I lettori del libro di Cartosio “Dollari e no” – uscito agli albori del Covid-19 – hanno potuto interpretare anche i recenti casi di insurrezione civile in tante città americane al grido “Non posso respirare” di George Floyd. Perché Donald Trump non è nato da solo e non è un incidente.
“Noi popolo degli Stati Uniti”. Comincia così il preambolo della Costituzione americana del 1787. In molti, cittadini di altri Paesi, devastati dalle tirannie, abbiamo cercato di farle nostre, di fuggire via dai nostri despoti crudeli, di diventare a nostra volta “Noi popolo”. Anche da lontano, di là dell’Oceano, abbiamo ammirato quelle parole nel corso dei due secoli abbondanti che ne sono seguiti e abbiamo cercato di prenderle in consegna, di imitarle, di applicarle a nostra volta, con la modestia necessaria, per quanto possibile, ai nostri casi. Abbiamo perfino tacciato di malevola invidia i critici che generazione dopo generazione si sono permessi di formulare dubbi e ripensamenti. Eravamo in Europa, sudditi di monarchie consunte, di dittature prepotenti.
“Noi popolo” parole ferme, per nulla enfatiche, rivolte al domani: un impegno, una promessa al futuro dei figli. Ma, per dirla tutta, “Noi popolo” chi siamo? Se lo è chiesta per prima, in una lettera al marito, Abigail Adams, prima signora della Casa Bianca, moglie del secondo presidente americano e madre del sesto (sì, proprio quel John Quincy Adams che vince per i nuovi amici africani il famoso processo, contro i negrieri – e gli schiavisti della Corte Suprema – raccontato da Spielberg nel film “Amistad”). Chi siamo noi donne? Perché siamo escluse? Qual è il nostro ruolo? Dopo di lei, altrove, hanno poi parlato gli schiavi. Non facciamo parte del popolo, noi? Non siamo figli del Signore? “Ma di che vi lamentate”, gli avranno riposto. “La Costituzione prevede che ciascuno di voi (voi maschi, beninteso) conti per tre quinti di uno di noi popolo al momento di stabilire quanto numerosa sia la popolazione in ciascun Stato per attribuire in corrispondenza il numero dei rappresentanti al Parlamento”. E alla successiva domanda “Perché allora noi non votiamo…?” sarà seguito un “Cosa pretendete, schiavi africani che siete, addirittura di votare, come uno di noi!”.
Più in là c’erano gli indiani nativi, cacciati dalle terre, privati delle mandrie, intere popolazioni, interi Stati deportati al nord fino a lassù nel West della leggenda. “E noi chi siamo”? Infine parlavano gli ultimi, la povera gente, quelli senza proprietà, senza redditi, senza mestiere: “Non siamo popolo, anche noi”?
Sono alcune delle domande che si pone, da storico attento, partecipe, Bruno Cartosio, posto di fronte alla quasi misteriosa vittoria elettorale di Donald Trump. Come è stata possibile la sua vittoria nelle elezioni presidenziali del novembre 2016? Non aveva tutti contro, dalle donne ai poveri, dagli immigrati ai neri? I lettori del libro di Cartosio “Dollari e no” – uscito agli albori del Covid-19 – hanno utilizzato quanto hanno appreso in quelle pagine per interpretare anche i recenti casi di insurrezione civile che hanno seguito in tante città americane il “Non posso respirare” di George Floyd. Cosa è avvenuto, nel Paese delle libertà, delle occasioni per tutti? Che distrazione generale ha consentito a Donald di prendere il potere, tutti i poteri, e di rovesciare la democrazia migliore nel migliore dei mondi possibili? E basterà Joe Biden a rimettere tutto in ordine?
Quando poi sarà tutto di nuovo in ordine, la domanda resta valida: chi siamo “Noi popolo degli Stati Uniti”? chi fa parte del popolo eletto? La prima risposta è abbastanza semplice: noi siamo bianchi, maschi, possidenti e in buona misura, cristiani-protestanti; gli altri, donne comprese, sono, appunto, gli altri. Li possiamo trattare bene, accogliere benevolmente, solo se ci conviene, e poi se abbiamo spazio per loro, se abbiamo lavoro da fargli fare allora possiamo, noi bianchi, ecc. ecc. rinunciare temporaneamente, non volontariamente, a qualche scaglia del nostro potere, per facilitare le nostre vite e in secondo luogo, quelle degli altri, ma sempre mantenendo stabili le differenze, gli steccati, le barriere, talvolta anche invisibili, ma ben chiare a tutti. Nel racconto di Cartosio, che attraversa molte decine di anni – un paio di secoli per parlare semplice – si ricostruiscono molte lotte per l’uguaglianza e la democrazia, continuamente ostacolate, se non sabotate, dall’insieme dei poteri bianchi, maschi, possidenti che si sanno riconoscere e si appoggiano con abilità e sicura decisione.
E’ in una sorta di cronaca della lotta politica negli Usa di un paio di secoli – illuminata da una serie di dichiarazioni, spesso vere e proprie sentenze che fanno il precedente, per dirla con i tribunali, o danno la linea per dirla nel nostro linguaggio più rozzo – che leggiamo, pagina dopo pagina, risalendo lungo le liane dei fatti per trovare le origini di Donald, che non è nato da solo, anche se spesso mostra di esserne sicuro. E possiamo immaginare un confronto/conflitto continuo, di alto livello, ideologico e morale, tra un partito della tradizione e un partito della democrazia. Quel potere che i due partiti si disputano è quello dei dollari. I due partiti hanno origine da due concezioni della società e dello Stato, antiche e rispettate. Da un lato l’individuo che lotta per affermarsi e poi difendere le cose conquistate, contro tutto e contro tutti; dall’altro la comunità che vuole dividere quello che c’è tra tutti, in modo equo, la ricchezza e la povertà, l’acqua e il cibo, la terra, e la città, la scuola e il tempo libero. Arbitro del conflitto, il dollaro. Pagherà le tasse il nostro barone ladro che costruisce navi d’acciaio, che ha scovato il petrolio, che ci ha insegnato a viaggiare col treno, che ha costruito grattacieli e banche, che con la sua ricchezza ha fondato musei e pinacoteche che tutti possono visitare? Ma come è possibile che il barone ladro scelga lui che città fare, quali trasporti, perché costruire navi d’acciaio e non scuole per i giovani, che decida lui se sostenere e come e quanto la sua città, il suo Stato, le spese federali?
Sarebbe facile pensare che le due legittime posizioni corrispondano ai due partiti americani – repubblicano e democratico – ma non è così. Cartosio mostra come i presidenti democratici – Carter, Clinton, lo stesso Obama – abbiano consentito ai baroni ladri, nelle accezioni attuali, di pagare sempre meno tasse, di arricchirsi sempre di più. Grandi campagne politiche, come l’anticomunismo della guerra fredda, il maccartismo, sono servite allo scopo. La ricchezza dei grandi ricchi è sempre più favorita dalla caduta dell’imposta, dal settanta al dieci per cento, come ordine di grandezza. Cartosio cita il maggiore ispiratore di questo programma, Milton Friedman, il famoso professore della scuola di Chicago che sostiene come la ricchezza sia un elemento fondante della libertà e anzi, che “la responsabiltà sociale del business è aumentare i suoi profitti”. Cartosio presenta anche il terzo in classifica tra i ricchissimi, cioè Warren Buffett, e anzi mette in apertura del libro la frase (del 2006) di quello: “Certo che c’è la guerra di classe, ma è la mia classe, la classe dei ricchi, che la sta facendo e la stiamo vincendo”, e poi subito sotto aggiunge la convinzione buffettiana di qualche anno dopo (2011): “E’ una guerra e l’abbiamo vinta”. La replica – “le guerre, le guerre vere voi le scatenate per difendere, per moltiplicare i vostri maledetti dollari”- ottiene solo una contro replica: “E’ vero, ma facciamo guerra per difendere la libertà contro i comunismi”. Se non fosse per noi che “facciamo sgocciolare” i nostri dollari su di voi, voi non avreste niente, proprio come quei disperati dell’America latina che vengono qui a mendicare buoni dollari e buon lavoro e naturalmente libertà.
Gli intellettuali dissidenti, con le loro scelte internazionaliste o talvolta isolazioniste, non sono stati capaci – in mezzo secolo abbondante, dai tempi di Roosevelt al nuovo millennio – di formulare un principio solidale altrettanto valido e credibile della crescita del profitto, sempre e comunque, proclamata da Friedman, sua moglie, i suoi seguaci. Siamo stati incapaci di bloccare o almeno riorientare le leggi distributive, “lo sgocciolamento” dei dollari, quelle leggi care ai baroni ladri – divenuti ormai alti banchieri, o capi di corporation multinazionali, o grandi luminari della scienza o dell’economia – a favore di tutti gli altri: donne, giovani irosi, artisti, immigrati, addetti ai pubblici servizi – talvolta giudici, talvolta scopini – disoccupati, emarginati. C’è una descrizione della città viva risultato dell’epoca precedente, che ora è distrutta dalla smania dei ricchi di avere tutto, porre tutto sul catalogo dei prezzi, per comprare e vendere tutto, per trasformare le case e gli spazi abbandonati e le sponde del mare e dei fiumi, in dollari.
C’era anche la stampa, capace un tempo di intervenire, di mediare, di fare campagne. Ora anch’essa, cambiata nel modo che sappiamo, trasfuga in Tv, Internet, social e così di seguito, è una via per guadagnare dollari, in fretta, vendendo quello che è vendibile, altri spazi, informazioni, propaganda, silenzi. La democrazia è a mezzo servizio.
Di una questione sociale almeno si era accorto il conte Alexis de Tocqueville, arrivato in America più di due secoli fa per imparare il sistema carcerario della nuova Federazione di Stati americani e ripeterlo ai suoi francesi. Il conte, ha notato Cartosio, osserva che la scienza industriale (nel paese nuovo che lui visita) fa retrocedere continuamente la scienza degli operai e dall’altra innalza quella dei padroni. Alexis de Tocqueville prevede pericoli futuri, giorni confusi. In effetti la democrazia gli piace e in America la scorge, e ne coglie le libertà e le prospettive; ma non apprezza i padroni e neppure gli operai; le fabbriche lo disturbano. Il suo paradiso, perduto, è quello dei contadini e dei padroni terrieri.
Bruno Cartosio, “Dollari e no. Gli Stati Uniti dopo la fine del secolo americano”, DeriveApprodi, 2020, pagine 216, 18 euro