La domanda di Kiev per entrare nell’Unione europea pone la Ue di fronte a problemi importanti ed è una carta politica che potrebbe contribuire alla soluzione al conflitto. Ma si deve cambiare strada rispetto gli errori del passato allargamento a Est.
L’Ucraina ha fatto domanda ufficiale per l’ingresso nellUnione Europea. Il Consiglio Europeo l’ha ricevuta con parole calorose e la presidente della commissione Ursula von der Leyen, nella sua visita a Kiev, ha promesso una “corsia accelerata”. Dopo un decennio di visibile affaticamento da allargamenti, siamo di fronte a un cambio di passo? E con che conseguenze?
Meglio premettere che “accelerazione” è un concetto relativo. Per i paesi dell’Europa Centro-orientale, il periodo tra domanda di ammissione e ingresso è stato come minimo di dieci anni. La volontà politica di accelerare potrebbe tagliare qualche anno, ma solo se andasse tutto liscio, un’ipotesi ottimistica data la storia recente. Il processo di allargamento è regolato dai trattati, non dalle dichiarazioni alla stampa, e segue tre passi principali, la cui natura, come per molte questioni comunitarie, è estremamente tecnocratica e il più possibile depoliticizzata (con la conseguenza che lo spazio per la politicizzazione è stato lasciato prevalentemente alle destre populiste).
Quando una domanda di ammissione viene ricevuta, bisogna valutare innanzitutto se il paese soddisfa i cosiddetti “criteri di Copenaghen” che furono decisi nel 1993 di fronte alle domande dei paesi dell’Europa Centro-orientale: stato di diritto, democrazia e diritti umani; economia di mercato; capacità amministrativa di far fronte agli obblighi dell’UE. Il rispetto dei criteri non è una formalità: nel 1997, a cinque dei primi candidati (Lituania, Lettonia, Slovacchia, Romania e Bulgaria) fu detto che dovevano aspettare. Ma la politica conta: nel 1999, la guerra nel Kosovo mostrò all’UE che tenere i paesi fuori dal processo di integrazione comporta rischi e costi di instabilità maggiori, e quindi, chiudendo un occhio o due sulle mancanze riscontrate due anni prima, anche i cinque “peggiori della classe” furono ammessi al passo successivo: le “negoziazioni”
“Negoziazioni” è un termine fuorviante, dato che non c’è niente di sostanziale da negoziare. Si tratta invece di controllare se e come i candidati rispettino le oltre ventimila norme comunitarie, il cosiddetto acquis communautaire che deve essere trasferito nell’ordine giuridico dei paesi candidati. Al più si possono considerare delle esenzioni temporanee, ma le norme comunitarie sono da accettare, non da discutere. Il vaglio di così tante norme richiede comunque diversi anni.
Una volta controllato tutto l’acquis communautaire e chiuse le negoziazioni, c’è l’ultimo passo, l’unico politico: l’approvazione da parte del Consiglio Europeo e dai parlamenti nazionali. Normalmente, i paesi candidati convocano anche dei referendum per confermare la scelta. Tra i paesi UE, è richiesta l’unanimità, quindi basta un paese, anche il più piccolo, per bloccare tutto. Bene ricordare che già nel 2016 un referendum in Olanda bloccò (temporaneamente) il trattato di associazione dell’UE con l’Ucraina, e “incidenti” del genere sono del tutto possibili anche su un futuro trattato di adesione.
Ricapitolando: per ora si discute al massimo di accelerare il primo passo, quello di riconoscimento dello status di “candidato”. Quello che per la Turchia durò dodici anni (dalla domanda nel 1987 allo status di candidata nel 1999) può essere in teoria fatto molto più velocemente. Di per sé non costa niente, perché le “negoziazioni” avvengono dopo, ma resterebbe il problema di come possa l’UE considerare l’Ucraina di oggi un paese con la capacità di realizzare le politiche comunitarie e che rispetti appieno i diritti delle minoranze – e di come un giudizio positivo possa essere visto da altri paesi in attesa, come ad esempio la Bosnia-Erzegovina.
I fallimenti dell’allargamento a Est
Veniamo ora al problema politico di fondo per l’UE: perché complicarsi la vita con ulteriori allargamenti? I motivi dell’allargamento a Est del 2004-13 erano politici ma soprattutto economici. Politicamente, si diceva che l’Ovest aveva un debito di riconoscenza verso paesi che, liberandosi dalle dittature comuniste, avevano messo fine alle paure e ai costi della Guerra Fredda, e che poteva rafforzarsi integrando nazioni che dichiaravano entusiasmo per i valori occidentali. Questi argomenti “morali” nascondevano i veri interessi, che, così come per il mercato unico, erano soprattutto quelli delle multinazionali in cerca di mercati e di riorganizzazione delle loro catene di valore. Se le multinazionali ne erano lo sponsor, anche i sindacati e la quasi totalità della sinistra appoggiarono l’allargamento per la mancanza di alternative migliori: lasciare l’Europa Centro-orientale fuori voleva dire o escluderla con barriere protezioniste – indifendibili politicamente – o firmare un accordo di libero commercio che avrebbe lasciato completamente aperto lo spazio per il dumping sociale e ambientale. L’allargamento, vincolando i nuovi paesi membri al rispetto almeno degli standard minimi lavorativi e ambientali dell’Unione, appariva come il male minore, e lasciava la speranza che col tempo gli standard sociali avrebbero continuato a migliorare.
Purtroppo invece l’allargamento coincise con l’instaurazione, nell’estate 2004, della Commissione Barroso, la più neoliberale della storia comunitaria. Svolta neoliberale e allargamento si rafforzarono a vicenda, con i rappresentanti dei nuovi paesi membri a favore di misure come la direttiva Bolkenstein, e i giudici della Corte di Giustizia dell’UE provenienti dai nuovi paesi membri a favore di sentenze (come sui casi Laval, Viking and Rüffert) che subordinavano i diritti dei lavoratori alla libertà di movimento delle aziende.
Per una decina d’anni, l’allargamento fu presentato come un successo politico e economico, come a controbilanciare le evidenti difficoltà dell’altro grosso progetto comunitario, l’Unione monetaria e l’euro. Nella “nuova Europa” la crescita economica era più che doppia che in quella “vecchia” e le istituzioni sembravano consolidarsi. Questo però celava tensioni sociali derivanti dall’assenza di regole sociali efficaci. La migrazione massiccia (oltre il doppio di quanto preventivato) da Est a Ovest e le minacce di delocalizzazione da Ovest a Est si accompagnavano a nuove forme di sfruttamento e precarizzazione del lavoro. Col risultato di alimentare il sentimento di insicurezza a Ovest e quello di frustrazione a Est. Alla convergenza economica non si accompagnava una convergenza di standard sociali. Anzi, l’intensificazione del lavoro nei nuovi paesi membri, spinti a concorrere senza tregua per attrarre investimenti esteri, addirittura aumentava i divari con l’Ovest in termini di costi unitari del lavoro e aveva effetti collaterali con l’espansione di “contratti di lavoro spazzatura” in Polonia, una legge sull’orario di lavoro definita “schiavista” in Ungheria, attacchi frontali ai sindacati in Romania, e tassazione regressiva nei paesi baltici, in Bulgaria e in Slovacchia.
Alla fine, i nodi sociali sono arrivati al pettine politico. Il voto per la Brexit fu conseguenza diretta dell’allargamento, col risultato che economicamente l’UE alla fine si è ristretta, non allargata. A Est, la frustrazione è stata raccolta da partiti populisti, che in Polonia e Ungheria (paradossalmente i due paesi modello della transizione economica degli anni ‘90) si sono contrapposti esplicitamente alle norme comunitarie, mentre la corruzione in Romania e Bulgaria, lungi dall’evaporare come effetto miracoloso delle normative europee, rimane tuttora un peso gravoso.
E l’Ucraina?
Il conflitto in Ucraina è stato segnato da tempo dalla questione europea: già la rivoluzione di Euromaidan del 2014 fu provocata dal rifiuto del presidente Yanukovich, sotto pressione russa, di firmare l’accordo di associazione con l’UE. La popolazione ucraina è divisa sulla Nato, ma ampiamente a favore dell’integrazione europea. Ma l’Ucraina è più grande, come superficie e popolazione, di qualsiasi dei nuovi paesi membri, e ben più povera. I costi per la sua integrazione saranno maggiori che quelli degli allargamenti precedenti. E ancora non è dato sapere se Putin accetterebbe un’Ucraina nell’UE, che potrebbe, in caso di successo, minare il consenso in Russia. Ci si può permettere un allargamento ulteriore?
La risposta dipende innanzitutto dalle alternative. E di alternative a costo zero non ce ne sono. Dal Kosovo in poi l’UE sa che i problemi non scompaiano tendendoli fuori dalla “fortezza europea”. Anzi, i costi di un incendio nel vicinato possono essere più alti: pensiamo ai milioni di rifugiati che un regime putinista in Ucraina creerebbe. Dire di “no” ai candidati non è senza pericoli: il congelamento delle aspirazioni di Turchia e Serbia ha avuto conseguenze politiche nefaste, spingendo quei paesi verso il nazionalismo. La guerra in Ucraina ha costi innanzitutto umani ma anche economici e politici enormi che l’Europa, comunque, non potrà ignorare. L’UE non può pensare di offrire una soluzione militare e l’unica carta che ha è quella economica, da “broker” che può mettere sul tavolo un incentivo per un accordo. La carta più forte è quella dell’integrazione, che potrebbe compensare per l’Ucraina altre concessioni. Rinunciare alla carta più forte in questo momento sarebbe irresponsabile. Tanto più che la libera circolazione (l’aspetto politicamente più sensibile degli allargamenti), di fatto anche se non di diritto è già stato concesso agli ucraini e (soprattutto) alle ucraine per motivi umanitari; è difficile ora immaginare di rimuoverlo.
Ma di sicuro, se il processo andasse avanti, bisognerebbe imparare dagli errori dell’allargamento del 2004-13. Un mercato comune di queste dimensioni non può esistere senza politiche fiscali, sociali e industriali comuni. Che il mercato, da solo, non possa portare alla coesione dovrebbero ormai averlo capito tutti. Passi recenti su Next Generation EU, sulla revisione della direttiva sui lavoratori distaccati, sul salario minimo europeo offrono qualche speranza. Ma non bastano. E qualunque cosa succeda con l’allargamento, rimarrà comunque una frontiera esterna e l’UE dovrà affrontare le sue politiche di vicinato più seriamente.
Guglielmo Meardi è Professore Ordinario di Sociologia Economica e del Lavoro alla Scuola Normale Superiore e autore di “Social Failures of EU Enlargement” (Routledge, 2012).