Lo “Stato innovatore” di Mariana Mazzucato svela l’utilizzo politico della ricerca negli Usa. E la rivista Jacobin riscopre la lezione di Marx
Con l’avvento della “New Economy” nel corso degli anni ’90 sembrava essere emerso un modello di sviluppo capitalistico in cui la neutralità positiva del progresso tecnologico e la centralità della figura del genio imprenditoriale avrebbero costituito i cardini quasi istituzionali del sistema economico contemporaneo. Un capitalismo di “Creazione costruttiva”, ironizzando sulla definizione originale di Joseph Schumpeter, in cui l’avvento e la diffusione di nuove tecnologie beneficerebbero il consumatore sovrano e premierebbero l’innovatore privato per la sua “fame e pazzia”. Due figure sono tuttavia assenti da questo quadro: lo Stato con il suo ruolo di socializzatore dell’innovazione ed il lavoratore soggetto a radicali trasformazioni del processo produttivo.
Nel primo caso, il lavoro di Mariana Mazzucato (“Lo Stato Innovatore”) è servito a dimostrare, per mezzo di soverchianti evidenze storico-empiriche, quale sia stato il ruolo recente del governo federale USA nel finanziare “rischiosi” progetti scientifici nell’ambito delle ICT e della farmaceutica, supportandone la diffusione e l’applicazione alla produzione. Il successo economico di Apple viene smascherato e messo a confronto con la contradditoria situazione dell’economia statunitense: finanziariamente instabile, declinante nel settore manifatturiero, pervasa da acute diseguaglianze di reddito e di occupazione. Nel problematizzare la questione in questi termini, la Mazzucato rompe la dimensione del determinismo tecnologico e ci invita dunque a guardare alla natura socio-istituzionale e politica della tecnologia e della sua applicazione ai processi produttivi.
È proprio in questo contesto che s’inserisce la discussione proposta dalla rivista Jacobin nell’ultimo numero “Ours to Master”, recuperando la dimensione conflittuale del progresso tecnologico avanzata da Marx sul significato della tecnologia come una relazione sociale insita nel processo lavorativo. Vista in quest’ottica la tecnologia rappresenta sì un’arma per la competizione capitalistica (à la Schumpeter), ma anche e soprattutto un implacabile grimaldello nel conflitto tra capitale e lavoro.
Sono così richiamate alla memoria alcuni contributi del passato fra cui Labour and Monopoly Capital (1974) di Harry Braverman, in cui l’autore riduce il sistema di Scientific Management proprio del taylorismo a tre componenti essenziali: 1) la dissociazione del processo di lavoro dalle competenze del lavoratore; 2) la separazione dell’ideazione del processo di lavoro dalla sua esecuzione; 3) il monopolio della dirigenza sulla conoscenza ed il controllo della produzione. In questo modo Braverman esamina le implicazioni socio-istituzionali legate alle scelte tecnologiche: il taylorismo non rappresenta una semplice tecnica neutrale atta a migliorare l’efficienza, bensì si rivela uno strumento di controllo sul lavoro, connotato in senso classista. Infine, viene riproposta la critica politica di Chris Harman, il quale, nel pamphlet Is a Machine After Your Job? (1979), invita i sindacati britannici a mettere profondamente in discussione il controllo della produzione e l’introduzione di innovazioni tecnologiche da parte della dirigenza.
Complementare a tale conflitto sul posto di lavoro risulta essere la strategia politica per la gestione sistemica del cambiamento tecnologico. I tentativi storici, in questo senso, non sono mancati. Nell’ottobre del 1963, il leader del Labour Party britannico Harold Wilson infiamma la platea della conferenza annuale di Scarborough: “solo se il progresso tecnologico diventa parte della nostra pianificazione nazionale, tale progresso può essere diretto verso fini di utilità nazionale”. Nel suo del celebre “White Heat Speech” il futuro primo ministro prospettava per il suo Paese un socialismo definito in termini di rivoluzione scientifica, la quale avrebbe tuttavia richiesto “cambiamenti radicali nelle attitudini economiche e sociali che permeano l’intero sistema della società”. Un importante ma timido tentativo fu l’istituzione di un Ministero per la Tecnologia (il “MinTech”), mantenuto dal 1964 al 1970 e diretto dal socialista Tony Benn. Un altro esperimento meno noto fu quello del Progetto Cybersyn, direttamente finalizzato a realizzare un ambizioso programma politico nel Cile di Salvador Allende. Ideato nel 1972 per la gestione delle centinaia di imprese passate sotto il controllo statale, Cybersyn si presentava come un sistema tecnologico capace di migliorare la gestione coordinata dell’attività economica da parte del governo. Nel mentre forniva un accesso giornaliero ai dati sulla produzione e strumenti per la rielaborazione degli stessi in ottica di pianificazione futura, esso garantiva un incremento della partecipazione dei lavoratori e una cospicua autonomia da parte delle singole imprese nei confronti del pianificatore centrale. Naturalmente, tale sistema fu immediatamente liquidato con l’avvento di Pinochet, assieme alle sue futuristiche sale di controllo.
Con questa dissertazione sulla tecnologia, la rivista Jacobin ci invita quindi a resistere l’apolitico “determinismo dell’innovazione” che vede nella creazione e diffusione di nuove tecnologie un paradiso di prosperità condiviso da tutti. Il messaggio riportato è esplicito: la necessità di elaborare una strategia orientata a cambiare radicalmente la struttura delle organizzazioni produttive, finalizzandole a principi di utilità collettiva. L’obiettivo è di rendere il progresso tecnologico conforme alle aspirazioni di un diverso tipo di società: così come suggerito da Marx a proposito degli effetti della meccanizzazione dei processi produttivi, la riduzione del lavoro umano necessario alla produzione “tornerà utile al lavoro emancipato ed è la condizione della sua emancipazione”.