L’Italia del dopovoto/ La sinistra è stata sconfitta nelle urne perché non è stata credibile. LeU è progetto sconfitto, ma resta l’esigenza della costruzione di una forza unitaria di sinistra.
Alle elezioni del 4 marzo il 60% degli operai ha votato per la Lega e i Cinque Stelle, così come le zone del paese –tra tutte il Sud– che vivono condizioni di povertà, esclusione e disagio sociale. Il 90% di chi ha lasciato il Pd, si è rivolto ai Cinque Stelle e non a Liberi e Uguali. Le elezioni del 4 marzo ci consegnano una maggioranza: anti-establishment.
Ci si è arrivati fallendo nella giusta esigenza di fare una lista unica di sinistra (auspicio anche del Brancaccio), per fare una lista abboracciata, infilando una sequela di errori. Le leadership che hanno accompagnato il processo sono state inadeguate e incapaci di fronte alla sfida. Si sono persi mesi preziosi. Si è accettata e alimentata supinamente un’impronta politicista e di potere dell’accordo tra stati maggiori, invece di cercare -veramente- un riequilibrio con la partecipazione popolare.
La formazione delle liste è stata gestita facendo organizzare delle assemblee territoriali finte, sapendo già che delle loro decisioni non si sarebbe tenuto conto. Ha vinto l’opacità su criteri trasparenti. Territori e società civile: non pervenuti.
Si è fatto del programma elettorale (anche questo sequestrato dagli stati maggiori) una specie di scombinata pezza a colori contraddittoria e ambigua. C’era persino la rivendicazione (poi cassata all’ultimo istante) del contratto a tutele crescenti. È stata esclusa – sempre all’ultimo momento dal programma di LeU – la cancellazione del programma dei cacciabombardieri F35.
Gli ingredienti per perdere le elezioni c’erano tutti.
Ciascuno, per i propri errori e per le proprie responsabilità, deve trarne le conseguenze: già fatto per quanto mi riguarda. LeU è – in queste condizioni e con queste premesse – un progetto politicamente già finito (a meno di una improbabile e dura autocritica e innovazione radicale) e comunque non viene meno l’esigenza della costruzione di una forza unitaria di sinistra.
Ma le miserie delle più o meno piccole vicende di una lista fallimentare non devono oscurare il nodo di fondo. Da anni c’è la crisi (e non solo in Italia) di un modello di globalizzazione -insostenibile non solo dal punto di vista ambientale, ma sociale- che produce diseguaglianze crescenti e povertà massiccia, paura e insicurezza, disagio sociale ed esclusione, rabbia e ricerca del nemico.
C’è stata una reazione della società – come quelle di cui ci ha parlato Karl Polanyi ne La grande trasformazione – che puntualmente arriva quando le dinamiche di mercato (in questo caso della globalizzazione) strabordano: è stata prevalentemente la destra a farsene interprete, con le logiche e le dinamiche che sostituiscono la narrazione di classe con quella populistica e del rancore, ma producendo identità forti: dal “prima gli italiani” all’odio per la casta.
Che fare? La sinistra non è più capace di rappresentare chi dovrebbe rappresentare. Non solo non sa come farlo (e forse non sa nemmeno chi deve rappresentare e come sono fatti quelli che deve rappresentare) ma non sa nemmeno cosa dirgli.
Parla il linguaggio del suo mondo a parte, non quello del cambiamento radicale. Quella riformista, subalterna al paradigma liberista, ha provato a limitare i danni e a temperare la globalizzazione: e si è fatta travolgere. Quella sovranista corre dietro alle pulsioni che premiano solo la destra.
L’ultima volta che la sinistra europea ha scelto – votando i crediti di guerra – la strada sovranista a scapito di quella europea e internazionalista era il 1914: abbiamo avuto la prima guerra mondiale. Quella radicale arranca: in alcune aree resiste e si sviluppa, ma senza blocco sociale (movimenti che sono in gran parte eclissati, classi sociali frantumate, paura e povertà che travolgono tutto) dove va, qual è il progetto di cambiamento, che non sia pura testimonianza?
Di certezze ce ne sono poche. Intanto tra un anno ci sono le elezioni europee: le poche cose sensate sulla strategia per cambiare l’Europa sembra dirle Varoufakis, mentre in Italia gli emuli (anche di sinistra) di Bagnai si aggrappano a suggestioni velleitarie e vacue.
E poi, bisognerebbe capire, avere una chiave di lettura di quello che avviene nella società, di come si individuano e rappresentano le domande di cambiamento: i partiti non sono in grado di farlo, i movimenti non ci sono o sono sotto il magma, il sindacato – spesso travolto da una dinamica neocorporativa – fa storia a sè.
Bisogna ricostruire sedi nuove e diverse (oppure rivoluzionare quelle esistenti) della elaborazione e della costruzione della cultura politica: studiare, ricercare, educare e formare. In secondo luogo bisognerebbe ricostruire un’idea diversa di politica, allargando lo spazio pubblico della partecipazione, della politica diffusa, della soggettività e della decisione politica: anche in questo caso i partiti, invece di essere la soluzione rischiano di essere parte del problema.
Bisogna lavorare per uno spazio pubblico della politica, ampliandolo – oltre la mistica della democrazia digitale e della mitologia basista – a quella “militanza senza appartenenza” che tale vuole rimanere: con le operazioni politiciste e da ceto politico non si va da nessuna parte.
Continuare -per dirla alla Rudi Dutschke- la “lunga marcia nelle istituzioni” con la serietà di chi, anche dal di dentro, vuole cambiare le cose, fare politica dal basso, tornare al lavoro nella società: tutto questo ci sembra indispensabile.
Ma poi bisogna essere credibili: con le proposte di radicale discontinuità sul lavoro, sul reddito, sulla povertà, sulla spesa pubblica, ma anche con i comportamenti individuali e l’esempio personale.
A sinistra non si può dire una cosa, pensarne un’altra e poi farne un’altra ancora. Così non si va da nessuna parte. La gente non ti crede più. Come si è dimostrato.
Dal blog di Giulio Marcon sull’Huffinghtonpost.