Come i figli e nipoti di Agnelli, De Benedetti, Caracciolo e Perrone hanno messo insieme i loro giornali – Repubblica, Espresso, La Stampa, Il Secolo XIX e cugini minori – per dividersi le perdite e concentrare l’indispensabile carta stampata.
Quando da giovani si giocava a carte, andava di moda un gioco chiamato, alla francese, Misère. Nell’ultima mano della partita, detta “rovescino” vinceva chi faceva meno prese possibili. Nel corso del tempo, quando le cose che contano davvero – le finanze, per esempio – apparivano stravolte, ho spesso pensato e forse scritto su apparenti (o palesi?) casi di “rovescino” padronale. Vince chi non prende, chi si tira fuori, chi non è costretto a prendere. Quasi tutti i potenti del denaro mostrano, una generazione dopo l’altra, di sapere questa regola del gioco, anche se nella foga qualcuno se la dimentica, o non l’applica a tempo, o vuole sfidarla. Il caso, per esempio, di Carlo De Benedetti che avendo conoscenza della partita di “rovescino” in corso sull’accidente dei giornali, ha sfidato tutti – figli e amici di gioco (i figli di Caracciolo, di Perrone, di Agnelli, oltre ai figli propri) – dichiarando al mondo: io comprerò. Era l’11 ottobre scorso e “Debenetutto”, come era stato chiamato decenni prima dal manifesto, in un titolo fantasioso, offriva, in una pubblica dichiarazione, alla società Cir, affidata da tempo ai figli, di comprare il 29% delle azioni Gedi (gruppo Espresso con la Repubblica al centro) in loro possesso. I signorini Cir, Rodolfo De Benedetti e fratelli, si ritraevano spaventati. Non ritenevano possibile, o giusto, dar retta al babbo, che secondo loro era in errore. Non si poteva più ritirarsi dall’abbraccio con Exor e non conveniva neppure. Era in corso da un bel po’ una trattativa con gli altri soci Gedi – in primis appunto la società Exor degli Agnelli e poi il gruppo ex Caracciolo e quello ex Perrone per stabilire come ridividersi l’onere dei giornali, tutti i perdita, tutti fuori dal tempo. Discutevano tra loro di regole e sottoregole per spartirsi il disastro. Regole e sottoregole che, in parte, ciascuno che sia davvero interessato e abbia tempo da perdere, può leggere nei testi – liberi per tutti, visibili in rete – della Consob.
Exor in particolare aveva tanti soldi, più di tutti gli altri. Aveva i soldi, molte centinaia di milioni distribuiti agli azionisti in seguito all’accordo con Peugeot da parte di Fca-Fiat, che Exor, come sappiamo, controlla. Inoltre aveva appena venduto Partner Re, impresa di riassicurazione, per 9 miliardi di dollari, ai francesi di Covéa, pur avendola pagata solo (solo!) 6,4 miliardi nell’aprile del 2015. L’ultimo affare di Marchionne per i suoi signori. Exor, Cir e compagnia bella (ex Caracciolo, ex Perrone) erano entrati da mesi in società, fondendo Itedi, società della Stampa e di altro, con Gedi dei Cir. Era solo la seconda mossa, la prima essendo stata tre anni prima, la fusione in Itedi della Stampa con Il Secolo XIX. Ne parleremo un’altra volta, per gli appassionati. Tutto liscio. L’antitrust ordinò soltanto che Repubblica non poteva raccogliere pubblicità a Torino e Genova.
Occorreva fare, e senza pericoli, la terza mossa, all’inizio del 2019. Così si sono riuniti con i loro avvocati e banchieri, sottobanchieri compresi, ascoltati consiglieri e cortigiani, finché all’inizio dell’autunno del 2019 – e forse prima, prima comunque di ogni avvisaglia ufficiale di coronavirus – e tutti insieme, per non strapparsi i capelli – hanno deciso come condurre la mano di “rovescino”. La prima scelta strategica è stata di unire tutte le perdite, cioé mettere insieme tutte le carte altre volte vincenti, tutti gli assi, insomma. Hanno fatto i conti, hanno deciso, strillando tra loro in silenzio, di come dividersi le famose perdite. Si trattava di ricostruire la società Gedi, mettendo dentro La Stampa, Il Secolo XIX e le frattaglie, insieme all’Espresso con la Repubblica. Hanno fatto i conti e si sono redistribuiti le azioni. Sarebbe nata una società “nuova”, Gedi rinata, a maggioranza Exor. Cir e gli altri avrebbero mantenuto pacchetti tali da limare ancor meglio le perdite e contemporaneamente conservare un po’ di voce in capitolo – assunzioni, piccoli interessi – e partecipare ancora un po’ al privilegio nobiliare di essere comproprietari di importanti giornali, il piacere di far parte “di quelli che contano”, nella ormai assediata buona società. Carlo Debenetutto ha messo a rischio il gioco: non fosse mai che qualcuno dei tanti apparati antitrust si occupasse del caso. Superata senza danni la curva pericolosa, si trattava di non farsi troppa concorrenza con i diversi giornali, orientare tutto il “pacco” in linea con il governo – senza sottilizzare: qualunque governo, visto che ogni governo ha bisogno della stampa favorevole – tagliare le spese di produzione, soprattutto il costo del lavoro, le sedi all’estero, gli inviati di qua e di là – sviluppando al massimo possibile pubblicità e propaganda – per le multinazionali, per i partiti politici, per ogni governo, per Trump e contro di lui, per le mode – e gestendo il passaggio a internet e ai giornali da tablet. D’ora in poi, affari degli Agnelli, capitani di Exor; e gli altri dietro. Tanto per far bella figura (o per imparare le buone maniere), Exor ha un pacchetto, forse di controllo, del capitale di The Economist, settimanale di assoluto prestigio nel mondo dell’economia e della finanza; e gli altri dietro.
I giornali da tablet li sanno fare tutti; e questo è il guaio. Come farseli pagare? Come farsi pagare tutte quelle belle notizie, tutti gli acuti commenti, le indiscrezioni, le impagabili sviolinate di carta o online? Come ottenere che il 95% di quelli che fanno tablet rinunci, lasciando spazio ai più competenti, ai più ricchi? Come spiegare a multinazionali, a governi, a partiti, a inserzionisti semplici, a persone comuni, che di giornali, comunque composti, da chiunque diretti da chiunque scritti, in carta, o in rete, o come si vuole, non si può fare a meno?