La fine è sempre la fine/L’uguaglianza non è più un valore condiviso e sembra sempre più una reliquia culturale del Novecento. Con i quattro speciali estivi, in edicola ogni venerdì con il manifesto, proviamo attraverso la letteratura ad attraversare questa terra moralmente desolata
L’uguaglianza non è più un valore condiviso. Ogni giorno mi capita sotto gli occhi un editoriale che mi racconta un mondo più disuguale. Oggi in uno di Saskia Sassen leggevo: «La logica di inclusione caratterizzata da sforzi coordinati di portare i poveri e i marginalizzati dentro il mainstream economico e politico negli ultimi vent’anni si sta sgretolando». Qualche giorno fa leggevo un pezzo di Richard Sennett che diceva: «La diseguaglianza è diventata il tallone d’Achille dell’economia moderna, ed essa si manifesta in molteplici forme: nella sottrazione delle risorse alle nuove generazioni, nella insufficiente condivisione delle opportunità godute dalla maggioranza, nella nascita di nuove e pericolose forme di esclusione materiale e sociale, nell’allargamento delle differenze reddituali e nella stagnazione dei redditi del ceto medio».
L’uguaglianza insomma sembra un po’ una reliquia culturale del Novecento, una favola edificante che racconteremo ai nostri nipoti per ricordargli il tempo che fu, una specie di oggetto d’antan che uno trova nelle case arredate con il gusto anticato, un samovar arruginito con cui non si può più nemmeno versare il tè. Ma questo processo d’invecchiamento, questa marginalizzazione dell’uguaglianza non è avvenuto, come è naturale, in un lampo. Ci sono stati fattori che hanno contribuito alla sua obsolescenza, e ci sono tanti miti che in questi anni l’hanno voluta descrivere come un personaggio di un èra remota: la meritocrazia, la competitività, la realizzazione di sé, la customizzazione.
Abbiamo tutti ascoltato, prima irritati e poi arresi e indifferenti, queste storie. Nel frattempo hanno chiuso i battenti le palestre di uguaglianza. Le famiglie, le scuole, le università, le fabbriche, gli uffici hanno rinnovato il loro modello educativo. Oggi in ognuno di questi posti, si impara che si è diversi, diversissimi, speciali, che non c’è nessuno uguale a noi: figli unici coccolati, figli di separati trattati meglio o peggio di quegli altri figli dello stesso padre o della stessa madre, studenti di scuole che si gonfiano della retorica dell’autonomia, lavoratori contrattualizzati con una delle decine di formule diverse che si sono inventate in questi anni. Nel bene e nel male, non c’è possibilità di un noi. E così anche i partiti e i sindacati e persino i movimenti religiosi o le parrocchie addirittura sono diventati talmente secondari nella costruzione di valori che anche qui la rivendicazione di un’uguaglianza a venire è una specie di formula ormai solo rituale.
Insomma per tutti questi motivi, con la redazione di Sbilanciamoci, abbiamo deciso di dedicare una serie di numeri estivi a questa assenza, e abbiamo pensato di farlo attraverso la letteratura e attraverso scrittori giovani, anche giovanissimi. Sta a loro in realtà provare a rendere conto non solo di un paesaggio guastato da un precariato lavorativo endemico o da una crisi economica e sociale che non è contingente ma chiaramente strutturale, ma anche di relazioni e di psiche che stanno mutando, geneticamente verrebbe da dire, verso un cinismo raggelato, un senso di inutilità, uno spaesamento, una condizione di resa, che fa assomigliare i personaggi che ci circondano o le facce che vediamo allo specchio, a dei nuovi miserabili.
Ma se la letteratura è ancora capace di darci una possibilità di immedesimarci nell’altro, ecco che ripartire da questi racconti per attraversare questa terra moralmente desolata può essere almeno un modo per non sentirci meno soli e per pensare che proprio in questo, in quanto lettore, ognuno di noi è un mon semblable, un mon frère.