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Speranza deve impugnare la legge Fontana-Moratti

Dopo decenni di privatizzazione della sanità in Lombardia la giunta Fontana ora ha fatto passare una legge regionale che non rispetta le prescrizioni del governo sulla programmazione e apre ai privati anche la sanità territoriale. Raccogliamo le firme perché il ministro la blocchi, invertendo il paradigma per tutti.

Entro il 13 febbraio di quest’anno il ministero della Salute e il governo dovranno decidere se dare il via libera alla nuova legge sulla sanità della Lombardia o bloccarla e rinviarla alla Corte Costituzionale.

Il coordinamento regionale per il diritto alla salute – Campagna Dico 32! ha inviato lo scorso 27 dicembre una lettera al ministro Roberto Speranza sollecitando un suo intervento affinché la legge venga fermata e ha attivato una raccolta di firme online per supportare questa richiesta. (qui per aderire alla petizione)

Le motivazioni sono lunghe e dettagliate, servono per spiegare come siamo arrivati a questo punto.

La revisione della legge sanitaria della Regione Lombardia, iniziata nel 2015, è ancora aperta, nonostante l’approvazione nel dicembre scorso da parte del Consiglio Regionale della legge 22/2021 “Modifiche al Titolo I e al Titolo VI della legge regionale 30 dicembre 2009 n. 33 (Testo unico delle leggi regionali in materia di sanità)”, che secondo le intenzioni del governo di centrodestra della Regione avrebbe dovuto chiudere la questione. 

È noto che il profondo ripensamento sulla sanità in Lombardia, che l’ha portata ad allontanarsi dai principi sanciti nel 1978 con l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, trae origine dalla legge approvata nel 1997 dalla giunta guidata da Formigoni. I contenuti di fondo erano la separazione tra la funzione di acquisto dei servizi sanitari e la funzione di erogazione degli stessi, la competizione tra erogatori pubblici e privati su un piano di parità, la possibilità per tutti gli erogatori di accreditarsi soddisfacendo i requisiti richiesti, la libertà di scelta del cittadino che si rivolge all’erogatore preferito. I presidi ospedalieri furono scorporati dalle Aziende Sanitarie Locali, che agivano come ufficiali pagatori delle prestazioni fornite dagli ospedali pubblici e privati. 

La riforma di Formigoni era nata con una spinta fortemente ideologica basata sull’antistatalismo dell’area cattolica che faceva capo a Comunione e Liberazione, profondamente ostile all’intervento pubblico nelle politiche e sociali e sostenitrice della sussidiarietà orizzontale da parte della società civile, integrato dalla concezione neoliberista che considerava il mercato capace di autoregolarsi e proponeva l’inserimento anche nei servizi pubblici di logiche manageriali privatistiche.

Col passare degli anni le stesse forze politiche del centrodestra lombardo rilevarono alcuni aspetti critici del modello, pur ribadendone la validità nei principi fondatori, e li evidenziarono nel Libro Bianco sullo sviluppo del sistema sanitario in Lombardia, pubblicato nel 2014. Si trattava dell’inadeguatezza del finanziamento basato su un sistema a prestazione efficace per i pazienti acuti ma inadeguato per i pazienti cronici, dei requisiti di accreditamento carenti riguardo a criteri di economicità e tempestiva risposta ai bisogni, di una insufficiente funzione di controllo dell’appropriatezza dei percorsi di assistenza, delle definizioni dei budget delle ASL troppo ancorate alla spesa storica. Veniva quindi suggerito un riordino del sistema.

Queste considerazioni sollevarono aspettative di una revisione del modello, dovute anche alla convinzione di un orientamento più pragmatico della Lega rispetto al rigido ideologismo formigoniano. Ricordiamo che la Lega con Maroni aveva preso la guida della Regione Lombardia, mentre nel 1997, quando la riforma sanitaria era stata elaborata, era all’opposizione.

Il frutto di queste riflessioni fu la legge 23 del 2015 “Evoluzione del sistema sociosanitario lombardo”. La lettura del testo mise rapidamente fine alle ipotesi ottimistiche suscitate dal Libro Bianco, nonostante alcune affermazioni di principio in esso contenute, come l’obiettivo di passare “dalla cura al prendersi cura”, che ambiva a superare la logica degli interventi frammentari centrati sull’urgenza, definendo percorsi di accompagnamento delle persone fragili nel quadro di un’azione di regia per rispondere ai bisogni delle persone, e la promozione di un’integrazione tra strutture territoriali e ospedaliere, affidate alla gestione di un’unica agenzia. 

L’aspetto più rilevante della legge è stato l’istituzione di due soggetti, le Agenzie di Tutela della Salute (ATS) e le Aziende Socio Sanitarie Territoriali (ASST), dotati di autonomia gestionale, amministrativa e operativa, derivanti dalle ASL e dalle Aziende Ospedaliere. Questa scelta in realtà estremizzava i principi di base del modello, la libera scelta, la parità pubblico-privato, la concorrenza tra erogatori, attraverso un’ancora più netta separazione tra le funzioni di programmazione, accreditamento, acquisto e controllo attribuite alle ATS e quelle di erogazione dei livelli essenziali di assistenza attribuite alle ASST, che però agiscono in parallelo e in competizione con i privati accreditati. La Programmazione era ridotta ad Accreditamento e Contrattazione, basate sui meccanismi di mercato (libera scelta, concorrenza) senza quadri complessivi dei bisogni della popolazione in rapporto a evidenze epidemiologiche, né obiettivi di salute 

L’articolazione in due settori delle ASST, cioè la rete territoriale e polo ospedaliero, lungi dal favorire processi di integrazione, senza la concreta possibilità di fare rete con le strutture territoriali, in assenza di risorse dedicate al potenziamento organizzativo necessario appariva destinata a perpetuare la subalternità della sanità territoriale a quella ospedaliera.

Questa volta, a differenza del 1997, l’evidenza di un’accentuata incongruità della legge 23 rispetto alla normativa nazionale, sollevò obiezioni da parte dei ministeri della Salute, della Giustizia e dell’Economia, col rischio di un ricorso alla Corte Costituzionale. Il governo Renzi tuttavia scelse una soluzione di compromesso in base alla quale la Regione Lombardia accettò di promulgare alla fine del 2015 la legge 41, che modificava l’originale art.1 della legge 23, oltre a recepire punti d’importanza minore, specificando che l’articolazione in ATS e ASST del Servizio Sanitario e Sociosanitario regionale avveniva in via sperimentale per un periodo di 5 anni. Al termine del quinquennio, Regione e ministero della Salute avrebbero valutato i risultati della sperimentazione. Il 4.4.2016 il Protocollo d’Intesa tra ministero e Regione per la verifica della legge veniva firmato dalla ministra Lorenzin e dal presidente Maroni.

Ora, alla fine dei cinque anni trascorsi alla fine del 2020, come può essere considerato il bilancio della legge 23? Senza timore di esagerare possiamo dire che la sua applicazione pratica ha messo in luce aspetti ancora più problematici rispetto a quanto era emerso da un esame preliminare, determinando un quadro disastroso i cui effetti si sono concretizzati in modo clamoroso in Lombardia nella gestione fallimentare delle prime fasi della pandemia.

L’articolazione in ATS e ASST, oggetto primario della verifica della sperimentazione quinquennale, ha incontrato difficoltà organizzative, strutturali, finanziarie. L’esito ha peggiorato la qualità del Servizio e ha prodotto disgregazione e frammentazione dei servizi. L’offerta affidata al mercato ha progressivamente tolto risorse alla Sanità pubblica, convogliandole verso la Sanità privata accreditata. Questo approccio, da tempo perseguito, ha ulteriormente aumentato il suo peso, per lo squilibrio derivante dai vincoli normativi e di bilancio a carico della Sanità pubblica, rendendo evidente il fallimento di un sistema basato sulla parcellizzazione della risposta ai bisogni, in assenza di una visione strategica nella programmazione e nella catena di comando, senza una logica di sistema integrato e di comunità. La legge 23 ha attuato un processo di marginalizzazione della componente territoriale dei servizi Sanitari, in cui il ruolo dei Distretti di enormi dimensioni è stato svuotato, mentre contemporaneamente è mancata la funzione di programmazione ospedaliera. La funzione delle ATS ha infatti ulteriormente liberalizzato il rapporto giuridico con strutture private per mezzo del depotenziamento della Programmazione pubblica regionale e locale, sostituita in sostanza dalla Contrattazione annuale della fornitura, limitata da tetti di spesa annuali e non sostenuta da valutazioni epidemiologiche dei bisogni di salute. Previsto già dal 2009, e ribadito nell’art. 4 della nuova legge sperimentale, l’ultimo Piano Socio-Sanitario integrato è stato presentato la prima volta nel 2019 e subito ritirato, travolto dalla pandemia. Il ritardo della presentazione è un segnale di come la programmazione sia stata di facciata. Le ATS non sembrano obbligate a redigere una programmazione complessiva comprendente i loro servizi.

La carenza informativa dello stato di salute della popolazione non è stata colmata dall’Osservatorio Epidemiologico già istituito dalla L.31/1997 e richiamato da provvedimenti successivi. Compiti e attività dell’Osservatorio trovano pochi riscontri in pubblicazioni regionali. Solo una pubblicazione sui ricoveri è stata presentata, come rapporto di produzione dei DRG, senza alcuna descrizione della crescita o diminuzione delle varie patologie. L’Agenzia di Controllo che avrebbe dovuto garantire la trasparenza e la completezza informativa è stata lasciata con pochi mezzi. 

La legge definisce il Servizio Sanitario come erogazione di prestazioni di prevenzione, diagnosi, cura e riabilitazione, mentre funzioni strategiche come analisi e governo della domanda sanitaria, più volte enunciate, non sono mai state implementate, nonostante siano ancora inserite nella proposta di Piano Socio-Sanitario Integrato 2019-2023, peraltro mai approvato.

Le ATS, che avrebbero dovuto svolgere funzioni di programmazione, contrattazione, acquisto e controllo dei servizi, di fatto non hanno mai avuto alcuna autonomia, perché i contratti sono standard e fissati annualmente dalla Regione con le delibere sulle regole, per cui le ATS non possono negoziare tariffe, tipologia, qualità e quantità delle prestazioni con gli erogatori. Sono semplicemente agenzie di pagamento decentrate della Regione e la maggior parte di esse deve gestire aree così vaste da rendere impossibile qualsiasi funzione di verifica dei servizi, di programmazione territoriale e di interazione con gli enti locali. Basti ricordare che è stata istituita una sola ATS che copre la città metropolitana milanese e la provincia di Lodi, con oltre 3,4 milioni di abitanti. Alle ASST, non sono stati formalmente assegnati bacini d’utenza in omaggio al principio della libera scelta e della competizione tra erogatori, che deve prevalere anche per i servizi pubblici. Di conseguenza, gli ambiti delle reti territoriali gestite dalle ASST sono mal definiti. Alcuni esempi eloquenti: tre ASST che operano nel Comune di Milano hanno logiche competitive senza chiare responsabilità territoriale. L’ASST Gaetano Pini di Milano non ha alcuna rete territoriale ed è di fatto un ospedale monospecialistico. L’ASST Nord Milano, che comprende le zone di Sesto San Giovanni e Cinisello Balsamo gestisce tutti i poliambulatori specialistici della città di Milano, senza che vi sia uno strutturato collegamento con i presidi ospedalieri. 

Una volta esaminati i problemi derivanti dall’assetto istituzionale disegnato dalla nuova legge, approfondiamone gli effetti su tre settori chiave: la prevenzione, le cure primarie e i servizi territoriali, l’assistenza ospedaliera.

I Dipartimenti di Prevenzione e Sanità pubblica sono stati inseriti nell’ATS, che non è una struttura operativa ma deputata al governo e al controllo, restando quindi privi di rapporti con la medicina territoriale e sono stati drasticamente ridimensionati. Il depotenziamento ha investito l’organizzazione, i livelli di autonomia, i finanziamenti e la dotazione di risorse umane e tecnologiche. I Dipartimenti sono stati ridotti da 15 a 8 e i Presidi Multizonali d’Igiene e Prevenzione da 15 a 3. L’intero territorio della Città Metropolitana milanese è oggi dotato di un solo Dipartimento e un solo Presidio. Il personale assegnato alla Prevenzione e alla Sanità pubblica è continuamente diminuito e oggi risulta a livello regionale dimezzato negli ultimi 15 anni da 5000 a 2500 unità. La percentuale del finanziamento regionale dei Livelli Essenziali di Assistenza dedicata alla prevenzione negli ambienti di vita e lavoro è scesa nel 2018 al 2,8%, ben al disotto del 5% risultante dalle indicazioni nazionali.

Il Settore delle Cure Primarie, inserito nell’ATS e trasferito poi all’ASST, ha subito gli effetti di un’impostazione confusa e contraddittoria che di fatto ne negava la centralità. È stato istituito un solo Distretto in ognuna delle 27 ASST con lo stesso ambito territoriale (in media uno ogni 370.000 abitanti), mentre il D.L. 229/99 indicava in 60.000 abitanti il bacino d’utenza ottimale.

I MMG sono convenzionati e remunerati dall’ATS, ma dovrebbero operare ed essere coordinati all’interno della rete territoriale dell’ASST. Non sono state attuate le indicazioni della Legge Balduzzi del 2011, che prevedeva la riconversione della medicina di base da un modello basato sul singolo professionista a uno associativo fondato su Aggregazioni Funzionali Territoriali e Unità Complesse di Cure Primarie. In Lombardia, le Aggregazioni Funzionali Territoriali e le Unità Complesse Cure Primarie non hanno avuto sviluppo, poiché questa mutazione è stata ostacolata da un nuovo modello di aggregazione imprenditoriale e cooperativo centrato sui Gestori. Nel 2018 solo il 40% dei MMG in Lombardia lavorava in gruppo, mentre in Emilia-Romagna erano oltre il 70%, in Toscana il 65%, in Veneto oltre il 60%, nel Lazio quasi il 60%.

Lo scollamento tra ATS e ASST, evidenziato nel periodo dell’epidemia specie coi malati più fragili per svantaggio socio-economico, isolamento e difficoltà psicologiche, ha lasciato i MMG senza governo da parte delle ATS, per estensione eccessiva del territorio di competenza, senza coordinamento da parte delle ASST completamente dedicate alla gestione degli ospedali presto travolti dalla pandemia, senza appoggi su strutture integrate e degenze di comunità per sostenere i Percorsi Diagnostici Terapeutici Assistenziali. La grave carenza dell’assistenza territoriale, dovuta a fattori strutturali e non solamente a cattiva gestione, è dimostrata dalla distribuzione dei pazienti Covid assistiti in Lombardia nella prima fase della pandemia, a confronto col Veneto e l’Emilia Romagna. Risalta la bassa percentuale di casi assistiti a domicilio e il conseguente sovraccarico degli ospedali. Questi dati contribuiscono a spiegare l’alto livello di contagi per Covid e l’elevata mortalità riscontrata in Lombardia.

Tabella 1 qui

La Legge 23 aveva un nucleo potenzialmente innovatore nella procedura di Presa in carico dei Cronici, in applicazione del Piano della Cronicità definito a livello nazionale. Tuttavia, il modello è stato centrato su gestori pubblici o privati a cui erano affidati i pazienti cronici sottratti in parte alla medicina di base. Il confronto tra gli obiettivi dichiarati e i risultati concreti per i 3,4 milioni di malati cronici in regione, ha presentato un bilancio negativo; molte associazioni impegnate nella tutela del diritto alla salute si sono mobilitate per contrastare questi provvedimenti ed il risultato è stato che solo il 10% di cittadini invitati ad aderire hanno scelto di seguire il percorso indicato dalla Regione. Gli indicatori di risultato sono stati cambiati e ridefiniti, senza dare luogo a report pubblici, né a relazioni semestrali previste dal Protocollo di verifica. Pertanto, alla fine, il risultato organizzativo principale del nuovo assetto è stato l’esternalizzazione parziale della Medicina di Base, in evidente contrapposizione all’assetto delle Cure Primarie esistenti in tutto il resto del paese. La disarticolazione organizzativa è stata istituzionalizzata e completata con la creazione della figura giuridica del Gestore, che ha dato la possibilità a diversi soggetti erogatori di prestazioni sanitarie o sociosanitarie accreditati e a contratto con il Servizio sanitario regionale, nonchè a cooperative formate da medici di medicina generale, di candidarsi a ricoprire questo ruolo. L’accreditamento senza limiti e controlli, con la contemporanea assegnazione di funzioni proprie dell’Ente pubblico a Enti di diritto privato ha declassato e ridotto a mera attività burocratica la programmazione dei servizi, senza alcuna correlazione con una Programmazione dell’offerta, in rapporto alla domanda rilevata. I Gestori dei cronici hanno eroso e minacciato la medicina di base, costituendo un circuito privatistico parallelo ad essa. In questo processo è emersa una delle maggiori differenze tra le normative nazionali e quelle scelte dalla Regione Lombardia. 

L’insufficienza di risposte ai bisogni sociosanitari da parte di servizi territoriali impoveriti e disorganizzati è esemplificata da quanto si è verificato in tre settori delicati: l’assistenza agli anziani, i consultori familiari e i servizi per la salute mentale. Nel primo caso in Lombardia la percentuale di anziani oltre i 65 anni in Assistenza Domiciliare Integrata è stata nel 2018 del 2,45%, rispetto a una media italiana del 2,81 e a valori nelle regioni del Centro-Nord tra 2,79 e 3,55. Solo cinque regioni in Italia hanno registrato un tasso inferiore. Ciò è in contrasto col numero molto alto di posti in RSA, quasi tutte private, che nel 2018 erano 288,5 per 10.000 anziani, rispetto a una media italiana di 180,3. Solo in Piemonte e Trentino-Alto Adige si sono registrati valori più alti. Ha prevalso quindi un modello istituzionale di assistenza, i cui effetti sugli anziani sono emersi durante la pandemia. A ciò si aggiunga che la copertura per la vaccinazione antinfluenzale negli anziani è stata nel 2018 del 48%, per cui la Lombardia è nel gruppo di regioni col tasso più basso. Va notato che questo indicatore è peggiorato negli ultimi 10 anni: nel 2008 era del 60%. 

Quanto ai consultori, in Lombardia ce ne sono 251, di cui 151 pubblici e 100 privati, uno ogni 40.000 abitanti, cioè metà di quanto indicato dalla legge 34/96, che ne prevedeva uno ogni 20.000. Di conseguenza gli utenti dei consultori nel 2018 sono stati circa metà della media nazionale, cioè 2,6 su 100 residenti rispetto a 5. Stessa situazione di riduzione dell’offerta si è verificata per i servizi psichiatrici territoriali: i Centri di Salute Mentale erano 104 nel 2005 e sono oggi 78, per effetto di chiusure, accorpamenti o collocazioni all’interno degli ospedali.

Riguardo al settore ospedaliero, gli accorpamenti che hanno dato vita alle ASST hanno generato situazioni critiche, affidando ad alcune più presidi ospedalieri, spesso distanti e non integrati tra loro. La centralizzazione della gestione dei servizi negli ospedali non è stata accompagnata da una programmazione adeguata della rete ospedaliera, ma l’ha addirittura ostacolata. La riduzione progressiva di letti per acuti ha determinato un tasso di posti inferiore alla soglia critica in 4 province (Como, Lodi, Monza Brianza, Mantova), col 20% della popolazione regionale. Inoltre, questi dati sommano i posti letto pubblici coi privati accreditati, che sono in percentuali rilevanti in varie ATS, fino al 32% nell’ATS della Città metropolitana di Milano. Mentre tutti i posti letto pubblici sono in ospedali dotati di Dipartimenti di Emergenza e Pronto Soccorso, una quota rilevante di quelli privati, che arriva fino al 60% a Brescia, si trova in ospedali che ne sono privi. I posti letto per acuti, non supportati da servizi per l’emergenza/urgenza, hanno un’operatività limitata e non forniscono risposte adeguate in situazioni critiche. Escludendo questi posti dal computo totale, la disponibilità scende sotto la soglia accettabile in 5 province (Bergamo, Como, Lodi, Monza Brianza, Mantova). Ciò solleva pesanti riserve sui criteri generosi adottati dalla Regione per l’accreditamento degli ospedali privati.

Dall’avvio della legge si sono accentuate tendenze negative: la riduzione di posti letto a favore dei privati, evidenziata nella tabella 2 e la riduzione dell’offerta di prestazioni ambulatoriali specialistiche, evidenziata nella tabella 3.

Va rilevato che per l’attività ospedaliera la valorizzazione economica delle attività dei privati ha assorbito nel 2017 il 40% dei finanziamenti regionali, a fronte di una percentuale di letti del 27%, una chiara indicazione di come il settore privato attragga in modo privilegiato le attività più remunerative secondo la tariffazione regionale, in assenza di qualunque programmazione. Vi è stata inoltre una riduzione del personale soprattutto nel settore pubblico, con pensionamenti senza sostituzioni e ricorso alle esternalizzazioni. Il confronto col Veneto e l’Emilia-Romagna mostra che nel 2017 in Lombardia il numero di medici per 1.000 abitanti era 1,44 rispetto a 1,65 e 1,85 e il numero di infermieri x 1.000 abitanti era rispettivamente di 3,81 per la Lombardia, 4,89 per il Veneto e 5,61 per l’Emilia-Romagna. La riduzione ha colpito soprattutto il personale ospedaliero.

La sottrazione di risorse umane fa un effetto stridente se si confronta con l’abnorme incremento di dotazioni tecnologiche, in larga misura dovuto a investimenti privati nel settore. La Tabella 4 mostra la dotazione sproporzionata di apparecchiature per la TAC e la RM in Lombardia, a confronto coi maggiori paesi europei.

Alcuni dati di attività ospedaliera, che sono indicatori indiretti di efficacia dell’assistenza territoriale, testimoniano come sugli ospedali si siano riversati bisogni assistenziali connessi a patologie che avrebbero dovuto essere trattate sul territorio. Infatti, il tasso di accessi al Pronto Soccorso in Lombardia nel 2018 è stato di 368 per 1.000 residenti, contro 361 in Toscana, 359 in Veneto, 350 in Friuli-Venezia Giulia, con punte particolarmente elevate in alcune province (Lodi 405). Il tasso di ospedalizzazione per patologie da curare principalmente sul territorio è stato in Lombardia di 10,2 per 1000 residenti, contro 9,8 in Friuli-Venezia Giulia, 6,7 in Toscana, 3,4 in Veneto. Due esempi significativi in questo senso sono l’alto tasso di ospedalizzazione in Lombardia per broncopatie croniche ostruttive degli adulti (368 per 1.000) e di asma e gastroenterite dei bambini (addirittura 233 per 1.000 residenti con meno di 18 anni), più del doppio che in Emilia Romagna, quattro volte il Veneto e sette volte la Toscana.

La valutazione, curata dell’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali, che il ministro ha inviato alla Regione Lombardia nel dicembre 2020, al termine del periodo sperimentale della legge 23, non conteneva tutti i rilievi critici che abbiamo formulato e non sollevava obiezioni su alcuni aspetti importanti, come la privatizzazione o l’introduzione dei gestori per i cronici. In un certo senso potremmo dire che era abbastanza indulgente. Cionondimeno individuava alcuni aspetti problematici che hanno portato il ministro a dare alla Regione alcune prescrizioni ritenute indispensabili per una revisione della normativa e altre raccomandazioni suggerite ma non indispensabili.

Le più importanti prescrizioni obbligatorie erano le seguenti:

  1. Istituire i Dipartimenti di Prevenzione, come articolazioni delle ASST, con funzioni di governo ed erogazione delle prestazioni per la tutela della salute della popolazione.
  2. Istituire nell’ambito delle ASST i Distretti con funzioni di governo ed erogazione delle prestazioni distrettuali, prevedendo un adeguato coinvolgimento dei sindaci.
  3. Assegnare alle ASST l’attuazione degli atti di indirizzo, di pianificazione e di programmazione regionali con le connesse attività di programmazione ed organizzazione dei servizi a livello locale, sulla base della popolazione di riferimento.
  4. Attribuire alla Regione la funzione di accreditamento istituzionale delle strutture pubbliche, private e dei professionisti che lo richiedessero.
  5. Assegnare alla Regione, tramite l’Agenzia di controllo, oppure all’ATS unica, funzioni di vigilanza e controllo degli erogatori privati accreditati di valenza regionale o extraregionale con cui ha stipulato gli Accordi Contrattuali e assegnare alle ASST la funzione di controllo degli erogatori privati accreditati: ospedalieri, ambulatoriali e sociosanitari, con valenza locale, con cui hanno stipulato gli Accordi Contrattuali.

Vi erano poi le indicazioni non strettamente necessarie, ma fortemente raccomandate:

  1. Costituire un’ATS unica con funzioni tecnico amministrative specialistiche a livello centrale, col compito di coordinare delle ASST e migliorare i processi tecnico amministrativi e di organizzazione sanitaria nonché con l’incarico di supporto alla programmazione regionale.
  2. Assegnare all’ATS unica, o in alternativa alla Regione, la negoziazione e la contrattazione con gli erogatori privati di profilo regionale e extraregionale.
  3. Assegnare all’ATS unica, o in alternativa alla Regione secondo, le attività di controllo sul rispetto degli Accordi Contrattuali con gli erogatori privati accreditati di valenza regionale o extraregionale, ferme restando le attività di controllo sul rispetto degli Accordi Contrattuali con gli erogatori privati accreditati di valenza locale alle ASST.
  4. Assegnare alla Regione, oppure all’ATS unica, la stipula degli Accordi Contrattuali con gli erogatori privati accreditati per attività di ambito regionale o extraregionale, ed assegnare alle ASST, previa valutazione del fabbisogno locale, l’incarico di stipula degli Accordi Contrattuali con gli erogatori privati accreditati di prestazioni ospedaliere, ambulatoriali e sociosanitarie per attività in ambito locale.
  5. Ridefinire le dimensioni delle ASST al fine di renderle maggiormente funzionali all’organizzazione dei servizi sanitari della popolazione di riferimento ed efficienti nell’erogazione delle prestazioni ai cittadini.

Per rispondere a queste osservazioni la giunta regionale ha predisposto la suddetta legge 22/2021, approvata dal Consiglio regionale dopo un duro confronto con le opposizioni che comunque non ha apportato al provvedimento cambiamenti significativi.

È quindi di cruciale importanza verificare in che misura le indicazioni ministeriali sono state accolte, cominciando dalle prescrizioni obbligatorie:

  1. È stato confermato quanto previsto dalla legge precedente, cioè che il Dipartimento di Igiene e Prevenzione sanitaria fa parte dell’ATS, con funzioni di programmazione, governo e svolgimento delle attività di prevenzione e controllo della salute negli ambienti di vita e di lavoro. All’ASST afferisce un Dipartimento funzionale di prevenzione, che tuttavia opera in attuazione degli indirizzi del dipartimento dell’ATS. Questa confusa frammentazione di competenze non rispetta la prescrizione di istituire il Dipartimento di Prevenzione come articolazione delle ASST con funzione sia di governo che di erogazione degli interventi.
  2. Sono stati istituiti i Distretti il cui territorio coincide con uno o più ambiti sociali territoriali di riferimento per i piani di zona. Non è specificato quanti distretti vanno istituiti per ciascuna ASST e quale sia il loro bacino di utenza. Peraltro, il Distretto è uno dei vari erogatori delle prestazioni territoriali, che interagisce con altri erogatori pubblici e privati, ma non li coordina. Questo costituisce un problema in particolare rispetto agli erogatori privati che possono concorrere all’istituzione di qualunque presidio territoriale mantenendo la propria autonomia giuridica e amministrativa. La privatizzazione, già rilevante nell’area ospedaliera e specialistica, può quindi estendersi senza controllo ai servizi territoriali e alle cure primarie.
  3. Sono rimaste invariate le disposizioni già in vigore, in cui si specificava che le ATS attuano la programmazione definita dalla Regione per il territorio di propria competenza ed assicurano, con il concorso di tutti i soggetti erogatori, sulla base dell’analisi della domanda di salute, avvalendosi del Dipartimento per la programmazione, l’accreditamento e l’acquisto delle prestazioni. Il ruolo delle ASST nell’attuazione degli indirizzi di pianificazione e programmazione regionale per il proprio territorio è marginale e si riduce a favorire l’integrazione delle funzioni sanitarie sulla base della valutazione dei bisogni del territorio elaborati dall’ATS e fornire informazioni alle ATS per l’analisi della domanda e la programmazione delle attività. È quindi evidente che programmazione e pianificazione a livello locale sono compiti delle ATS e non delle ASST.
  4. È rimasto invariato quanto indicato nella precedente legge, secondo cui la Regione definisce le regole di autorizzazione, accreditamento e contrattualizzazione, nonché le relative tariffe delle prestazioni, e le ATS accreditano le strutture sanitarie e sociosanitarie e dispongono eventuali variazioni dell’accreditamento. Quindi la Regione definisce regole e procedure, ma l’accreditamento istituzionale dei soggetti che lo richiedono rimane in capo alle ATS.
  5. Alle ATS sono attribuite le funzioni di garanzia, verifica e controllo dell’erogazione dei LEA sul territorio di competenza per tutti i servizi. L’Agenzia di controllo del servizio socio-sanitario lombardo predispone e propone alla giunta regionale, che lo approva, previo parere della commissione consiliare competente, il piano annuale dei controlli e dei protocolli. La funzione di controllo delle strutture territoriali delle ATS deve svolgersi in coerenza con i contenuti del piano annuale, con la verifica dell’Agenzia di controllo. Non risulta che le ASST abbiano funzioni di controllo degli erogatori privati accreditati con valenza locale, considerando che peraltro non spetta ad esse stipulare gli accordi contrattuali.

Vediamo ora le decisioni della Regione sulle principali prescrizioni non obbligatorie ma raccomandate:

  1. È rimasto invariato quanto indicato nella precedente legge che ha istituito 8 ATS. Quindi il numero delle ATS rimane invariato e non viene istituita l’ATS unica.
  2. È rimasto invariato quanto indicato in precedenza, cioè che le ATS stipulano contratti con gli erogatori pubblici e privati del proprio territorio. È rimasta altresì invariata l’indicazione per i privati di sottoscrivere con le ATS competenti per le prestazioni previste dalla programmazione contratti analoghi a quelli per le ASST. L’intero processo di negoziazione e contrattazione rimane quindi in capo alle singole ATS e non alla Regione, mentre le ASST sono considerate dalle ATS sullo stesso piano dei privati.
  3. Le ATS devono garantire la verifica e il controllo della corretta erogazione dei LEA sul proprio territorio per tutta la rete dei servizi. Le attività di controllo rimangono quindi in capo alle singole ATS e non alla Regione. Non risulta che siano attribuite alle ASST funzioni di controllo sul rispetto degli accordi contrattuali con gli erogatori privati a livello locale.
  4. Non risulta che sia attribuito alle ASST l’incarico di stipulare accordi contrattuali con gli erogatori privati a livello locale.
  5. È rimasto invariato quanto indicato nella precedente, che ha istituito 27 ASST. Si prevede che sia possibile istituire distretti in comune tra diverse ASST confinanti il cui territorio coincide con uno o più ambiti sociali territoriali di riferimento per i piani di zona, per cui, almeno in alcuni casi, la definizione del territorio di riferimento delle ASST non è funzionale all’organizzazione dei servizi sanitari della popolazione di riferimento. Non risulta peraltro che sia stata considerata l’indicazione di ridefinire le dimensioni delle ASST.

Inoltre, la Regione prevede che a gestire le Case della Salute e gli ospedali di Comunità possano essere anche dei soggetti privati, aumentando ulteriormente la presenza nel Servizio Sanitario Regionale degli enti accreditati.  

A conclusione di questa analisi è evidente che sono state disattese quasi del tutto non solo le raccomandazioni ma anche le prescrizioni indispensabili, perpetuando quindi le criticità evidenziate nel documento di valutazione dell’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari. In relazione a questa considerazione, il Coordinamento Lombardo per il Diritto alla Salute Dico 32 ha scritto, in una lettera al ministro Speranza, che sussistono pienamente le condizioni per rinviare la legge 22/2021 al Consiglio Regionale della Lombardia, chiedendo di riaprire un ulteriore percorso legislativo per adeguarla in tempi brevi alle indicazioni formulate già più di un anno fa. Il ministro non ha risposto, ma l’11 gennaio alla Camera un’interrogazione di un gruppo di deputati del Partito Democratico ha chiesto quali iniziative urgenti il ministro ritenga doveroso adottare per assicurare il pieno rispetto delle prescrizioni indicate nel documento inviato alla Regione Lombardia. Il ministro ha risposto di avere già aperto un’istruttoria per approfondire i contenuti della legge. Quindi, come dicevamo all’inizio, la questione non è chiusa ed è importante che giungano al ministero le sollecitazioni della società civile per bloccare la strada a una legge che stravolge i principi del Servizio Sanitario Nazionale pubblico, equo e universalistico, e costituirebbe un precedente pericoloso per altre regioni che volessero avviarsi nella stessa direzione.

* Angelo Barbato per Forum diritto alla salute

** Vittorio Agnoletto per Medicina Democratica