La trattativa con i “frugali” sul pacchetto Next Generation Eu – 2 mila pagine e 21 proposte – entrerà nel vivo a luglio. In ogni caso l’Europa sta andando avanti sul Green New Deal. Mentre l’Italia, dal masterplan Colao ai piani di decarbonizzazione e bioagroalimentare, è ancora alle enunciazioni.
Come si diceva agli inizi del X secolo, quando si andavano ad affermare i valori della cavalleria: questo è il tempo in cui varrà il coraggio dei nostri campioni. Più prosaicamente, i campioni dei nostri tempi hanno il compito di farci uscire dalla pesante crisi economica ed occupazionale provocata dalla pandemia da Covid-19, in Europa e in Italia. Sono la Commissione europea – con le altre istituzioni che compongono il cosiddetto trilogo (Consiglio e Parlamento europei ) – e il governo italiano. Sono loro che devono trovare la quadra su come riparare, risanare e, nel contempo, rilanciare i nostri sistemi economici e sociali, introducendo elementi di innovazione che migliorino gli standard di efficacia e di efficienza del sistema in tutti settori (primario, secondario e terziario) grazie a scelte radicali che favoriscano la digitalizzazione e la sostenibilità ambientale.
E allora partiamo dal fondo, per evitare che queste parole rimangano triti enunciati. Quel che il cittadino italiano medio sa del “Recovery package”, messo in campo dalla Commissione europea il 27 maggio scorso, è che questo strumento metterà a disposizione 750 miliardi di euro di fondi europei, dei quali 173 miliardi di euro destinati all’Italia, per portarci fuori dalla crisi. Quel che il cittadino italiano medio ha capito è che il 18 giugno scorso in occasione del Consiglio europeo, dei capi di Stato e di governo, è stata accettata l’idea, lanciata in particolare dall’Italia e fatta propria da Francia e Germania, di un intervento comunitario senza precedenti, ma che, purtroppo, i giochi non sono ancora fatti.
Si parla di una trattativa che durerà sicuramente tutto il mese di luglio, dagli esiti incerti, perché allo strumento si oppongono i cosiddetti Paesi frugali (Olanda, Austria, Danimarca, Svezia e ad ultimo la Finlandia), mentre i Paesi del cosiddetto Gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) focalizzano le loro critiche sulla quantificazione delle quote che toccheranno ad ogni singolo Stato membro e non nascondono la loro resistenza a qualsiasi contenuto green del pacchetto di intervento.
La trattativa sarà difficile, ma l’asse trainante franco-tedesco, supportato dai Paesi più colpiti dalla pandemia come Italia e Spagna (a parte il Regno Unito), ha rotto un tabù e ha consentito ai Paesi più virtuosi di andare avanti tenendo insieme l’obiettivo del risanamento e del rilancio con la velocizzazione della transizione verde e digitale (come si legge nel documento congiunto franco-tedesco del 18 maggio scorso). Il problema, in soldoni, è se varrà mantenuto l’ammontare dei 750 miliardi di euro – per il nuovo strumento dal nome suggestivo “Next Generation EU” – dichiarato dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (si parla di tentativi di ridurne l’ammontare a 540 miliardi di euro) e quale sarà la quota di finanziamenti assegnati a fondo perduto e quale quella erogata come prestito.
E’ chiaro che l’ammontare delle risorse che l’Europa alla fine metterà a disposizione è fondamentale per capire la reale volontà di investire per il futuro della Ue. Ma bisogna tenere conto che, al di là dello strumento specifico, il “Recovery package” è qualcosa di più complesso. Si tratta di un pacchetto di 2 mila pagine in cui sono comprese anche 21 proposte legislative, oltre che: una comunicazione della Commissione dal titolo “Europe’s moment – Repair and Prepair for the Next Generation”; una seconda comunicazione relativa al Budget europeo 2021-2027; un documento di lavoro tecnico.
Tutti strumenti che devono essere tenuti in considerazione per capire davvero quale sia la portata della svolta voluta dalla Commissione. Ma, tornando ai 750 miliardi di euro del nuovo strumento “Next Generation EU”, se verranno confermati, la Commissione dichiara che 560 miliardi di euro (l’80% dell’intero ammontare) dovranno essere destinati al “sustainable recovery” per assicurare, appunto, la transizione verde e digitale. Bisogna vedere se l’Europa sarà davvero virtuosa ed ambiziosa. Però anche l’altro campione, l’Italia, deve dimostrare il suo valore.
Per fare la sua parte fino in fondo, prima di tutto, il nostro governo deve definire al più presto i contenuti del suo “Recovery plan”, perché Ursula von der Leyen, ma soprattutto il Commissario europeo alla Economia, l’italiano Paolo Gentiloni, hanno chiarito che nessun fondo sarà assegnato ad alcun Paese se non a fronte della presentazione di piani che contengano finalizzazioni chiare sull’impiego dei fondi europei. Da qui la dichiarazione del 3 giugno scorso del nostro presidente del Consiglio Giuseppe Conte, seguito a ruota dal ministro dell’Economia e della Finanze Roberto Gualtieri, sull’impegno a presentare il piano italiano a settembre contestualmente alla Nota di Aggiornamento al DEF 2020 (NADEF) quale quadro di riferimento del disegno di legge di bilancio 2021. Da qui anche gli Stati generali dell’Economia, che sono stati, comunque li si voglia leggere, un articolato momento di concertazione con le parti sociali, le organizzazioni non governative e singoli/e brillanti rappresentanti della società civile.
Non credo che sia sindacabile la richiesta della Commissione agli Stati membri di chiarezza e trasparenza nella destinazione e impiego dei fondi europei. Quello che, invece, ci dobbiamo domandare è: il governo italiano ha le idee chiare su come la sostenibilità ambientale e sociale e il contrasto ai cambiamenti climatici debbano improntare la Quarta rivoluzione industriale nel nostro Paese, come dichiarato nella Nota di Aggiornamento al DEF 2019, o servire ad aumentare la resilienza dei sistemi produttivi agli shock ambientali e di salute, come scritto nel DEF 2020?
Nei due documenti di programmazione citati non c’è molto altro se non affermazioni generiche e sia il documento elaborato dalla cosiddetta Task force Colao, come nel cosiddetto Masterplan – o meglio nel documento per titoli presentato il 15 giugno dal premier Conte agli Stati generali – ci sono progressivi e positivi approfondimenti su alcune tematiche e sulle azioni necessarie a perseguire gli obiettivi di sostenibilità ambientale, ma ancora non si avverte da parte del governo un disegno complessivo.
Come in una partita di poker, bisogna vedere la coerenza del gioco annunciato dall’Europa, ma certamente bisogna rilevare che le riflessioni, gli strumenti e le azioni annunciate e sinora realizzate sono rilevanti. Oltre al “Recovery package” e alla quota citata del “sustainable recovery” ricordiamoci che la Commissione europea si è fatta promotrice dell’European Green Deal (EGD), i cui obiettivi sono stati sistematizzati e dichiarati nell’omonima comunicazione della Commissione europea dell’11 dicembre 2019. EGD che, come chiarito a gennaio di quest’anno, vede una mobilitazione di 1.000 miliardi di euro in 10 anni per perseguire l’obiettivo della giusta transizione verso un’Europa più sostenibile e decarbonizzata.
Lo sforzo indubbiamente c’è, e bisogna riconoscerlo, soprattutto se le parametriamo ai percorsi ancora poco chiari del nostro Paese, anche se, anche su scala europea, il diavolo si può annidare nei dettagli. Infatti bisogna capire quanto si vada realmente a riorientare complessivamente o solo marginalmente il budget europeo verso scelte green (dato che 503 milioni di euro derivano dal Budget della UE) e quanto non sia aleatorio che su un totale dei 1.000 miliardi di euro ci sia una quota attorno al 30% (279 miliardi di euro) di investimenti pubblico-privati tutti da verificare.
E se non vogliamo scambiare fischi per fiaschi, la vera partita si gioca sulla ristrutturazione e, appunto, il riorientamento complessivo verso la sostenibilità ambientale e l’economia circolare del Budget europeo 2021-2027, che ad oggi presenta indicazioni e strumenti virtuosi ma limitati quali la quota del 25% del Budget (1.100 miliardi di euro) da destinare ad “azioni climatiche” e l’obiettivo dichiarato da InvestEU – il nuovo fondo di investimenti strategici europei – di dedicare il 40% dei finanziamenti a progetti climate-related.
Questa è sicuramente la vera partita di cui si dovrebbe discutere, ma tornando all’European Green Deal bisogna dire che, anche durante l’emergenza da Covid-19, la Commissione è stata conseguente, seppur con leggeri ritardi rispetto al programma di interventi dell’EGD, perché lo scorso marzo ha presentato la “Strategia industriale europea” e la Climate Law e a maggio la “Strategie europee per la Biodiversità e per la Filiera agrolimentare” (Farm to Fork). Si potranno criticare l’ambizione o le lacune di questi strumenti, ma di fronte alla fase ancora embrionale del pensiero e dell’azione del nostro governo e nel nostro Paese, si tratta di un disegno europeo di ben altra qualità, coerente e impostato, nella generalità dei casi, nella giusta direzione.
Anche se è necessario entrare nel merito delle luci e delle ombre e chiedere di più. E allora diciamo che la “Strategia industriale europea” dichiara positivamente la priorità di intervento di riconversione produttiva dei settori con maggiori emissioni climalteranti (acciaio, cemento e chimica) rendendo disponibile a questo scopo una Just Transition Platform per le regioni e le aziende carbon-intensive, ma, negativamente, non definisce obiettivi vincolanti intermedi e a lungo termine per la decarbonizzazione e sull’uso dell’idrogeno.
La Climate Law comunitaria vincola tutti i Paesi europei a conseguire entro il 2050 l’obiettivo della neutralità climatica (cioè della completa decarbonizzazione), chiedendo anche agli Stati membri di documentare i loro progressi ogni 5 anni a partire dal 2023, ma manca di indicare quali siano le misure urgenti che l’incalzare dell’emergenza climatica richiede.
Una buona sorpresa viene dalla lettura integrata delle “Strategie europee per la Biodiversità e per la Filiera agroalimentare” nelle quali, tra l’altro, come ricorda il WWF, vengono dichiarati gli impegni, con orizzonte al 2030: proteggere almeno il 30% della aree terrestri e marine della UE; prevedere un regime di protezione integrale per almeno 1/3 delle aree protette dell’UE (10% del territorio dell’Unione); avere almeno il 25% dei terreni agricoli gestiti con agricoltura biologica; ridurre il rischio e l’uso di pesticidi chimici del 50%.
Anche in questo caso si può dire che ci possono essere delle perplessità. Infatti, nel momento in cui si pone un target ambizioso di aree da tutelare, bisognerebbe capire se quelle che sono sulla carta tutelate dall’Europa e dagli Stati membri (siti Natura 2000, nel primo caso, e Parchi nazionali terrestri e Aree marine, nel caso dell’Italia) abbiano organismi e piani di gestione operanti. Come anche nel caso della Strategia Farm to Fork, le scelte che verranno compiute avranno ancora più rilevanza se inserite in un quadro di intervento più complessivo finalizzato, anche qui, a ristrutturare e riorientare la politica agricola comune (PAC) verso la sostenibilità ambientale (tenendo conto che la PAC rappresenta ben il 38% del bilancio della UE).
Sia chiaro l’Italia fa parte dell’Unione europea e, quindi, ha contribuito alla definizione di questi obiettivi e strumenti comunitari, ma resta da capire se il nostro Paese vuole essere davvero tra quelli più virtuosi in campo ambientale su scala continentale e se sia disponibile a chiedere una profonda e radicale revisione sul modo in cui la UE definisce gli obiettivi, le linee di intervento e quindi le priorità sull’allocazione delle risorse del Budget 2021-2027 o anche della PAC.
E non nascondiamoci che sul piano interno, rispetto all’Europa, non siamo ridotti bene. E’ particolarmente grave che siano ancora miraggi in Italia, non tanto avere, ma anche solo cominciare a discutere di una politica industriale e di una “Climate Law” nazionali. O che la tutela e la valorizzazione in Italia e all’estero delle risorse naturali italiane – in un Paese che vanta una delle più ricche biodiversità d’Europa – non abbiano la stessa attenzione che viene, per altro giustamente, dedicata al patrimonio archeologico, artistico e culturale. Per non parlare di una necessaria rivoluzione verde dai campi al piatto in un Paese che fa dell’eccellenza dei prodotti agricoli il suo marchio di qualità sui mercati internazionali.
L’Italia durante la pandemia da Covid-19 ha acquisito prestigio su scala internazionale e ha dimostrato leadership nell’affrontare la crisi sanitaria e nello scongiurare la crisi dei valori democratici che ne poteva seguire. Ora è il momento di essere all’avanguardia nel capire che il miglioramento dell’innovazione, dell’efficienza e dell’efficacia del nostro sistema economico-produttivo passa attraverso scelte che mettano subito al centro la sostenibilità ambientale e sociale in tutti i settori di intervento e deve essere elemento costitutivo del nostro vantaggio competitivo sulla scena internazionale.