La privatizzazione strisciante dei servizi pubblici racchiusa all’interno del disegno di legge delega concorrenza ha iniziato in sordina il suo iter presso le commissioni parlamentari. Si tratta di una controriforma che minaccia di vanificare l’esito del referendum del 2011 sull’acqua pubblica e di inaugurare una nuova stagione liberista.
La privatizzazione strisciante dei servizi pubblici racchiusa all’interno del disegno di legge delega concorrenza ha iniziato in sordina il suo iter presso le commissioni parlamentari. Si tratta di una controriforma che minaccia di vanificare l’esito del referendum del 2011 sull’acqua pubblica e di inaugurare una nuova stagione liberista proprio negli ambiti sociali che di più hanno pagato il prezzo dei tagli alla spesa pubblica nel corso degli anni.
La lettura della delega confonde da sùbito la privatizzazione dei servizi pubblici locali, gli obiettivi del PNRR e le richieste dell’Unione Europea. L’articolo 1 cita tra le finalità della delega proprio la giustizia sociale richiamando il PNRR (pag. 75) secondo cui la concorrenza del mercato favorirebbe “…una più consistente eguaglianza sostanziale e una più solida coesione sociale”, assunto che non ha riscontri anzi ha favorito spesso la limitazione degli obblighi di servizio universale per fare diventare i servizi pubblici profittevoli.
Gli articoli 6,7 e 8 sono il grimaldello per la privatizzazione proprio di servizi pubblici locali quali asili nido, trasporti locali, acqua e ogni altro servizio essenziale che vive di sussidi per contrastare le diseguaglianze, la povertà, favorire l’integrazione e la coesione sociale. Secondo l’assunto della delega tali obiettivi sono consoni al settore privato e non propri delle istituzioni pubbliche locali perché il mercato e la concorrenza ha maggiore capacità di rinforzare l’uguaglianza e la coesione sociale. L’apertura nell’articolo 8 alle piattaforme digitali straniere per il servizio di taxi ha un sapore amaro poiché con tutte le risorse destinate dal PNRR per la digitalizzazione del settore pubblico si rinuncia a sviluppare piattaforme digitali pubbliche per i servizi pubblici non di linea che garantiscano la copertura universale dei territori, costi di intermediazione calmierati preferendo una nuova ondata di lavoretti precari governata dagli algoritmi di qualche piattaforma digitale straniera.
Il governo che porta il nome dell’ex presidente della BCE, con una delega che scoraggia le autonomie locali dal gestire i servizi pubblici ritorna al passato e alle velleità dell’austerità espansiva, del liberismo e della riduzione del perimetro del settore pubblico, prima perché lo chiedeva la BCE, oggi perché lo richiederebbe il PNRR. In realtà l’Unione Europea per trattato non ha alcun diritto di imporre le privatizzazioni e non può impedire che uno stato nazionale eroghi i servizi pubblici in autoproduzione. Le ricette liberiste e le privatizzazioni sono scaturite dalle crisi del debito pubblico e da una visione neoliberista della Commissione e della BCE che ha minato la coesione sociale e reso l’Europa impopolare in molti paesi. La genesi del PNRR scaturisce dal fallimento politico dell’austerità, tanto da concepirlo come strumento per risanare i danni della visione liberista che stavano affossando la stessa Unione.
L’alibi europeo e l’efficienza presunta del privato è una storia che si ripete dagli anni novanta con l’adeguamento alle norme europee, con le riforme degli enti locali e l’abbandono delle aziende speciali del settore pubblico. In nome del liberismo e dell’efficienza sono proliferate società di diritto privato controllate in toto o in parte dalle autonomie locali (o completamente private). Queste società, nate sotto l’ideologia della privatizzazione si sono distinte spesso per i fallimenti, gli scandali e le formule di ingegneria societaria assai distanti dalla buona amministrazione, dalla trasparenza e dalla missione originale di servizio pubblico. Secondo le elaborazioni della Corte dei Conti alla fine del 2019 a quasi 7500 organismi partecipati con una componente privata circa 5mila società. Tra queste società si distinguono migliaia di casi in cui il numero dei dipendenti è inferiore al numero degli amministratori e di perdite nei bilanci d’esercizio sistematiche negli anni. L’efficienza che si sarebbe dovuta ottenere con il ricorso al modello privatistico per l’erogazione dei servizi pubblici non si è vista anzi si sono moltiplicate le poltrone di amministratore, minore trasparenza gestionale e maggiori costi di funzionamento. La presenza di partecipazioni private in tali società non ha nemmeno portato ad affidi sul mercato, ancora oggi rari, ma ha dato lavoro a commercialisti, avvocati e magistrati per le numerose fusioni, liquidazioni e trasformazioni societarie. L’efficienza presunta del privato come gestore dei servizi pubblici in Italia si è rilevata più una favola che realtà e invece di constatarne il fallimento e re-internalizzare i servizi oggi la delega propone un ulteriore livello di privatizzazione.
Negli anni i fallimenti dei privati hanno lasciato debiti che il pubblico deve risanare, si pensi all’Alitalia privatizzata ripetutamente negli anni e la cessione sistematica dei suoi debiti allo Stato. Oppure i gestori privati dopo l’aggiudicazione di una concessione pubblica non hanno investito e aumentato le tariffe. I risultati sono stati rovinosi con tanto di vittime (ponte di Genova) e con uno Stato senza nemmeno gli strumenti giuridici per revocare rapidamente le concessioni di servizi più problematiche.
Nel caso dell’acqua il fallimento delle privatizzazioni è stato eclatante, con monopoli privati, inasprimenti tariffari e pochi investimenti tanto da dovere essere abrogato dal referendum il cui esito sembra essere dimenticato. Con la pandemia non è stata la forza del mercato a salvare dal fallimento la maggior parte delle imprese che avevano affidamenti di servizi pubblici quanto i generosi sussidi statali. A questo si debbono aggiungere i risultati della privatizzazione di altri grandi reti dei servizi come ferrovie, poste, luce e gas che negli anni sono diventati sempre più costosi per i cittadini e si sono staccate sempre più dalla logica di servizio pubblico.
La coesione sociale e le diseguaglianze, obiettivi prioritari per i servizi pubblici locali, con la loro privatizzazione sono destinate ad aumentare, grazie meccanismi di condizionalità di accesso ai servizi più stringenti in nome dell’efficienza, a una riduzione di quelli garantiti universalmente e alla precarizzazione dei lavoratori esternalizzati. Questa dinamica è presente da anni in diversi servizi pubblici. La sanità pubblica ha mostrato come decenni di privatizzazioni abbiano ridotto i fondi pubblici: la spesa sanitaria pubblica è scesa dal 7% del Pil nel 2009 al 6,4% nel 2019. Basti pensare che in occasione della pandemia l’Italia abbia scoperto la carenza di medici e infermieri nel servizio sanitario nazionale, scesi di 20mila unità in soli cinque anni in parte per il mancato turnover, in parte esternalizzati (e precarizzati) nel settore privato e come le terapie intensive, smantellate nel pubblico sotto la scure delle politiche di contenimento della spesa, non fossero state rimpiazzate dalla sanità privata.
La legge delega avrebbe dovuto prevedere l’internalizzazione dei servizi pubblici nelle istituzioni locali precludendo il ricorso all’artificio giuridico delle società per azioni, miste o private, responsabili di veri e propri disastri sociali e finanziari. I servizi che andrebbero privatizzati sono spesso monopoli naturali o attività che vivono di sussidi incompatibili con le dinamiche di mercato senza pregiudicarne la natura di servizio pubblico. La sostenibilità ambientale, l’Agenda 2030 e la volontà popolare del referendum sull’acqua pubblica e la trasparenza dovrebbero essere le stelle polari per razionalizzare un settore nevralgico per il benessere del Paese e non il liberismo magari in versione corretta per soddisfare gli immancabili interessi di qualche lobby.