022, https://www.bis.org/about/areport/areport2022.pdf). Sono considerazioni stimolate dallo shock subito dal prezzo del gas e da quello del grano in seguito alla guerra in Ucraina.
La tendenza all’aumento dei prezzi delle materie prime, soprattutto di quelle legate all’energia, non sembra però dipendere da motivi contingenti; essa è latente nel sistema globale da diversi anni e, oltre a interessare le granaglie (frumento, riso, soia ecc.) come ricordano le ricorrenti crisi alimentari dei paesi più poveri, riguardano molte materie prime (oltre a quelle energetiche, il rame, litio, cobalto, nickel…) la cui domanda, crescente con la crescita della produzione mondiale (e per le necessità della transizione energetica), tende a eccedere un’offerta insufficiente per i colli di bottiglia nella catena globale dell’approvvigionamento, per le sanzioni e correlate restrizioni, per l’accumulo di scorte strategiche da parte dei paesi manifatturieri. L’impatto di un costante aumento di tali prezzi sul costo dei manufatti, assieme al perdurare di una situazione di incertezza produttiva (a causa del Covid e della guerra in Ucraina), sembra consolidare una prospettiva – come ricorda il citato Rapporto – del formarsi di una situazione in cui la stagnazione produttiva convive con un’inflazione monetaria richiama alla mente quella sperimentata a livello globale negli anni Ottanta. Senza trascurare che la soluzione adottata per superare quella crisi ha rappresentato uno spartiacque nella gestione della politica economica dei paesi occidentali, ponendo le basi per il modo di sviluppo neoliberista dei decenni successivi.
Il ritorno della stagflazione?
L’ipotesi del radicarsi di un clima stagflazionistico merita un’adeguata attenzione. Un significativo, non-normale, aumento dei prezzi delle materie prime ha un impatto sui costi di produzione delle imprese provocando un aumento dei prezzi dei loro manufatti, ovviamente tanto maggiore quanto maggiore è il contenuto di risorse primarie. Aumento che necessariamente si diffonde e si generalizza all’intero sistema produttivo come effetto dell’interdipendenza che lega tra loro imprese e settori. All’aumento dei costi di produzione le imprese rispondono ridefinendo le tecniche produttive, i livelli di attività e soprattutto le condizioni del lavoro, salariali e normative. I consumatori adattano la loro domanda ai maggiori prezzi e, con il tempo, emerge una nuova struttura produttiva e un sistema dei prezzi relativi (inclusi i salari in termini reali) compatibile con la scarsità relativa delle risorse primarie. Nelle sue linee generali, la spiegazione è “tranquillizzante”: uno squilibrio nato “naturalmente”, “naturalmente” si conclude. Il tempo che ci mette per realizzarsi non ha rilevanza; occorre solo aver pazienza e attendere, civilmente, che tutto torni alla norma. Ma è così?
Gli anni Ottanta ci dicono che il processo ha sviluppi più complessi, e più interessanti. In quell’esperienza vi sono molti aspetti che si ritrovano nella realtà di oggi, ma vi sono anche delle specificità che fanno la differenza. Un processo che, potendo essere un discrimine strutturale, richiede un minimo di riflessione, utile per il dibattito politico-sociale nella prospettiva dell’assetto programmatico che caratterizzerà il prossimo Parlamento italiano.
Una questione non solo teorica.
Ho fatto riferimento più sopra alla stagflazione come spartiacque nella storia della politica economica. Non mi posso dilungare, ma una considerazione è necessaria per sottolineare come la vicenda segnali il legame tra formule teoriche e pratiche politiche. La stagflazione è una situazione della realtà che, per la teoria macroeconomica di quegli anni, è una situazione incomprensibile. La vulgata monetarista non poteva ammettere la compresenza di inflazione (spiegata come eccesso di domanda monetaria) con la deflazione (spiegata come carenza di domanda monetaria). Ciò che rende questa situazione inaccettabile per una teoria fondata sull’efficienza del mercato è il fallimento del potere regolativo che la disoccupazione dovrebbe avere sul livello dei salari. In termini analitici, nella teoria economica la Curva di Phillips descriveva la relazione negativa tra variazione dei prezzi e tasso di disoccupazione.
La realtà è diversa. Lo “spettro” della disoccupazione ha un più ridotto impatto sulle richieste salariali e normative più favorevoli al mondo del lavoro. Il conflitto distributivo è radicato nei rapporti sociali. Il superamento teorico della stagflazione si avrà con la sostituzione nell’apparato analitico di una nuova spiegazione della regolazione del mercato del lavoro, il Nairu (il tasso di disoccupazione che non porta a incrementi dell’inflazione). Esso indica il pericolo dell’insorgere di richieste salariali eccedenti e giustifica i comportamenti che, in maniera anticipata, provocano le restrizioni della domanda (e dell’occupazione) necessarie a tenere sotto controllo il “mercato” del lavoro. Si ha così il superamento pratico della stagflazione sperimentato – storia lunga e ben nota – dalla politica economica in azione nel recente passato dell’austerity europea. Parlare di teoria significa orientare la prassi, ma allo stesso tempo le visioni politiche che impongono una prassi richiedono l’appoggio di un discorso teorico: la stagflazione, fantasma teorico negli anni Ottanta, diviene ora un attrezzo canonico della teoria macroeconomica.
Quali somiglianze e quali differenze con gli anni Ottanta?
Un confronto tra due realtà storiche così distanti – e quindi strutturalmente diverse – è tutt’altro che facile, per cui mi limito a rintracciare, e a presentare in maniera rapida, gli aspetti delle due esperienze più utili per una comprensione delle tendenze in atto. Ovviamente la discussione è aperta, molto aperta per una realtà non solo complessa, ma in movimento.
Lo shock è “esterno” e la redistribuzione è globale…
Il primo punto è l’ovvia constatazione che lo shock che avvia il processo è uno shock a livello internazionale e che – in maniera transitoria o permanente – comporta una redistribuzione del reddito a livello globale; una redistribuzione tra nazioni, o meglio tra catene produttive globali, da economie centrate sulla produzione di manufatti a quelle dei possessori di materie prime.
Se questo aspetto è comune alle due esperienze, la stagflazione degli anni Ottanta è stata la risposta a una situazione più complessa in quanto è la risposta a più shock, oltre a quello dei prezzi dei beni primari, quelli della crescita salariale, del rallentamento della produttività in un momento, per di più, di crisi del sistema monetario internazionale. Sono terreni di scontro importanti, ma, tranne per uno che richiamerò più avanti, non mi è possibile qui soffermarmi.
…come globale è il segno della ristrutturazione produttiva interna
Se la situazione è così pericolosa come la si prospetta, allora ci si deve attendere un periodo di crescente incertezza dovuta alle risposte, o meglio ai tentativi che i settori produttivi e i paesi intraprenderanno per affrontare – contrastare o rafforzare – l’incidenza delle nuove condizioni sulla loro profittabilità attesa, e quindi sulla loro crescita produttiva. È possibile che il quadro di competizione del recente passato subisca un significativo ridimensionamento per il modificarsi delle strategie di sopravvivenza o di potenziamento; come del resto ne è un esempio lo svolgersi del conflitto Usa-Cina e Usa-Russia.
All’interno di questo quadro si collocano le possibili contromisure degli apparati nazionali. L’impatto deflattivo è prevedibilmente tanto maggiore quanto più debole è l’economia, dato che, in una situazione di doppia incertezza (del quadro internazionale e delle sue ricadute interne), più forte è l’impulso a rinviare nel tempo la spesa privata, sia di consumo che in nuovi beni capitali. Il rallentamento della domanda finale, difficilmente compensata dalla domanda estera, peggiora le condizioni produttive interne, espande la disoccupazione involontaria, ridimensionando le stesse opportunità di accumulazione e rafforzando la pressione deflattiva sull’attività produttiva. Una tendenza che risulta ancor più credibile in una realtà nella quale i profondi squilibri a livello di settore si ramificano inevitabilmente nel sistema produttivo e si prolungano nel tempo prima che l’adattamento delle tecniche, dell’organizzazione produttiva, dell’assestamento dei prezzi e dei salari riescano a stabilizzare la produzione e la domanda finale. Quanto più incerte sono le attese dei singoli produttori nei confronto di questa realtà complessa e in movimento, tanto più possibili sono gli errori di previsione che, tradotti in comportamenti inappropriati, costringono il sistema a permanere in squilibrio.
Le prospettive dell’attuale situazione sono quindi subordinate a come si formulano e si realizzano le politiche volte a sostenere e a rilanciare l’economia. Tenuto ovviamente conto del quadro internazionale, considerati gli ostacoli che può porre, ma anche i sostegni che può fornire. A titolo di esempio si pensi alle modalità con le quali si riteneva di riprendersi dallo shock della pandemia, ma che valgono ancora. Le linee “spontanee” di sviluppo del nostro apparato produttivo dovrebbero concentrarsi su alcuni settori (digitalizzazione e green economy) che sono peraltro quelli sui quali l’Occidente è in maggiore competizione con la Cina, per cui appare istruttivo l’orientamento espresso dal documento del Gruppo dei 30 ‘Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-Covid’ (https://group30.org/images/uploads/publications/G30_Reviving_and_Restructuring_the_Corporate_Sector_Post_Covid.pdf) del dicembre 2020 – di cui il Presidente del Consiglio Mario Draghi è membro autorevole – nel quale si sostiene la non-opportunità di sprecare risorse per aziende destinate al fallimento e di favorire pertanto la spinta alla “distruzione creatrice”. In sostanza una forte ristrutturazione produttiva su linee strategiche determinate a livello globale.
Le implicazioni per la redistribuzione interna
Per quanto diverse possano essere le due realtà della stagflazione, la soluzione comporta inevitabilmente la scelta su come redistribuire all’interno il costo dello shock esterno. Dovendo privilegiare la ristrutturazione produttiva interna per adeguarsi alla competizione internazionale (e alla struttura di interdipendenza con le linee produttive collocate all’estero) ciò significa subordinare ad essa le relazioni industriali, e quindi i livelli salariali e normativi. Ovviamente, a livello macroeconomico, le condizioni normative del lavoro industriale prendono la forma del lavoro precario e sottopagato.
È interessante al riguardo rilevare un’importante differenza tra le due stagflazioni. Negli anni Ottanta la risposta della politica economica doveva fronteggiare uno shock salariale, in quella odierna un tale shock non esiste. Se così è, cosa significa allora la preoccupazione (del citato Rapporto) che «i tagli dei salari reali indotti dai prezzi [possano] indurre i lavoratori a cercare di recuperare la perdita di potere d’acquisto», se non la giustificazione per le imprese a contenere i salari reali nonostante gli aumenti dei prezzi? Ciò preannuncia una situazione in cui si accentuano le resistenze ad aumenti salariali e al miglioramento delle condizioni normative nonostante le condizioni della contrattazione siano già in una posizione debole. La situazione di transizione a nuovi equilibri caratterizzata dal protrarsi di condizioni produttive deboli peggiora ulteriormente le condizioni di lavoro – e di vita – precarie, con l’effetto di associare l’esigenza produttiva di contenere i redditi dei “garantiti” con l’esigenza sociale di sostenere i redditi dei “non garantiti”. Uno scenario che diventa preoccupante per il mondo del lavoro se gli “altri redditi”, specie quelli della fascia alta, non sono opportunamente coinvolti nella redistribuzione interna. È questo il punto di conflitto strategico per il mondo del lavoro, ma è anche quello più fortemente connesso con le tendenze alla disuguaglianza dell’era neoliberista; è questo il punto che è risultato inviolabile dalle politiche economiche.
Il ruolo della politica monetaria
Non è possibile, a questo punto, non fare cenno a una differenza sostanziale tra le due stagflazioni. Negli anni Ottanta per risolvere la situazione le politiche economiche, in particolare la politica monetaria, sono state condotte nei diversi paesi – singolarmente e al di fuori di una visione comune – attraverso interventi restrittivi sulla domanda aggregata; la manovra si è tuttavia rivelata inadeguata in quanto si è dimostrata incapace di contenere l’inflazione, ma è risultata efficace nell’abbattere i livelli produttivi. L’errore era dovuto alla cattiva interpretazione della realtà, avendo considerato l’inflazione come un mero effetto monetario e non l’espressione della difficoltà a trovare una soluzione al conflitto distributivo tra imprese e lavoratori. La mancata soluzione si è tradotta in un freno all’accumulazione, in un’economia meno produttiva e in una società meno omogena.
Di fronte alla situazione presente, le modalità monetarie adottate quarant’anni fa non sembrano possibili se non a rischio di una crisi finanziaria ancor più difficile da controllare. La causa principale – il riferimento è ancora al Rapporto della BIS-BRI – è il livello del debito privato che si colloca «ai massimi storici e le cui valutazioni elevate potrebbero rendere particolarmente sensibili» le misure da adottare. Una sorta di trappola per cui «dopo un lungo periodo di tassi di interesse solitamente bassi e ampia liquidità, i mercati finanziari potrebbero reagire in modo esagerato» al tentativo delle autorità ad attuare politiche anche vagamente restrittive. Uno stallo che non solo prolunga le condizioni stagflazioniste, ma che le accentua se l’esistente ampia liquidità dovesse indurre, come probabilmente ha indotto finora, gli operatori finanziari a intensificare, in carenza di buone e sicure opportunità di investimento produttivo, la loro attività speculativa sugli stock di risorse esistenti, quali tra l’altro le risorse primarie, che hanno accentuato lo squilibrio in atto.
Che ciò non sia una fantasia lo dimostrerebbe l’affermazione icastica del Rapporto che «le prove più dure devono ancora avvenire».
Meccanismi prevedibili, preoccupazioni plausibili, in attesa di una politica
Nell’attesa di una realtà in sviluppo, sarebbe bene assumere che la nostra società debba affrontare – in un contesto difficile di eventi bellici e di ristrutturazione dei rapporti produttivi a livello globale – una (ulteriore) pressione sui livelli di vita di chi lavora e di chi un lavoro dignitoso non ce l’ha. Ma anche tener presente che le risposte politiche a questa situazione possono essere varie, con effetti sociali e politici molto diversi. Da un lato è possibile un compromesso in due tempi (contenimento salariale in attesa di una ristrutturazione che rilanci la produzione) associato a un sistema di sostegni del reddito per gli “ultimi” e “semi ultimi”. Dall’altro, è possibile un’azione che leghi tra loro le prospettive dei lavoratori, indifferentemente se precari o no, in un quadro istituzionale di politica del lavoro, dell’occupazione e di welfare, che li difenda nel loro complesso dagli effetti dell’inevitabile ristrutturazione produttiva e sociale che si sta prospettando. Ma questo è l’inizio di un altro discorso.