Un’analisi originale e una ricerca inedita che combina moneta, finanza e struttura produttiva. Con lampi di genio e un consapevole utopismo.
Il libro “Euro al capolinea?” è “certamente un programma di ricerca” (p.7); raccoglie le prime intuizioni (suggestioni) per aggiornare (approfondire) quella che giustamente gli autori chiamano una teoria (macro)monetaria della produzione (capitalistica) (p.42). Ciò presuppone una ricerca che nel tempo troverà una puntualizzazione avanzata. Bellofiore, Garibaldo e Martàgua anticipano con onestà che si tratta di un “parto immaturo … i cui primi risultati vale però la pena di far circolare per un pubblico più ampio di quello accademico”. Sebbene il contenuto esibisca “lampi di genio” che devono ancora trovare una catena causale – la ricerca ha sempre un inizio e farsi le domande giuste è essenziale -, lo spirito del libro è quello onesto del dubbio e dell’utopia: “Un consapevole utopismo che non si sgomenta della realtà, bensì la tratta come un compito e un’invenzione” (p. 114).
Il libro è costruito su due parti distinte: (1) Perché l’uscita dall’euro è la risposta alla domanda sbagliata e (2) L’Europa dopo la crisi greca, la Brexit e le elezioni italiane. Dilemmi e prospettive.
Nella prima parte del libro si delinea quella che potrebbe diventare uno schema macroeconomico fondato sui flussi di capitale (finanziario). È un punto delicato dell’analisi economica non ancora normalizzato. Infatti le operazioni finanziarie di un qualsiasi operatore in Borsa fanno crescere il valore di un’azione già emessa in passato, e questa è tanto più importante tanto più l’impresa o la banca guadagnano in termini di patrimonio, ancorché non sia necessariamente collegata a un aumento delle risorse reali disponibili. Ma l’operazione determina una distribuzione arbitraria del credito dal punto di vista collettivo e, indirettamente, modifica il potere di condizionamento dei processi accumulativi e di crescita. In ragione di questa dinamica, non si osserva una generica crisi del neoliberismo o di una vuota finanziarizzazione, piuttosto della money manager capitalism, un capitalismo di gestori finanziari, che è stato costruito sulla centralizzazione senza concentrazione, su nuove forme di governo societario, sulla concorrenza distruttiva, sull’aumento dei prezzi delle attività finanziarie, e sul consumo a debito. (P.11). Si tratta di un sistema economico caratterizzato da fondi altamente indebitati che cercano il massimo rendimento in un ambiente che sopporta sistematicamente alti rischi. Più precisamente: in assenza di una regolamentazione o supervisione adeguata delle istituzioni finanziarie, i gestori del denaro hanno inventato strumenti finanziari sempre più esoterici e opachi che si sono rapidamente diffusi in tutto il mondo. Contrariamente alla teoria economica ortodossa, i mercati generano incentivi perversi a sostegno del rischio, punendo i timidi. Coloro che giocano sono ricompensati con alti rendimenti perché il finanziamento a debito fa salire i prezzi delle attività sottostanti (L. Randall Wray, 2011). In effetti la bilancia commerciale è qualcosa di molto particolare e non spiega il posizionamento internazionale-europeo dei singoli Paesi. Gli autori, infatti, illustrano efficacemente il punto quando criticano “la visione secondo cui gli avanzi commerciali sono all’origine degli squilibri finanziari dei Paesi in disavanzo implica una relazione causale che si muove dalla bilancia commerciale alla bilancia dei movimenti di capitale, e questa direzionalità sembra abbastanza improbabile in un mondo in cui le transazioni commerciali catturano solo una piccola frazione di tutte le operazioni tra le giurisdizioni, ognuna delle quali necessita di un finanziamento” (p.13).
Il caso italiano è paradigmatico: pur in presenza di un avanzo commerciale, le prospettive (aspettative) di crescita sono condizionate da una struttura che pregiudica o inficia l’avanzo di parte corrente della bilancia dei pagamenti. All’interno della prima parte della narrazione di “Euro al capolinea?” troviamo anche una puntuale descrizione dell’evoluzione del sistema produttivo europeo; si tratterebbe della dinamica relativa alla centralizzazione senza concentrazione, alla concorrenza neo-mercantilista, a cui segue una concorrenza distruttiva fondata sull’aggiunta di nuove strutture produttive, associata al sostegno finanziario diretto e indiretto. Perché la finanza è importante in questo processo? Grazie alle enormi possibilità dei rendimenti che è possibile lucrare dagli investimenti finanziari, il margine di profitto accettabile dagli investimenti industriali è stato spinto verso l’alto (p.66). All’interno di questa dinamica la Germania, occupando quote di mercato emergente, in particolare dalla domanda proveniente dalla Cina, ha potuto consolidare il ruolo di governo dell’economia europea.
La seconda parte del libro, cioè “l’Europa e le sue prospettive”, è particolarmente interessante quando sottolinea come e quanto farsi le domande giuste sia fondamentale, soprattutto quando il contesto della domanda è troppo opprimente (p.85). Se guardiamo alla Storia, per l’Europa ci sono più occasioni di quelle veicolate nel libro. Sono proprio le considerazioni suggerite dagli autori a riconsegnarci la Storia: o l’Europa diventa Europa, oppure sarà condannata alla marginalità, schiacciata tra giganti economici e finanziari. La stessa caduta del Fiscal Compact, ormai scomparso dal diritto comunitario (27 novembre 2018) è l’inizio di qualcosa ancora da scrivere.
Indiscutibilmente il libro è originale e suggerisce una ricerca inedita che combina moneta, finanza e struttura produttiva. Probabilmente una diversa articolazione del libro sarebbe stata più appropriata: (1) la storia e il ruolo del capitale che nel tempo diventa flusso-reddito; (2) l’organizzazione economica e industriale europea dove si qualifica il concetto di centralizzazione senza concentrazione; (3) l’Europa e l’euro che si trovano nella Storia, ma non hanno nessuna consapevolezza di tutto ciò.
Convengo che la crisi attuale non sia la generica crisi del laissez-faire, piuttosto la crisi di un paradigma costruito e perpetrato proprio dalla coppia capitale-Stato ai danni della coppia lavoro-Stato (P. Leon, 2014). Proprio perché è una crisi di paradigma, sarebbe stata interessante catturare la legge di Engel come parte integrante della domanda effettiva (Leon, 1981). Infatti la domanda emergente dalla Cina non è legata a una generica crescita della stessa, piuttosto è legata al maggior peso dei beni superiori rispetto ai beni inferiori interessati da una domanda di sostituzione. Se utilizziamo questa categoria interpretativa è interessante rilevare il significato economico della crescita dei beni capitali e intermedi nel commercio internazionale. Riprendendo dei lavori in corso di realizzazione circa il peso e ruolo della manifattura italiana e lombarda (Fiom-Cgil Lombardia), si osserva come, sia nei beni capitali e sia nei beni intermedi, la Germania registri avanzi commerciali con tutta l’area euro, solo in parte compensata da quella dei beni di consumo.
L’idea che ne esce è quella di una gerarchizzazione della catena del valore che ha le sue radici nel vantaggio di struttura tedesco relativo ai beni capitali e intermedi rispetto ai Paesi europei e alla stessa Cina. Sul punto sarebbe interessante una discussione puntuale, anche perché la domanda che dobbiamo porci è la seguente: in questo contesto l’Italia, così come i Paesi europei possono crescere se privati dei beni che realizzano maggiore valore aggiunto? Il paradosso è ancor più profondo se consideriamo che ad ogni investimento realizzato dalle imprese italiane, come per quelli delle imprese di altri Paesi europei, segue un miglioramento della bilancia dei beni capitali della Germania.
Per concludere, convengo sulla necessità di prefigurare delle linee di ricerca innovative e più prossime alla realtà che viviamo ogni giorno, nella consapevolezza che dobbiamo pur rimuovere quello che Leon (2016) chiamava “poteri ignoranti”.
Stiamo vivendo la Storia, ma ricordando il discorso di insediamento di Kennedy si potrebbe ben dire: “Nella lunga storia del mondo, solo a poche generazioni è stato garantito il ruolo di difendere la libertà nell’ora del massimo pericolo. Non mi sottraggo a questa responsabilità, anzi, le do il benvenuto. Non credo che qualcuno di noi cambierebbe il suo posto con un altro popolo o con un’altra generazione. L’energia, la fede, la dedizione che porteremo in questo sforzo illuminerà il nostro Paese e chi lo serve, e la luce di questo fuoco può davvero illuminare il mondo”.