Due questioni agitano la sinistra inglese, la Brexit – analizzata qui accanto nell’articolo di Mary Kaldor – e la polemica sull’antisemitismo. Qui si ricostruiscono i fatti e il dibattito il corso.
Il Labour e la Brexit dopo la scissione
Dopo l’uscita dei 7 parlamentari laburisti, il leader, Jeremy Corbyn ha capito che per fermare l’emorragia di consenso e di parlamentari a cui si esponeva doveva intraprendere una strada più decisa di contrasto alle politiche di Theresa May sulla Brexit. Precedentemente la linea si basava su chiedere nuove elezioni per condurre in maniera diversa la trattativa con l’Europa; ora il Partito Laburista ha aperto ufficialmente alla possibilità di un secondo referendum anche senza andare al voto (The Guardian). Rimarrebbe comunque il problema di trovare una maggioranza per chiedere il referendum, che al momento non c’è. Una possibilità emersa è che il Labour si astenga sul piano presentato da May e che in cambio però si vada ad un secondo referendum (The Guardian). Davanti alla possibile disobbedienza di alcuni deputati laburisti nel sostenere il remain, John McDonnell – ministro delle Finanze ombra e numero due del partito – ha sostenuto la possibilità di ricorrere alla disciplina di partito. Ha inoltre aggiunto che parteciperà alla marcia della coalizione di laburisti e conservatori contro la Brexit, la People’s Vote March, che si terrà il 23 marzo (The Guardian).
Subito dopo questa svolta, il Labour ha proposto un emendamento per migliorare l’accordo con la UE, che riguarderebbe la permanenza nell’unione doganale (che implica l’assenza di tariffe tra i membri dell’Unione e la capacità di stabilire le politiche commerciali con Paesi terzi), il rafforzamento del mercato unico (che implica la permanenza nell’unione doganale e la libertà di movimento per beni, servizi, capitali e persone), l’assenza di barriere fisiche in Irlanda (backstop) e la difesa delle norme in difesa di ambiente e lavoratori (qui il piano). Non vi è riuscito. Ciò che però il Partito Laburista è riuscito a far passare è l’emendamento Cooper sulla possibilità di discutere l’estensione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona che regola l’uscita del Regno Unito dall’Europa.
Ora si attende che May porti in Parlamento il 12 marzo la nuova bozza di accordo, che dovrebbe essere estremamente simile alla precedente già affossata a gennaio (backstop, con permanenza temporanea nell’unione doganale fino al raggiungimento di un accordo in merito al regime commerciale tra UE e Regno Unito).
Questione centrale nell’accordo rimane il ruolo della backstop, la frontiera morbida, tra Irlanda e Irlanda del Nord, al quale il partito unionista Democratic Unionist Party (DUP) si oppone con tutte le forze, volendo che le stesse regole sul commercio valgano per Irlanda del Nord e Regno Unito (Bbc). Se il Regno Unito uscisse dalla UE, e quindi da mercato unico e unione doganale, l’Irlanda costituirebbe la frontiera europea con il Regno Unito, di cui l’Irlanda del Nord fa ancora parte. Dato che istituire una frontiera con muri e controlli farebbe riesplodere il conflitto tra chi vuole l’Irlanda del Nord nel Regno Unito e chi vuole l’unità dell’Irlanda e la piena indipendenza da Westminster, la UE è d’accordo nel volere il backstop (Bbc). Il problema è che forma questa backstop avrà e se sarà limitata nel tempo o meno, dal momento che la UE non vuole permettere regimi transitori per il Regno Unito, mentre i brexiteers di Rees-Mogg non accettano che il regime speciale per l’Irlanda del Nord sia a tempo indeterminato o regolato dalla UE. Di qui l’esigenza dell’approvazione dell’accordo chiuso a Bruxelles tra Cox e Bernier entro il 29 marzo su come conciliare l’uscita dal mercato unico e dall’unione doganale con la necessità di non istituire una barriera rigida tra le due parti dell’Irlanda.
Una fonte della Commissione europea nel frattempo ha affermato che esiste la possibilità di estendere di 21 mesi il tempo per fare un accordo tra UE e Regno Unito, ma Francia e Spagna si oppongono. Estendere i termini vorrebbe dire infatti fare un favore ai nazionalisti sul suolo continentale, che potrebbero così attaccare la UE, volere la rottura per poi essere aiutati a ricomporre ciò che non è ricomponibile. Ad ogni modo, il capo negoziatore europeo per la Brexit, Michel Barnier, ritiene che l’estensione del termine per l’uscita del Regno Unito dalla UE sia inevitabile.
Il Labour e la questione dell’antisemitismo
All’interno di questo intricato mosaico, dopo la fuoriuscita di 9 suoi parlamentari, il Labour, oltre alle ambiguità sulla Brexit, rimane lacerato dalla questione dell’antisemitismo a sinistra. Per provare a rispondere alla crescente preoccupazione che gli ebrei inglesi, uno degli atti simbolici di Corbyn è stato recarsi ad ottobre a ricordare l’ottantaduesimo anno dalla battaglia di Cable Street contro i fascisti di Oswald Mosley, la cui sconfitta fu determinata dall’unione delle organizzazioni ebraiche dell’East End con i movimenti socialisti inglesi, che, a loro volta, contavano tra le loro fila diversi membri ebrei. La comunità ebraica inglese ha una lunga storia di sostegno e militanza nel Partito Laburista e più generale nelle lotte antifasciste e socialiste, ma si sente estremamente a disagio, determinando quindi una riduzione nel consenso del partito (Newstatesman).
In particolare, una delle parlamentari del Labour, Luciana Berger, presidente del Jewish Labour Movement, ha deciso di lasciare il partito in seguito ad una lunga serie di attacchi antisemiti subiti da membri del Labour. Il fondatore e presidente di Momentum, Jon Lansman, ebreo, si è detto profondamente dispiaciuto per l’uscita di Berger dal partito e, pur preoccupato dall’antisemitismo nel Labour, ritiene Corbyn sia un sincero antirazzista (The Guardian). Se gli attacchi sul supporto di Corbyn alla causa palestinese sono strumentali e sbagliati, cionondimeno 663 casi di antisemitismo sono stati sollevati nel partito negli ultimi dieci mesi, il leader del Labour ha effettivamente fatto due scivoloni. Prima di diventare segretario del Labour difese un murales antisemita – dal quale poi hai preso le distanze – e con una battuta negò che i sionisti inglesi potessero avere l’umorismo inglese, aggiungendo che quindi andrebbe loro insegnato, specificando così una caratteristica culturale di chi dovrebbe essere invece solo considerato per le proprie opinioni politiche. Così come si fa con i conservatori di cittadinanza inglese non ebrei. Anche rispetto a quest’episodio Corbyn si è detto deciso ad utilizzare meglio il termine sionista dal momento che sempre più viene utilizzato per dire ebreo (The Independent). Inoltre se Corbyn non è antisemita, alcune figure a lui vicine, come Christine Shawcroft, presidente di Momentum, o Chris Williamson, hanno più difficoltà a passare l’esame. Ad esempio Shawcroft ha difeso un membro del Labour dalla sospensione nonostante questi avesse sostenuto che la Shoa sia stata una “bufala”. In seguito si è dimessa dall’organo che valuta le dispute interne al partito, negando di sapere cosa avesse scritto precisamente il compagno di partito.
Il dibattito sull’antisemitismo nel Labour ha una storia che inizia con la sospensione di Ken Livingstone e Naz Shah nel 2016, più tardi accompagnati da Jackie Walker nello stesso destino. Il caso Livingstone ha innescato il dibattito sull’adozione della definizione di antisemitismo dell’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance). Il Labour nell’ottobre 2018 ha adottato la definizione dell’IHRA aggiungendo che con questa non bisogni limitare la libertà d’espressione e la possibilità di criticare, anche duramente, Israele (un dibattito in merito). Il partito si è quindi imbarcato in un controverso processo di revisione della politica interna sull’antisemitismo, che è terminato nel Chakrabarti Report . Infine, in seguito alla scissione del febbraio 2019, Corbyn ha sospeso un parlamentare a lui storicamente vicino, Chris Williamson, che oltre ad aver inanellato una serie di episodi difficilmente scusabili ha sostenuto che il Labour abbia “concesso troppo” alle accuse di antisemitismo. Fonti interne al partito leggono questa mossa come un tentativo di riunificare il partito dopo l’evento epocale -almeno per la tradizione inglese- di una scissione.
Accanto ai casi reali di antisemitismo, come dicevamo, ovviamente i laburisti di destra, e più in generale la destra sionista e l’establishment conservatore, hanno strumentalizzato le posizioni vicine alla causa del popolo palestinese di Corbyn per accusarlo di antisemitismo, stabilendo la falsa equivalenza tra antisionismo e antisemitismo (qui). Intellettuali come Edward Said o Judith Butler possono essere definiti antisionisti ma proponendo uno stato bi-nazionale con eguali diritti per palestinesi ed ebrei non pongono alcuna minaccia a chi si sente in pericolo in quanto ebreo. La questione antisemitismo e antisionismo riguarda anche questo, ossia la molteplicità di significati che il termine “antisionista” può assumere e la relazione tra critica al diritto degli ebrei di avere una nazione e la critica al nazionalismo, con il suo necessario razzismo implicito.
Rispetto all’antisemitismo, se è vero che il problema esiste, è altrettanto vero che è stato ampiamente strumentalizzato da media conservatori solitamente piuttosto razzisti verso musulmani e minoranze e dai Tories, la cui politica dell’ “ambiente ostile” contro la Windrush generation, i cittadini del Commonwealth emigrati in Regno Unito dai Caraibi è una evidente forma di razzismo (The Guardian)
Tories e media conservatori usano spesso un linguaggio xenofobo favorendo l’odio. La loro attenzione sull’antisemitismo è quindi quantomeno ipocrita. All’interno del Labour la destra interna legata a Tony Blair ha usato le accuse di antisemitismo per indebolire la leadership di Corbyn. Ciò non di meno, come abbiamo scritto sopra, il problema è reale ed è legato a figure della sinistra estrema – sia in termini di attivisti che di eletti – entrati nel partito con l’ascesa di Corbyn. Spesso questi attivisti supportano teorie cospirazioniste e tendono a confondere le categorie di ebreo, sionista ed israeliano. Per concludere, il problema di fondo è che, essendo l’antisemitismo oggetto di una battaglia interna contro Corbyn, la soluzione della questione risulta piuttosto complessa. Ad ogni modo, se un problema – l’antisemitismo – viene strumentalizzato, rimane l’oggetto della contesa, l’antisemitismo, che non è appunto una mera fantasia dei nostalgici di Blair.
A che punto è la notte? Brexit, razzismo e neoliberismo
Al di là delle ambiguità e delle contraddizioni del Labour, sulla Brexit, si può concludere, come sostiene Mary Kaldor, che il voto per la Brexit sia stato un voto legato senza dubbio al disagio di particolari zone del Regno Unito, in particolare le più deindustrailizzate. Ma che ci sia disagio non significa che non sia avvenuta una profonda mistificazione organizzata da settori della classe dirigente, così come è chiaro dall’analisi delle caratteristiche del nazional-populismo in Europa, Stati Uniti e Brasile. Brexit è avvenuta sotto il segno dell’idea di un Regno Unito post-imperiale, che tra Commonwealth e rapporti con gli Stati Uniti può fare a meno del continente europeo. Sulla scia dell’ondata reazionaria globale, che nella forma trumpiana è stata efficacemente chiamata white-lash (ossia “reazione dei bianchi”), sotto il violento linguaggio dello UKIP di Nigel Farage (che siede nello stesso gruppo europeo con i Cinquestelle), il voto è stato determinato da campagne razziste contro gli stranieri e per la libertà di deregolamentare l’economia più di quanto sia già possibile all’interno della UE. Anche la sinistra che ha così creduto di colpire l’Europa neoliberale facendo di fatto una scelta di campo. I lexiters, chi vuole uscire dalla UE da sinistra, hanno pensato di difendere la classe operaia inglese contro la classe operaia migrante che si trova a vivere e lavorare in Inghilterra.
“Bisogna rispettare la volontà del popolo”. Questo lo slogan che riecheggia ovunque. Ma chi rappresenta questo popolo che, ad esempio, ha votato per la Brexit? Chi ha diritto a farne parte? Questa cruda domanda sulla segmentazione etnica e di genere di questo aggregato, apre le porte a una interessante riflessione sul razzismo retrostante alla Brexit, con la sua sordida malinconia imperiale.
Ma la classe operaia bianca che si tende a far coincidere con il popolo non esiste in natura. È piuttosto l’esito di complesse traiettorie di colonialismo, migrazioni, sfruttamento e divisione dei lavoratori. Robbie Shilliam, professore alla Johns Hopkins, parte da qui nel suo “Race and the Undeserving Poor: From Abolition to Brexit” per analizzare la distinzione tra i “poveri meritevoli di diritti” e quelli che “meritano invece di esserne esclusi” per appartenenza etnica o religiosa. In questa mistificante distinzione tra poveri nazionali e non, è interessante anche notare come la Brexit probabilmente non aiuterà nemmeno la classe operaia inglese bianca, dal momento che la campagna è stata dominata dai settori economici e politici più nazionalisti della destra neoliberale inglese. A meno che qualcuno creda che gente come Boris Johnson, Jacob Rees-Mogg o Nigel Farage abbiano qualche interesse ad occuparsi di diseguaglianze. Non a caso Wolfgang Munchau sul Financial Times notava come di fatto i mercati finanziari – fatta eccezione per il mercato valutario – non siano così preoccupati, dal momento che la Brexit potrebbe permettere al Regno Unito di intraprendere politiche ancora più neoliberali di quelle già intraprese. Infine, come dice Kaldor, non bisogna dimenticare che se l’attuale Unione Europea è largamente influenzata da principi neoliberali, ciò si deve anche al contributo specificamente inglese (si ringrazia James Earley).