La fine è sempre la fine/Il «racism row» del candidato alla presidenza della Figc Tavecchio è solo l’ultimo dei tanti pregiudizi di cui è intrisa la società italiana nei confronti dei cittadini stranieri
«Opti Poba è venuto qua che prima mangiava le banane e adesso gioca titolare nella Lazio». Non è una barzelletta di pessimo gusto. È la sconcertante frase che Carlo Tavecchio, 71enne presidente della Lega Nazionale Dilettanti, ha pronunciato pochi giorni fa durante l’assemblea in cui presentava la sua candidatura alla guida della Figc. Una gaffe, uno scivolone , l’hanno definita in molti. L’espressione giusta invece è solo una, quella usata dal quotidiano inglese The Guardian : «racism row», discorso razzista. Nonostante la vicenda venga trattata prevalentemente in ambito sportivo, la vera questione è quella che esce dal campo di calcio. La frase di Tavecchio esemplifica i pregiudizi nei confronti delle persone di origine straniera di cui è intrisa la società italiana. Non si capisce infatti perché, per sollevare un problema di selezione dei giocatori, Tavecchio debba offendere i calciatori stranieri.
La reazione delle persone presenti al discorso di Tavecchio – un imbarazzato silenzio – è fin troppo indicativa di quanto i pregiudizi siano tollerati e condivisi. Lo stesso vale per i commenti di alcuni media, che hanno parlato di una battuta : una minimizzazione consueta quando emergono stigmatizzazioni, pregiudizi o veri e propri attacchi razzisti. Che purtroppo sono all’ordine del giorno: prima di Tavecchio ci sono le banane buttate sui campi di calcio e i cori razzisti contro i giocatori stranieri. Ci sono gli insulti all’ex Ministra dell’Integrazione Cécile Kyenge. Dietro Opti Poba, il nome inventato da Tavecchio per identificare tutti i giocatori di origine straniera, ci sono i vari «bingo bongo» con cui troppo spesso vengono definite le persone di origine africana.
Ci sono gli stereotipi che fanno continuamente capolino sui giornali e le «battute» razziste costantemente tollerate. «Io filippino, faccio pulizia», ha affermato Paolo Bonolis in un italiano stentato, accompagnato dalle note dell’inno nazionale delle Filippine, durante una trasmissione televisiva, tra le risate del pubblico. «Vietato l’ingresso agli zingari», è stato scritto sulla vetrina di un negozio a Roma. «Voglio un’impiegata bianca, non voglio una nera!», ha urlato un uomo alla biglietteria della stazione di Verona, trovandosi di fronte un’impiegata di origine africana.
Ci fermiamo qui. Sono solo alcuni esempi del razzismo in cui ci imbattiamo ogni giorno nella redazione di Cronache di ordinario razzismo , il sito gestito dall’associazione Lunaria e dedicato all’analisi di questo fenomeno. Il termine «ordinario» non è stato scelto a caso: stando a quello che vediamo ogni giorno, il razzismo tende a diventare un fatto normale. La frase di Tavecchio? Inqualificabile , secondo il presidente del consiglio Matteo Renzi. Ma forse una netta qualifica da parte del capo del governo l’avrebbe meritata. È stato necessario l’intervento della Fifa per mettere in discussione la candidatura di Tavecchio. Che, per inciso, ha replicato: «Le banane? Non mi ricordo neppure se ho usato quel termine. Mi riferivo alla professionalità richiesta dal calcio inglese per i giocatori che vengono dall’Africa o da altri paesi. Se qualcuno può aver interpretato il mio intervento in maniera offensiva me ne scuso: la mia vita è improntata all’impegno sociale. Posso dire, con arroganza, che pochi hanno fatto quello che ho fatto io per il Terzo mondo».
La minimizzazione di Tavecchio risulta ancora più offensiva dell’offesa in sé, nascondendo un altro stereotipo, ancora più strisciante del razzismo palese. È il falso terzomondismo di maniera, qui portato a garanzia del fatto che «non si è razzisti». Un pietismo che, al pari del razzismo manifesto, deumanizza le persone, le etichetta come un gruppo omogeneo e inferiore.
Nel 1922 Walter Lippmann definì gli stereotipi «stampi cognitivi che riproducono le immagini mentali delle persone, i quadri che abbiamo in testa». Nel 2014 sarebbe ora di decostruire le immagini mentali per confrontarsi, finalmente e senza pregiudizi, con le persone che incontriamo ogni giorno.