“Ma come fanno gli operai” è il titolo del libro di Loris Campetti risultato di una lunga inchiesta operaia nelle fabbriche e nei cantieri del Nord Italia. Ne esce una imprescindibile radiografia dei rapporti con i sindacati, la rappresentanza, gli immigrati.
Loris Campetti ci porta in giro per l’Italia del Nord a colloquio con venti o trenta dei suoi amici e delle sue amiche. Sono tutti operai, tanto che il titolo del viaggio è “Ma come fanno gli operai”. L’editore del libro, Manni, riassume così: “Precarietà, solitudine, sfruttamento/ Reportage da una classe fantasma”.
Loris ha di certo un’ invidiabile capacità di mettere a proprio agio le persone; le fa parlare, si confidano con lui, sono convinte che lui capisca i loro problemi e sappia spiegarli: dunque, da Torino al Varesotto, dalle valli di Brescia alla Bergamasca, dal Veneto al mare di Trieste impariamo a conoscere i lavori e la speranze della classe fantasma. Le persone che ci raccontano della loro vita sono per lo più inserite nella produzione metalmeccanica, tranne gli occhialai del bellunese che lavorano naturalmente al “miracolo” Luxottica oltre ai “ragazzi” della gig economy e la gente delle cooperative, dalle parti di Reggio Emilia.
Partiamo da qui, dalle Cooperative “rosse di vergogna”. Il rimpianto per il sistema cooperativo è diffuso in gran parte della regione, anche se nella sfera politica si considera un buon passo avanti l’essere riusciti a sgominare finalmente quel vetusto schema produttivo e quei rapporti sociali poco meno che ottocenteschi. Qualcun altro pensa che sia venuta a mancare, ai lavoratori e ai loro sindacati, la forma di lavoro alternativa all’impresa capitalistica che era l’orgoglio del modello emiliano, convinto di aver eliminato una volta per tutte lo sfruttamento. Invece la cooperativa-tipo fallisce, oppure non ha più soci veri lavoratori; la solidarietà è perduta e prevalgono gli interessi individuali e l’egoismo.
Le persone che ne discutono con Campetti sono abbastanza convinte di non essere riuscite a resistere all’ “assalto dei bocconiani” unificando così, in una parola, tutta la scienza maliziosa, tutto l’armamentario economico del profitto, travestito e modernizzato in parole (inglesi) e in opere (algoritmi spesso incomprensibili, sempre nemici).
Da notare qui il racconto di Caterina Elisa, delegata sindacale. Da lei veniamo a conoscere altri aspetti materiali di quello che non c’è più e di quello che è rimasto. A Loris che le chiede cosa si pensi, nei luoghi di lavoro, degli immigrati, Caterina risponde, con un sorriso. “Nel facchinaggio gli immigrati sono moltissimi, e a lavorare in Coopservice ce ne sono, soprattutto di indiani, africani, est-europei. Sono colleghi che sentono parlare per la prima volta di diritti, tra loro c’è chi pensa di essere miracolato nel farsi spremere come un limone e, di conseguenza, si fa fatica a coinvolgerli nelle battaglie sindacali. Dove sto io la maggioranza è composta di donne e uomini immigrati: cinque ragazze nigeriane (….) Le nigeriane sono molto chiuse, ogni comunità ha il suo carattere. In una situazione come questa neanche volendo puoi essere razzista, piuttosto devi fare attenzione a come parli.”
43 anni, licenza liceale, due anni di storia all’università, poi per necessità, il lavoro: Caterina si racconta. “Così sono diventata facchina. Ora sono in distacco sindacale a termine in Cgil, ma presto tornerò a fare la facchina trasportando il tessile firmato Max Mara”.
Sulle orme di Loris Campetti corriamo da Torino (auto), alla Val Trompia (armi), ai cantieri di Monfalcone (grandi navi), a Bergamo (freni Brembo), a Belluno (occhiali Luxottica), a Varese (elicotteri). Gli operai e le operaie che operano in fabbriche diverse, lontane, hanno scarsi collegamenti, senza più un partito, con il sindacato che si sforza di fare quel poco che sa, dicono in modo unanime, con convinzione, che dei partiti non sanno che farsene. Il PD li “ha traditi” ha assunto “posizioni di destra” è quello che ha cancellato l’articolo 18 che tutti considerano una buona cosa perduta.
Con gli immigrati la situazione è confusa: gli immigrati, per esempio i bangla ai cantieri di Monfalcone, sono reclutati da imprese intermediarie o addirittura da caporali, salari e diritti sono quelli correnti nei paesi d’origine, soprattutto nel caso di operai dell’Est Europa. Perciò essi temono di perdere tutto, anche quel poco salario e quei scarsi diritti, quindi non legano con i nativi.
“Sull’immigrazione, nei momenti difficili diamo il peggio di noi”, racconta Gianni, operaio in cantiere, prima carpentiere e ora manutentore diplomato. E’ abbastanza noto per un racconto fatto in televisione; e si è commosso, davanti a tutti. “E’ successo, continua, che un operaio straniero dell’appalto è salito su un pullmino Fincantieri che porta i dipendenti dei paesi della cintura in fabbrica ma è stato costretto a scendere tra le proteste degli operai nostrani”. E ai cantieri navali c’era stata una tradizione internazionalista e proletaria – comunista, suggerisce Loris – che vinceva sulle frontiere e anche nella separazione tra titoisti e stalinisti nella quale erano coinvolti vari porti dell’Adriatico. Ora neanche nelle grandi fabbriche, neanche tra chi costruisce armi, navi, automobili, occhiali, freni a disco, a livello mondiale, (quasi) in nessuno di questi casi il sindacato riesce a farsi valere, il partito degli operai si ricorda di esistere.
Loris ci ha raccontato in brevi precisi ritratti di padroni e d’imprese che assumendo e licenziando, primeggiano nel Nord Italia e di qui nel vasto, difficile mondo. Il pessimismo gli prende la mano quando afferma che nei “prodotti a basso valore aggiunto (…) il nostro paese come l’intero Occidente non può che essere perdente perché ci sarà sempre un paese più a Sud e più a Est dove il lavoro costerà, e varrà, di meno. … Il massimo della modernità può convivere con il massimo dell’oscurantismo: una merce – bibite, mobili, libri, tortellini, computer – accatastata in un magazzino da facchini trattati come schiavi senza diritti e rappresentanza viene poi trasportata a centinaia di chilometri da camion ipertecnologici, dotati di 400 diversi sensori…”.
C’è infine un appello, al sindacato, così debole, così malmenato da tutti. Un appello e insieme una previsione: “Se il sindacato, in una stagione in cui il 97% delle nuove assunzioni è a termine, in forma precaria e interinale, non si porrà subito il problema di rappresentare facchini e fattorini e ciclisti e somministrati e migranti, ma anche matematici e ingegneri e programmatori informatici, tanto vale che si sciolga, perché così com’è ha esaurito la spinta propulsiva.
Loris Campetti, Ma come fanno gli operai, Manni, pagine 159