L’opposizione alla guerra emerge anche in Russia, con 15 mila arresti alle manifestazioni, con prese di posizione di universitari, studenti, giornalisti, con il disagio per il peggiorare delle condizioni sociali. Ma il rigido controllo sulle organizzazioni sociali impedisce finora l’emergere di una sfida al potere di Putin.
Dal 24 febbraio a metà marzo, più di 15.000 persone sono state arrestate o fermate dalla polizia per via delle proteste contro la guerra in Ucraina, riporta OVD-info, un’organizzazione per la tutela dei diritti dei prigionieri politici. Non si tratta solo di manifestazioni di massa, ma anche di picchetti solitari. Non sono reperibili, invece, dati ufficiali sul numero di persone in protesta contro la guerra, perché le manifestazioni di questi giorni sono spontanee, leaderless. Non sono coordinate da formazioni politiche di opposizione, movimenti sociali, organizzazioni.
OVD-info riporta anche numerose testimonianze sulle violenze delle forze dell’ordine durante i fermi, gli arresti e le detenzioni dei manifestanti, così come sulle numerose irregolarità nei processi giudiziari. Percosse, violenze, insulti; minacce per costringere i fermati a firmare testimonianze false, che poi saranno utilizzate contro di loro in processi per direttissima senza avvocati, dopo detenzioni superiori a 24 ore senza acqua, cibo, un posto per dormire, nemmeno il cellulare per chiamare qualcuno.
Un sistema giudiziario distorto, basato su irregolarità sistematiche, al servizio di un apparato repressivo molto efficiente: due elementi fondamentali nel regime di Putin, che insieme riescono a soffocare le istanze di azione collettiva in risposta alla guerra avviata dalla Russia, e a spingere le persone a nascondere il proprio dissenso. Non sono i soli però: a impedire l’insorgere di mobilitazioni di massa vi è un apparato mediatico e propagandistico capillare ed efficiente, ma soprattutto vent’anni di politiche volte a limitare lo spazio di manovra della società civile.
Sul piano legislativo, la pressione del Cremlino sulla società civile si è concretizzata nelle cosiddette “NGO Law” del 2006 e “Foreign Agent Law” del 2012. Questi due provvedimenti, legittimati come questioni di pubblica sicurezza e trasparenza, e poi arricchiti con riforme che ne ampliano il raggio d’azione, consentono sostanzialmente alle autorità di sciogliere organizzazioni e di portare avanti cause giudiziarie in maniera arbitraria. Queste operazioni sono spesso accompagnate da azioni intimidatorie e violente da parte delle istituzioni, come i raid delle forze dell’ordine presso le sedi di organizzazioni e movimenti, ma anche arresti arbitrari con falsificazione delle prove, violenze e minacce, in particolare ad attivisti e giornalisti (eclatante fu il caso di Ivan Golunov nel 2019).
La legge contro le fake news approvata lo scorso 5 marzo è all’apice di questa tendenza ventennale. Prevede pene fino a quindici anni di detenzione per chi divulghi informazioni false nei confronti della guerra in Ucraina, vale a dire, che si discostino dalla versione del Cremlino. In seguito a ciò, moltissime emittenti indipendenti russe hanno dovuto chiudere (come nel caso di Ekho Moskvy, una radio con grande seguito e con trent’anni di attività alle spalle), sospendere il lavoro (come Tv Dozhd’) o sospendere la copertura del conflitto (ad esempio Novaja Gazeta), mentre altri canali sono stati oscurati (fra di loro, Bumaga).
In un quadro legislativo simile, la società civile russa ha sviluppato in questi anni tattiche di mobilitazione alternative e mirate. La letteratura dei primi studi post-sovietici, fino ai primi Duemila, concordava su una sostanziale “debolezza” della società civile, da imputare all’esperienza comunista, che avrebbe reso la popolazione diffidente nei confronti dell’appartenenza a organizzazioni e società, che la rende atomizzata e incapace di organizzarsi senza venire cooptata dalle élite politiche ed economiche. Nei decenni successivi, gli studiosi si sono gradualmente allontanati da questo paradigma: gli studi sui movimenti sociali nei regimi autoritari hanno messo in luce una società civile vivace e capace di sviluppare mobilitazioni in grado di aggirare la pressione istituzionale, evitando la cooptazione.
Si è progressivamente formata sul territorio russo una costellazione di organizzazioni, movimenti e associazioni, con un diverso grado di formalizzazione e di istituzionalizzazione. Queste organizzazioni si allontanano da rivendicazioni di tipo prettamente politico e sono solite privilegiare la fornitura di servizi o l’offerta di soluzioni concrete a problemi su base strettamente locale, senza adottare una narrazione di aperta opposizione politica, la quale subirebbe una repressione feroce. Organizzazioni e movimenti sono raramente coordinati in un network diffuso su tutto il territorio nazionale, ma all’occorrenza sono in grado di stabilire connessioni strategiche. Proprio queste ultime sono la caratteristica principale del cosiddetto attivismo transazionale diffuso nelle realtà post-sovietiche: una forma di mobilitazione che privilegia la creazione di relazioni trans-organizzative e trans-istituzionali fra diversi attori, per compensare una più contenuta mobilitazione di massa. Nascono così organizzazioni ambientaliste che creano infrastrutture per la raccolta differenziata dei materiali (assente in Russia) alleandosi con start-up locali, gruppi femministi che danno vita a sportelli di ascolto e strutture autogestite di riparo per donne vittime di violenza domestica, gruppi di mutuo appoggio per persone con reddito insufficiente che non ricevono assistenza dallo Stato, e così via. Le loro strategie evitano l’aperta politicizzazione e le dinamiche di scontro, per privilegiare un atteggiamento pragmatico volto al raggiungimento di obiettivi pratici. Nelle città si formano coalizioni di gruppi attorno a un obiettivo comune (es: l’installazione di infrastrutture per la raccolta differenziata), le quali a loro volta cominciano a collaborare con le amministrazioni e le imprese locali per renderlo possibile. È il caso, ad esempio, di Razdel’niy Sbor (“Raccolta differenziata”), movimento ambientalista pietroburghese, o della Società russa dei non-vedenti, che si occupa della tutela di persone con disabilità.
Molto minore è invece in Russia il ruolo delle grandi organizzazioni internazionali, come Amnesty International o Greenpeace. Le branche russe di queste organizzazioni si occupano perlopiù di consulenza a pubblici o privati, e portano avanti campagne di divulgazione. Non ci sono legami con organizzazioni che lavorano dal basso e su base locale, principalmente per due ragioni. La prima è che, per via del quadro legislativo di cui sopra, la collaborazione con organizzazioni internazionali causa alle organizzazioni minori il rischio di essere dichiarate “agenti stranieri”, con tutte le conseguenze del caso. La seconda è che le organizzazioni internazionali di advocacy riscuotono poco successo nel pubblico russo per via della scarsa offerta di soluzioni concrete al livello locale, e la sostanziale incapacità di migliorare le condizioni materiali delle comunità.
Questa fisionomia dei movimenti sociali in Russia non ha escluso la realizzazione di mobilitazioni di massa di carattere politico. Negli ultimi anni, tutti gli undici fusi orari della Russia sono stati attraversati da proteste in due occasioni: la riforma delle pensioni del 2018 e l’arresto di Aleksej Naval’nij nel 2021. Nel primo caso, l’approvazione da parte della Duma di un disegno di legge relativo all’innalzamento dell’età pensionabile ha sollevato un grande malcontento popolare. Manifestazioni in tutto il territorio nazionale sono state coordinate da organizzazioni locali, dalle sezioni locali del Partito comunista russo (KPRF) e da altri gruppi indipendenti minori. Nel secondo caso, il Fondo contro la corruzione (FBK), l’organizzazione fondata da Aleksej Naval’nij con sedi in tutte le maggiori città russe, ha realizzato una campagna mediatica molto efficace e ha radunato nelle piazze decine di migliaia di persone.
Tuttavia, i limiti di questi due eventi erano già stati sottolineati nel 2018 da Stepan Goncharov, sociologo del Levada Centre: da un lato, FBK e Naval’nij, liberali e nazionalisti, portano avanti rivendicazioni di natura morale, ben lontane dalle esigenze di natura economica, legate alla corruzione politica, che interessano gran parte della popolazione russa. FBK esclude la dimensione di classe e, con le proprie rivendicazioni, fa presa principalmente sulla classe media urbana con un livello di istruzione medio-alto. A ciò va inoltre aggiunto che, in seguito all’arresto del leader, l’organizzazione è sostanzialmente implosa: molti membri sono stati perseguitati dalle istituzioni, altri hanno cercato riparo all’estero, e FBK non ha organizzato azioni successive.
Nel caso delle pensioni, Putin fece concessioni che moderavano la riforma, dopo le proteste di massa di cui il KPRF fu il principale promotore. Tuttavia, la straordinaria affluenza alle manifestazioni autorizzate contro la riforma delle pensioni non si è tradotta in maggiori consensi per il KPRF, che anziché promuovere un’effettiva opposizione politica si rifà invece a una nostalgia di tipo simbolico per il passato sovietico. Si tratta infatti del meccanismo di “opposizione controllata” molto frequente nelle autocrazie elettorali, per cui in un sistema tecnicamente pluripartitico i partiti di opposizione contribuiscono in realtà a preservare lo status quo e gli equilibri di potere governati dalla maggioranza.
Nella crisi fra Russia e Ucraina fu proprio Zjuganov, il leader del KPRF, a presentare in parlamento la mozione per il riconoscimento dell’autonomia delle repubbliche separatiste di Doneck e Luhansk, appellandosi anch’egli alla volontà di “denazificare” il Donbass e liberare le due repubbliche dal giogo occidentale. L’opposizione partitica è più presente a livello regionale, dove esponenti di partito riescono effettivamente a canalizzare voci di dissenso attorno a rivendicazioni di natura locale, spesso chiedendo una maggiore autonomia regionale rispetto al centro federale. Si tratta di dinamiche centro-periferia che vengono prontamente soffocate, come nel caso dell’ex governatore del kraj di Khabarovsk, Sergej Furgal, o di personaggi la cui popolarità comincia ben presto a destare preoccupazioni, come nel caso di Nikolaj Bondarenko.
Le proteste contro la guerra si scontrano quindi con una serie di ostacoli: l’assenza di un’organizzazione, un movimento o una formazione politica in grado di coordinare le mobilitazioni (che, infatti, non sono autorizzate) e la difficoltà nel reperire informazioni sul conflitto da parte della popolazione. Molte persone, specialmente nelle fasce di età più avanzate, non hanno accesso a informazioni su quanto avviene in Ucraina. Non sanno, dunque, del massacro di civili e della distruzione delle città perpetrata dall’esercito russo, né delle sue perdite. Di recente, Putin ha ammesso la presenza di coscritti al fronte, confermando di aver disatteso una promessa fatta giusto qualche giorno prima per cui le giovani leve sarebbero state escluse “dall’operazione speciale”. Il Comitato delle Madri di Soldati, la principale organizzazione di genitori di militari in Russia, ha pubblicamente ribadito il supporto al governo e “all’operazione speciale”, mettendo in guardia dalle “false informazioni” e “provocazioni” che circolano sul web. Altre organizzazioni autonome, invece, non hanno pienamente ribadito il proprio supporto, né manifestato aperta opposizione alla guerra, ma significativamente hanno posto sul proprio sito istruzioni da seguire in caso si abbiano “posizioni pacifiste” e si desideri evitare la leva.
Le reti televisive nazionali non danno notizia delle proteste e portano avanti la narrativa relativa alla “denazificazione” e al disarmo dell’Ucraina, presentando “l’operazione speciale” come una missione di pace, e screditando tutti i reportage che circolano sui social come fake news e propaganda ucraina. Proprio riguardo a questo ha protestato Marina Ovsyannikova, la giornalista del primo canale russo che si è infilata nell’inquadratura durante una diretta, con un cartello che denunciava la guerra in Ucraina e le menzogne dello Stato. La giornalista è stata immediatamente arrestata, multata per un totale di 30.000 rubli, e allontanata dal canale.
L’unica fonte di informazioni sono dunque le foto e i video che circolano sui social, in particolar modo sull’app di messaggistica Telegram. Facebook, Instagram e Twitter sono stati oscurati nelle prime settimane di marzo, ma numerose VPN consentono di aggirare le limitazioni. Grazie a questi canali, le fasce di popolazione più a proprio agio con le nuove tecnologie riescono a reperire informazioni e a coordinare autonomamente piccole manifestazioni pacifiste. Questi strumenti sono stati fondamentali per i gruppi femministi russi in mobilitazione contro la guerra. In Russia non vi è un vero e proprio “movimento femminista” come, ad esempio, da noi Non Una Di Meno, in grado di raccogliere e canalizzare le istanze femministe in un’organizzazione coesa e influente. Vi è invece una fitta costellazione di gruppi femministi autonomi e informali, non registrati come organizzazioni, che agiscono a livello locale e sono impegnati sul fronte della diffusione di teorie e pratiche femministe e del mutuo supporto. In Russia è infatti illegale ogni iniziativa ascrivibile alla “propaganda” LGBTQ+ e, in generale, alla promozione di modelli famigliari e ruoli di genere non eteronormativi. A inizio marzo, questi gruppi si sono uniti informalmente nella Resistenza femminista contro la guerra, che comunica attraverso un canale Telegram e che ha lanciato un appello. Le femministe chiedono di rigettare quei valori tradizionali e nazionalisti che Putin vuole promuovere in tutto il mondo e all’insegna dei quali Putin e il suo governo hanno lanciato l’offensiva sull’Ucraina. Questa richiesta riguarda in particolare i Paesi europei, in cui le destre sovraniste e conservatrici hanno spesso fatto riferimento al presidente russo nei propri programmi elettorali e hanno spesso ricevuto sostegno economico dal governo russo. Nell’appello si chiede anche di insorgere contro la guerra partecipando a manifestazioni pacifiche, e di contribuire a contrastare la propaganda filoputiniana diffondendo informazioni verificate sulla guerra in Ucraina.
Le femministe non sono le sole ad aver lanciato un appello: risposte organizzate provengono dalle comunità universitarie, come quella della Higher School of Economics (HSE) e dell’Università di Mosca Lomonosov (MGU), i cui rettori hanno firmato, insieme ad altri 700, una dichiarazione dell’Unione dei rettori russa a sostegno “dell’operazione speciale” in Ucraina. La comunità accademica di HSE e MGU ha stilato in risposta un documento contro l’invasione dell’Ucraina firmato da studenti e studentesse, ricercatrici, docenti. Diversi professori hanno inoltre rassegnato pubblicamente le proprie dimissioni.
Il mondo dell’università e della ricerca sarà tra i primi, infatti, a risentire dell’improvviso isolamento della Russia dalla scena internazionale. Oltre all’interruzione di accordi bilaterali fra università occidentali e università russe, sono numerosi i docenti russi che hanno cercato rifugio all’estero, e i docenti stranieri che hanno interrotto la propria collaborazione con atenei russi. Penalizzate più di tutte saranno le scienze sociali e gli studi post-sovietici, a cui studiosi in loco avevano riccamente contribuito negli ultimi decenni, e di cui questa crisi ha evidenziato il bisogno.
Sono tante le persone che lasciano il Paese: si stima che, solo nei primi giorni di marzo, più di 200.000 persone abbiano attraversato i confini, ma il numero è destinato ad aumentare. Molte di queste si sono spostate in Estonia e in Finlandia, ma la maggior parte in Caucaso (Georgia perlopiù) e in Asia centrale. Poiché fra di loro ci sono moltissimi attivisti e attiviste, studiose, ricercatori e, in generale, figure animatrici del dissenso, la società civile rimane svuotata di un nucleo che ha nutrito sensibilmente l’opposizione e il dibattito politico negli ultimi anni.
È una situazione difficile, dunque, quella di chi rimane, senza strutture, formali o informali, in grado di canalizzare le spinte di opposizione e di creare un fronte coeso. Difficilmente queste proteste spontanee troveranno un seguito in una nuova formazione politica, per via dell’efficienza di un sistema istituzionale volto a evitare questo scenario, costruito lungo vent’anni. Le leggi elettorali vigenti, insieme a pesanti intimidazioni e incarcerazioni arbitrarie, impediscono de facto la presentazione di candidati indipendenti sia a livello regionale che a livello federale. Oltre a ciò, le relazioni di natura clientelare che intercorrono fra il Cremlino e i principali poteri economici del Paese contribuiscono a rendere difficile un cambiamento al vertice del paese. Le sanzioni economiche applicate nei confronti della Russia puntano anche a minare questo tipo di fiducia, ma al momento la cerchia di oligarchi sembra non avere influenza sui processi decisionali di Putin, anche per via della formale assenza degli oligarchi dalle istituzioni.
Diverso è il discorso relativo alle classi medie, che si ritroveranno sensibilmente impoverite, non solo in termini strettamente economici, ma anche di opportunità e di stile di vita. Insieme alle classi più basse, che vanno incontro a difficoltà economiche sempre maggiori, potrebbero essere decisive per la perdita di consensi intorno a Putin. Vedremo allora se il controllo del regime su una società civile privata degli strumenti per organizzarsi potrà continuare anche in presenza di un disagio economico e sociale che non ha precedenti negli ultimi vent’anni.