I numeri del Commercio equo e solidale in Italia: le dimensioni economiche, i dati sull’occupazione, le strategie organizzative per uscire dalla nicchia
Nato come risposta concreta all’incapacità del commercio tradizionale di innescare un processo di sviluppo economico e sociale in molte aree svantaggiate del Sud del Mondo, nel corso degli ultimi decenni il Ces si è affermato come veicolo attraverso cui promuovere una maggiore giustizia nelle relazioni di scambio e una crescente tutela del lavoro, delle risorse ambientali, delle tradizioni e delle culture locali.
Le caratteristiche economiche e organizzative del commercio equo risultano molto diversificate nei vari paesi in cui si è sviluppato. In particolare, nel panorama europeo, il “modello italiano” rappresenta una vera e propria eccezione: se negli altri paesi sono i marchi di certificazione dei prodotti equi e solidali ad aver determinato, negli ultimi anni, la forte crescita del fatturato del comparto, in Italia sono le Centrali d’importazione e le Botteghe del mondo (Bdm) a svolgere un ruolo ancora predominante. Queste organizzazioni, infatti, non si limitano all’attività di vendita dei prodotti, ma svolgono un ruolo fondamentale di informazione e sensibilizzazione sui temi del commercio internazionale, dell’iniquità dei rapporti Nord-Sud, degli effetti della globalizzazione e della necessità di modificare i modelli di produzione e consumo. La quantificazione delle dimensioni del Ces italiano è passata attraverso l’identificazione di una ampia popolazione di organizzazioni, realizzata grazie alla collaborazione di AGICES e al confronto con realtà e attori operanti nell’ambito di questo movimento. La novità più rilevante risiede nell’utilizzo di fonti statistiche ufficiali, fondamentali soprattutto per sistematizzare i dati relativi alle dimensioni delle organizzazioni e utili per la determinazione dell’attività economica da esse svolta in via prevalente (Ateco 2002). In particolare sono state utilizzate le nomenclature e classificazioni ufficiali prodotte dall’Istat e le informazioni aggiuntive messe a disposizione dalle Camere di commercio (attraverso Infocamere). É importante sottolineare che sebbene le unità censite non costituiscano un universo univoco ed ufficiale, esse rappresentano una grandissima parte del Ces italiano, comprendendo tutte le organizzazioni di maggiori dimensioni economiche.
L’analisi effettuata ha preso in esame cinque dimensioni chiave. La prima è quella relativa alla natura giuridica e alla funzione prevalente svolta dalle organizzazioni: il 46% delle 379 unità censite sono imprese, principalmente cooperative, mentre il rimanente 54% è costituito da associazioni. Considerando invece la funzione prevalente, emerge che 11 fra le 176 imprese censite (il 3% del totale) sono Centrali d’importazione, cioè organizzazioni che curano le relazioni commerciali con i gruppi di produttori dei Paesi in via di sviluppo. L’analisi della dimensione anagrafica delle organizzazioni di Ces mostra una realtà piuttosto giovane, che si è espansa nel corso degli anni ’90 e si è rafforzata negli anni successivi, e che ha visto nascere sempre più realtà di tipo imprenditoriale rispetto a quelle di stampo associativo: il 35% delle imprese censite, infatti, è nato dopo il 2001. Al contrario le centrali d’importazione rappresentano la componente “storica” del movimento, con il 65% delle unità nate prima del 1995. Dal punto di vista settoriale si rileva come l’attività prevalente svolta dalle organizzazioni considerate consista nel commercio al dettaglio, con il 57% delle unità censite; si hanno, poi, le attività associative (23,7% delle organizzazioni) e le altre attività (19,3%): quest’ultimo settore include molteplici voci, quali, ad esempio, il commercio all’ingrosso e l’intermediazione del commercio, l’istruzione, i servizi alle famiglie o alle imprese. Il settore di appartenenza varia anche in base alla tipologia delle unità considerate. In particolare, le organizzazioni che hanno forma giuridica di impresa rispondono maggiormente a logiche di mercato, incentrando la loro attività sulla commercializzazione dei prodotti, mentre le associazioni, pur occupandosi della distribuzione dei prodotti del commercio equo in maniera considerevole, si dedicano ad attività di tipo politico-culturale. La dimensione occupazionale è stata misurata attraverso il numero degli addetti: l’analisi svolta rivela una dimensione media complessiva delle organizzazioni piuttosto piccola, ma molto variabile in relazione alla natura giuridica e alla funzione prevalente. Infatti il 95% delle associazioni si colloca nella dimensione “micro” con un numero di addetti da 0 a 2, mentre questa quota per le imprese è pari al 41%. Nelle imprese la dimensione media è pari a 8 addetti, considerando separatamente le Centrali d’importazione la media si attesta sui 20 addetti per centrale, un numero significativamente più elevato rispetto al complesso delle unità censite.Per quanto riguarda l’ultima dimensione considerata, quella economica, il fatturato totale del settore (al netto di quello delle associazioni), nel 2005, è stimato intorno a 103 milioni di euro. In particolare, il 44,5% del fatturato totale, pari a quasi 46 milioni di euro, è imputabile alle Centrali, mentre quello delle imprese/Botteghe del mondo è di oltre 57 milioni di euro. Notevole è poi la differenza tra il valore della produzione per unità delle Centrali e quello delle Botteghe: nelle prime, tale valore è superiore a 4 milioni di euro, decisamente molto più elevato di quello delle Bdm, pari a circa 347.000 euro. (1)
In conclusione, i risultati ottenuti mostrano che il Commercio equo e solidale italiano riflette molte delle caratteristiche delle organizzazioni non profit e della società civile. Pur realizzando attività di “elevata qualità sociale”, le organizzazioni analizzate (e anche quelle di tipo imprenditoriale) appaiono caratterizzate da piccole e piccolissime dimensioni occupazionali ed economiche e da una debole efficienza, evidenziata dai bassi valori della produzione per addetto; questo “nanismo” delle unità considerate, peraltro meno marcato per le realtà del Nord e per quelle socie di AGICES, può rappresentare un forte ostacolo allo sviluppo del Ces italiano, pregiudicando la possibilità di intraprendere un percorso di crescita e di “uscita dalla nicchia”, indispensabile per aumentarne la visibilità e l’efficacia.
(1) L’analisi è sviluppata in maniera più approfondita nel volume “Tutti i numeri dell’equo”, di Elena Viganò, Michela Glorio e Anna Villa, Edizioni dell’Asino, 2008, in uscita in questi giorni nelle librerie.