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La Cina e l’ambiente 

Nei documenti elaborati per il Cc del Pcc di fine ottobre 2020 si ribadiscono gli impegni di Pechino per la decarbonizzazione e l’aumento delle rinnovabili. Il 25% dei veicoli nuovi nel Paese dovranno essere elettrici o ibridi entro il 2025. E la plastica monouso sarà bandita entro il 2022.

Il quadro di riferimento

In un articolo pubblicato su questo stesso sito in data 3 ottobre 2020, insieme ad altre questioni relative alla situazione cinese, facevamo anche riferimento ai temi ambientali e alle relative politiche portate avanti dal Paese. Ma il soggetto dei cambiamenti climatici, vista anche la centralità delle decisioni della Cina sull’argomento e comunque rilevata la sua grande importanza generale a livello globale, invita certamente ad una riflessione più approfondita. Come per molti altre questioni che riguardano in qualche modo il Paese di Mezzo non è semplice capire quello che sta veramente succedendo. 

Sino ad un’epoca non troppo lontana, quando i Paesi occidentali chiedevano alla Cina come anche all’India e ad altri paesi emergenti di frenare le loro emissioni inquinanti, la risposta degli interessati era quella che anche loro avevano diritto allo sviluppo economico come già il mondo ricco e che i livelli di inquinamento sino ad allora accumulati a livello globale erano colpa per la quasi totalità dei paesi che facevano parte di tale ultima categoria.

Ma nell’ultimo decennio le strategie cinesi hanno subito un grande e progressivo mutamento. Uno dei punti di svolta fondamentali a tale riguardo può essere considerato il 18° congresso del PCC; esso si svolge nel novembre del 2012 e, tra l’altro, elegge Xi Jinping alla sua guida. Il documento finale del congresso afferma ormai che “costruire una civiltà ecologica è il nostro obiettivo e il vero futuro del Paese”. 

La priorità della questione è stata anche da ultimo ribadita in un discorso recente di Xi Jinping (si veda meglio più avanti) e nei documenti che sono stati elaborati nell’ambito della riunione del 19° comitato centrale del partito comunista, riunione tenutasi negli ultimi giorni dell’ottobre 2020 (Shan Jie, Xu Yelu, 2020).   

I due volti della questione- il primo paese inquinatore

Per trattare la questione, si può partire dal fatto che ancora oggi le emissioni inquinanti del éaese sono le più importanti del mondo in valori assoluti; secondo alcune stime, quelle di CO2 sono pari oggi annualmente in Cina al 27% del totale mondiale, contro circa il 16% degli Stati Uniti e l’11% dell’Unione Europea. I primi due paesi, quindi, da soli, totalizzano una quota del 43%. 

Se guardiamo peraltro al loro peso pro-capite, il primato passa ad alcuni Paesi ricchi ed in particolare agli Stati Uniti, che presenta un’incidenza pari all’incirca al doppio di quella cinese; gli Usa sono, per altro verso, anche il Paese che ha contribuito di più nel tempo all’accumulazione delle emissioni inquinanti nel mondo. 

Aggiungiamo comunque al cahier de doleance verso il paese asiatico che ancora oggi esso consuma ogni anno all’incirca la metà di tutto il carbone utilizzato nel mondo. In ogni caso, nel 2019 circa l’85% dell’energia primaria del Paese è venuta da carbone, petrolio e gas naturale (circa il 60% dal solo carbone; ma nel 2005 la percentuale relativa era del 72%). 

In ogni caso, i dati sopra riportati sottolineano con grande evidenza che non ci può essere soluzione al problema del riscaldamento globale senza la Cina e senza anche trovare in specifico una soluzione alla questione del carbone.

Il Paese più impegnato nella riconversione energetica 

D’altro canto, se consideriamo il livello degli investimenti complessivi dedicati alle questioni ecologiche, da diversi anni la Cina è di gran lunga il Paese che ne attiva di più, tanto che in certi anni i suoi stanziamenti relativi sono all’incirca pari al 50% di quelli complessivi mondiali. 

In particolare questa percentuale è stata raggiunta nell’anno che ha registrato il maggior livello di investimenti nel settore, il 2017; in tale caso il totale degli investimenti a livello mondiale è stato, secondo alcune stime, di 331,4 miliardi di dollari e la Cina vi ha contribuito appunto per quasi il 50% del totale. Anche se negli anni successivi tale percentuale si è ridotta, in relazione anche alla diminuzione dei sussidi pubblici al settore, essa rimane comunque di gran lunga la più elevata tra tutti i Paesi. 

Consideriamo inoltre che e’ grazie a tale paese che l’introduzione dell’auto elettrica sulle strade ha subito negli ultimi anni un’accelerazione. In effetti è di qualche anno fa una legge locale che impone ai produttori che vogliono vendere veicoli su quel mercato di collocarvi nel tempo una percentuale crescente ogni anno di vetture elettriche ed ibride. Ora, essendo quello cinese di gran lunga il mercato più vasto del mondo nel settore, tutte le case più importanti si sono affannate ad accelerare i loro programmi su tale tecnologia. In ogni caso, almeno il 25% dei veicoli nuovi venduti nel Paese dovranno essere elettrici o ibridi entro il 2025 e lo dovranno essere tutti entro il 2035. 

Se consideriamo poi il comparto degli autobus elettrici, in Cina nel 2018 ne circolavano circa 421.000 su di un totale mondiale di 425.000.

Per quanto riguarda le energie alternative, da quelle eoliche a quelle solari, è di nuovo da attribuire in larga parte ai grandi investimenti cinesi nel settore e alle economie di scala che ne sono seguite il fatto che sia stata ormai raggiunta nel mondo una competitività di costi con quelle fossili.

Così, negli ultimi dieci anni quelli dell’elettricità solare si sono ridotti del 90%, quelli dell’energia eolica del 60% e quello delle batterie agli ioni-litio dell’87%. Anche quello di produzione dell’idrogeno verde attraverso l’elettrolisi è diminuito in misura significativa. La necessità di sussidi pubblici si sta quindi riducendo rapidamente (Turner, 2020). 

Come abbiamo già rilevato nell’articolo precedente già citato al primo paragrafo, oggi la Cina produce il 72% dei moduli per l’energia solare, il 69% delle batterie allo ionio-litio, il 45% delle turbine eoliche, la gran parte delle vetture elettriche, mentre assicura la raffinazione di gran parte dei minerali critici per l’energia pulita (The Economist, 2020). In particolare, per quanto riguarda l’eolico off-shore, nel 2019 il paese ha contribuito alla costruzione di nuova capacità nel settore per circa il 40% del totale mondiale, con un incremento di istallazioni nell’anno di circa il 50% rispetto a quello precedente (Gao Baiyu, 2020).

Un’altra pista seguita per migliorare la situazione riguarda il risparmio nei consumi: così tra il 2015 e il 2019 quelli di energia per unità di pil prodotta sono diminuiti in Cina del 13,2% (statistiche ufficiali). 

Il Paese ha intanto avviato un piano per vietare la plastica monouso. Il divieto sta investendo le grandi città entro il 2020, mentre seguiranno tutte le altre entro il 2022.

Ricordiamo ancora che da molti anni la Cina sta portando avanti un grande programma di rigenerazione delle foreste, anche se (citiamo tra l’altro gli sforzi rilevanti di India e Francia) non è la sola in questo impegno; si è passati così nel Paese dal 12% della superficie totale coperta da boschi nel 1978 al 22,9% di oggi.  Questo, nell’ambito di un progetto che prevede di piantare nuovi alberi per 35 milioni di ettari entro il 2050, il programma di più grandi dimensioni al mondo nel settore dell’ecologia. E’ anche in atto un piano che prevede la costruzione di cinture economiche verdi che dovrebbero andare dalla Cina sino alla Turchia attraverso l’Asia Centrale, nell’ambito della Belt and Road Initiative (Dodwell, 2020).

L’inquinamento delle città

Il grande e rapido processo di industrializzazione si è svolto in Cina per alcuni decenni senza grandi considerazioni per le questioni ambientali; così l’aria delle città, l’acqua dei fiumi, il suolo e il sottosuolo hanno registrato un rilevante degrado nel corso del tempo. Ora grandi sforzi sono in atto da diversi anni su tutti i fronti, in particolare per abbattere i livelli di inquinamento nelle città di fronte ad una situazione che appariva catastrofica ancora sino a non molti anni fa. 

Già in una classifica delle 20 città più inquinate del mondo pubblicata dalla World Health Organisation nel 2018 e che faceva riferimento a delle misurazioni prese tra il 2008 e il 2017, una sola città cinese è inserita nella lista, mentre ce ne sono ben tredici indiane (vero è che tra il 21° e il 50° posto della classifica il numero delle città cinesi appare preponderante). 

Dopo che sino a non molti anni fa tutti registravano con sgomento come le principali città del Paese soffocassero sotto lo smog, più recentemente i cieli cinesi appaiono di nuovo sgombri; nel 2019, 337 importanti città del paese hanno registrato cieli blu per almeno l’82% dell’anno. In particolare a Pechino tra il 2013 ed il 2019 le emissioni nocive sono drasticamente calate ed essa è uscita dalla lista delle 200 città più inquinate del mondo. 

Peraltro, c’è ancora parecchio da fare ed ancora oggi il 98% delle città cinesi eccede come emissioni le linee guida emesse dalla World Health Organisation.

L’impronta del carbone

A parte questi risultati e questi programmi, ci troviamo peraltro di fronte al fatto che ancora oggi sono in costruzione o in programma nel Paese più di 200 nuove centrali a carbone (Mallapaty, 2020). Inoltre, nell’ambito della Belt and Road Initiative, il Paese sta contribuendo alla costruzione di molte altre strutture dello stesso tipo in giro per il mondo. 

Ci si può chiedere quale sia la logica di tali progetti. Sono state avanzate a tale riguardo diverse ipotesi, non necessariamente in contrasto tra di loro. Intanto il Paese ha bisogno di quantità crescenti di energia per alimentare il proprio rilevante sviluppo. In tale ambito, le varie provincie del Paese procedono quasi per inerzia sulla strada più facile e che conoscono meglio, quella del carbone. D’altro canto, di fronte alle minacce di Trump e all’imprevedibilità delle azioni statunitensi, la Cina potrebbe aver deciso di mantenere il programma di costruzioni nel settore per dotarsi in qualche maniera di una almeno parziale autonomia energetica in caso di blocco degli approvvigionamenti esterni di petrolio e gas. In realtà, a conferma di questa tesi, c’è la constatazione che un numero rilevante di impianti girano oggi a non più delle metà della loro capacità. 

L’annuncio recente di Xi Jinping

Nel settembre di quest’anno, in un discorso fatto nel corso di una riunione virtuale dell’assemblea delle Nazioni Unite, il presidente cinese ha, come è noto, reiterato la volontà del Paese di raggiungere entro il 2030 il picco delle emissioni inquinanti di CO2 (obiettivo già enunciato in precedenti occasioni) ed entro il 2060 la neutralità carbone. Questo dovrebbe tra l’altro ridurre le proiezioni del riscaldamento globale a tale orizzonte di circa 0.2-0.3 gradi. 

In realtà, il primo obiettivo enunciato sarà presumibilmente raggiunto già entro il 2024-2025 ed anche la neutralità carbone potrebbe arrivare ben prima di quanto promesso, forse intorno al 2050. Ma si sa che in genere i dirigenti cinesi si pongono degli obiettivi prudenti. Si tratta, per altri versi, di una sfida molto impegnativa e che per essere vinta comporta anche l’utilizzo di tecnologie ancora non esistenti.

La mossa probabilmente obbligherà diversi altri paesi a darsi da fare di più (in effetti, già il Giappone e la Corea del Sud hanno annunciato a loro volta, qualche settimana dopo la Cina, che intendono arrivare alla neutralità carbone entro il 2050) e spingerà anche gli esportatori di petrolio e gas a prendere in conto il fatto che il loro più importante mercato di sbocco avrà meno bisogno dei loro carburanti in futuro.

Si attende ora la stesura del 14° piano quinquennale, che coprirà il periodo 2021- 2025, per conoscere maggiori dettagli su come la Cina intende perseguire operativamente tale obiettivo (The Editorial Board, 2020). 

Una questione a cui bisognerà stare attenti a questo proposito è a quale livello sarà fissato l’utilizzo del carbone nelle produzione di energia. E’ stato comunque calcolato che nel 2060 (o anche prima) per raggiungere i livelli di risparmio fissati da Xi Jinping il petrolio e il carbone dovrebbero coprire soltanto il 10% dei consumi di energia della Cina mentre il 14% dovrebbe essere generato dal gas naturale. Secondo un modello sviluppato in queste settimane si valuta che sarà necessario, per quanto riguarda l’elettricità, un incremento di 16 volte per l’energia solare e di 9 per quella eolica, mentre per sostituire la generazione di energia delle centrali a carbone la produzione di quelle nucleari dovrebbe aumentare di sei volte e quella idroelettrica di due (Mallapaty, 2020).

Per altro verso, il Boston Consulting Group (BCG, 2020) ha calcolato che, per raggiungere la neutralità carbone, la Cina dovrà andare abbastanza oltre gli obiettivi dell’accordo di Parigi e che, d’altra parte, essa dovrà spendere circa 15 trilioni di dollari nei prossimi trenta anni (cifra che corrisponde al 2% del Pil del Paese nel periodo) per raggiungere i traguardi fissati.

In ogni caso, il 20 ottobre 2020 la Cina ha reso pubbliche le linee guida per favorire le attività finanziarie e di investimento legate al cambiamento climatico (Shen, 2020). Inoltre, si imporrà, più in generale, una ristrutturazione molto forte della sua economia.       

Conclusioni

Bloccare al più presto il degrado ambientale è, come ampiamente noto, il compito di gran lunga più importante cui si trova di fronte oggi l’umanità, senza peraltro dimenticare la parallela necessità di costruire una società più giusta.

Mentre, almeno in teoria, il giorno successivo alle elezioni presidenziali gli Stati Uniti si ritireranno, secondo quanto a suo tempo annunciato, dagli accordi di Parigi (2015) e mentre l’Europa appare in ritardo sul piano delle azioni concrete per contrastare il potenziale disastro climatico, la mossa del governo cinese sembra ridare qualche speranza che alla fine si riesca a far quadrare in qualche modo le cose. Quella di Xi Jinping è una dichiarazione che cambia nella sostanza il gioco e potrebbe tra l’altro spingere altri Paesi ad intensificare i loro sforzi (Mallapaty, 2020). 

Il compito della Cina appare certamente impegnativo sul piano finanziario, tecnologico, organizzativo. In genere, d’altro canto, quando il gruppo dirigente cinese prende solennemente degli impegni, poi normalmente li rispetta. L’orizzonte lontano in cui in un certo senso necessariamente si colloca la mossa cinese non impedirà purtroppo, nel frattempo, un ulteriore degrado della situazione ambientale rispetto a quella già abbastanza precaria odierna a livello mondiale, ma, se non altro, dovrebbe almeno bloccare il peggio.

Tra l’altro, nel lungo termine il passaggio dalle energie fossili a quelle rinnovabili si dimostrerà anche un vantaggio economico per la Cina, oggi il maggiore importatore di petrolio e gas del mondo. D’altro canto, speriamo che gli Stati Uniti nel frattempo cambino in meglio le loro politiche e che l’Europa riesca ad avviare misure di intervento più incisive di quelle attuali.

Testi citati nell’articolo

-Boston Consulting Group, Climate Plan for China, Boston, Mass., ottobre 2020

-Dodwell D., China’s emissions pledge joins bold efforts to halt climate change, www.scmp.com, 26 settembre 2020

-Gao Baiyu, Offshore wind takes off in China, www.chinadialogue.net, 9 ottobre 2020

-Mallapaty S., How China could be carbon neutral by mid-century, www.nature.com, 19 ottobre 2020

-Shan Jie, Xu Yelu, China plans further clampdown on carbon in new 5-year plan, www.globaltimes.com, 27 ottobre 2020

-Shen T., China sketches out rules for green finance, www.caixinglobal.com, 27 ottobre 2020

The Economist, Power in the 21th century, 19 settembre 2020 

-The Editorial Board, China’s emission target is a leap forward, www.ft.com, 24 settembre 2020

-Turner A., China’s net zero target is a giant step in fight against climate change, www.ft.com, 1 ottobre 2020